Apr. 5th, 2025

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Cowt-14 Quinta Settimana  - M2

Fandom: Bungou Stray Dogs

Numero parole: 720

Note: ambientata in un What if che per ora esiste solo nella mia mente, grazie ad una misteriosa Abilità abbiamo tre Odasaku di varie realtà temporali che si incontrano al bar Lupin. 



Chuuya non poteva credere ai propri occhi, quella era la scena più surreale e allo stesso tempo assurda alla quale in ventidue anni di vita avesse mai assistito. Al bancone del Lupin, di quella bettola che mai nella sua mente avrebbe promosso a bar, se ne stavano tre uomini, tre Odasaku, esattamente come il quattrocchi gli aveva accennato. Cercò di trattenere una bestemmia che stava già per lasciare le sue labbra. Decise invece di avvicinarsi per recuperare il proprio Oda Sakunosuke. Per conto suo quella storia doveva finire al più presto, soprattutto prima che un certo Sgombro iniziasse a ficcarci il naso. Dazai probabilmente sapeva, ma non aveva ancora fatto la propria mossa; il che rendeva Chuuya solo più nervoso ad ogni passo. Oda Sakunosuke era sempre stato un mistero per lui; un rompicapo al quale aveva deciso di non prestare troppa attenzione. Oda era una cosa di Dazai e quello bastava per tenerlo fuori da qualsiasi questione lo riguardasse. Ora a suo malgrado si trovava in prima linea e sapeva di non potersi levare da quell’impiccio. Sentì nuovamente la necessità di bestemmiare ma si trattenne.

«Tu sei Nakahara Chuuya»

A parlare era stato uno dei tre uomini al bancone, quello seduto più lontano, che per primo doveva essersi accorto della sua presenza. A quelle parole anche gli altri due Oda si voltarono e lo fissarono curiosi. Erano identici, stessa faccia da schiaffi a cui Chuuya in quel preciso istante avrebbe tanto voluto cambiare i connotati. Non sapeva nemmeno lui il perché ma tutta quella situazione non gli piaceva. Nemmeno un po'.

«Il partner di Dazai» aggiunse un secondo posando il bicchiere;

«Un Dirigente della Port Mafia» concluse l’ultimo.

Chuuya strinse i pugni. Non era lì per sorbirsi il terzo grado, soprattutto se a farlo era un uomo che fino al giorno prima per lui era stato solo un semplice tuttofare. Doveva recuperare l’Oda Sakunosuke giusto e portarlo da Ango, al resto avrebbe pensato quello stronzo di un impiegato governativo. Fece mente locale per ricordare a se stesso la ragione per la quale avesse accettato, anche se era inutile rimarcare l’ovvio. Soffocò l’ennesima bestemmia.

«Beh che sei venuto a fare qui?» domandò il primo Odasaku. A Chuuya non sfuggì né lo sguardo né il tono il voce che l’uomo aveva utilizzato. Probabilmente aveva frainteso le sue intenzioni. Era meglio mettere le cose in chiaro;

«Senti un po' stronzo...» ma non ebbe il tempo di finire la frase che venne nuovamente interrotto;

«Nakahara-san è qui per me» a parlare era stato il secondo Odasaku; quello ancora intento a giocherellare con il bordo del proprio bicchiere. Chuuya si immobilizzò di colpo. Non se lo aspettava. Ma d’altra parte non poteva aspettarsi niente di diverso dall’amico di Dazai, da quel cazzo di fantasma che ora dopo quattro anni tornava a scuotere le loro esistenze.

«Non sono venuto per una visita di cortesia. Hai ragione, sono qui per te. Sei il tuttofare vero?»

Oda sorrise.

«Senti un po' che intenzioni hai?» il primo Oda era tornato alla carica; Chuuya istintivamente si mise sulla difensiva iniziando a manipolare la gravità intorno a lui.

«Vediamo tutti di darci una calmata» esordì il terzo Odasaku. Fino ad allora rimasto in silenzio.

«Se il nostro amico vuole seguirlo non possiamo impedirglielo» concluse finendo il suo drink scambiandosi un’occhiata con Chuuya. Il mafioso parve calmarsi.

«Dove lo vuoi portare?» come non detto. Il Dirigente si appuntò mentalmente di fargliela pagare non appena la situazione sarebbe stata anche solo vagamente a suo favore. Chuuya sapeva benissimo di non aver speranze contro non uno ma ben tre Oda Sakunosuke; Ango lo aveva informato dell’Abilità che quel tuttofare possedeva. Avrebbe facilmente evitato ogni suo colpo grazie alla preveggenza ma una parte di lui era curiosa di vedere chi tra di loro l’avrebbe spuntata in un faccia a faccia diretto.

«Volete rimandarci indietro?» il terzo Oda, quello pacato si era nuovamente intromesso prima che Chuuya potesse rispondere alla domanda;

«L’idea sarebbe quella sì. Però al momento sto solo ripagando un favore che devo ad uno stronzo» ammise a denti stretti.

«Il quattrocchi vuole vederti» specificò vedendo che non stava ottenendo alcuna reazione.

Solo allora il suo Oda fece per alzarsi.

«Voi continuate pure senza di me. Vado a trovare un vecchio amico»




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Cowt-14 Quinta Settimana  - M1

Fandom: Jujutsu Kaisen (omegaverse, tematiche delicate, aborto)

Numero parole: totale 5389 (capitolo 1: 500 ; capitolo 2: 3910 ; capitolo 3: 979 )




Capitolo 1: la scoperta 


Megumi non era mai stato uno a prendere decisioni facili. Fin da bambino, il suo mondo si era sempre costruito sulle scelte obbligate: la solitudine che gli imponeva il suo status di Omega, il peso di un destino che sentiva di non poter controllare, il silenzio che lo circondava quando non aveva nessuno da cui farsi sentire.

Eppure, ora, in quella piccola stanza silenziosa del suo appartamento, era davanti a una decisione che non aveva mai immaginato sarebbe arrivata.

Positivo.

La parola gli rimbombava nella mente. Non riusciva a fare altro che fissare quella piccola striscia bianca sul test, come se quella fosse la risposta a tutte le domande che non si era mai posto. Omega. Gravidanza confermata.

Lo sguardo gli si annebbiò per un momento, e il respiro divenne più corto, come se avesse perso il contatto con il mondo attorno a sé.

Non era la paura di diventare padre. Non era la paura della responsabilità.

Era il peso di una scelta che non sapeva come fare. Una vita. Un nuovo inizio. Ma con quale diritto?

Con quale diritto poteva permettersi di portare un bambino in un mondo come il loro? Un mondo dove ogni giorno era una battaglia, dove il pericolo non li lasciava mai. E poi c’era Yuji…

Yuji che lo guardava sempre con quella luce negli occhi, senza mai giudicarlo, senza mai chiedere nulla che Megumi non fosse disposto a dare. Ma come avrebbe reagito? Era giusto? Era giusto per loro?

E soprattutto, era giusto per il bambino?

Megumi si guardò allo specchio, il viso che gli restituiva un’immagine che non riconosceva. Il respiro affannato gli sfiorò le labbra mentre le dita, quasi senza volerlo, si posavano sul suo ventre. Un piccolo segreto nascosto dentro di lui. Un segreto che sarebbe stato troppo difficile da mantenere a lungo.

Non sapeva cosa fosse più difficile: guardare il futuro e sentire che, in un modo o nell’altro, avrebbe avuto delle ripercussioni su di lui, o pensare che, se avesse scelto di non affrontarlo, avrebbe passato il resto della sua vita a domandarsi cosa sarebbe successo se avesse preso un’altra strada.

Il dilemma gli si piantava dentro come una spina: tenere il bambino o no? Ogni opzione sembrava portarlo verso una solitudine ancora più grande, verso una distanza che non riusciva a colmare. Era come se l’universo gli stesse chiedendo di scegliere il destino, di prendere il controllo, ma in quel momento, non riusciva a trovare nemmeno la forza di respirare.

Il suono della porta che si apriva alle sue spalle lo fece sobbalzare. Yuji era tornato. Non sapeva nemmeno se fosse giusto dirglielo subito o se avrebbe dovuto trovare il coraggio di affrontare quella verità da solo.

“Hey, Megumi, sei ancora qui?” La voce di Yuji lo raggiunse, familiare e rassicurante, ma Megumi non riusciva a rispondere.

Non sapeva come dirgli che, per la prima volta, la sua vita e il suo futuro dipendevano da una scelta che non avrebbe mai voluto fare.


Capitolo II: scelta di tenerlo 


Yuji si sedette accanto a lui senza fare una domanda, come se sapesse che qualcosa non andava, ma preferisse aspettare che fosse Megumi a parlare. La sua presenza era calda, rassicurante, un contrasto netto con il gelo che invase il petto di Megumi. Aveva bisogno di tempo, eppure non riusciva a smettere di pensare alla verità che gli bruciava dentro.

“Yuji,” la sua voce sembrò stranamente sottile, come se il peso delle parole gli strozzasse la gola, “ho qualcosa da dirti.”

Yuji lo guardò, occhi pieni di quella consueta, implacabile energia. Ma c’era una scintilla in più, come se fosse consapevole che oggi le cose sarebbero state diverse. “Cosa c’è, Megumi? Che succede?”

Non fu la sua preoccupazione, né la sua insistenza, a turbarlo. Fu il modo in cui Yuji lo guardava, come se potesse prenderlo in qualsiasi momento, senza paura, senza reticenze. Megumi abbassò gli occhi, trovando conforto nel rumore del respiro che si faceva sempre più veloce.

Devo farlo, adesso.

“Yuji…” Megumi si fermò. “Sono incinto.” La frase uscì in un soffio, come se le parole avessero una consistenza fisica che minacciava di strappargli il fiato. Non riusciva a guardarlo negli occhi. Non voleva vedere quella reazione. Non voleva vederlo deluso, spaventato o sorpreso.

Ma il silenzio che seguì fu più insopportabile di qualsiasi reazione negativa. Il mondo si fermò per un istante. Megumi sentì il battito del cuore aumentare ancora, come se il suo corpo stesse cercando di scappare da quella realtà. Il pensiero che aveva cercato di seppellire tornò prepotentemente a galla, e si ritrovò a pensare che, forse, non sarebbe stato mai pronto.

Yuji non parlò per un lungo momento. Poi, lentamente, con la solita calma che contrapponeva il suo cuore frenetico a ogni altra cosa, posò una mano sulla spalla di Megumi. “Non devi dirlo come se fosse una cosa da cui scappare, Megumi,” disse con voce dolce, ma ferma. “Non mi spaventi.”

Megumi sollevò lo sguardo, trovando gli occhi di Yuji che lo guardavano con la solita sincerità, quella che gli faceva sentire che niente poteva davvero separarlo dal suo compagno. Non mi spaventi…

“Non so se sono pronto, Yuji. Non so se…” Megumi non riusciva a continuare. C’era troppa paura, troppo dolore da esprimere. Ma Yuji non lo lasciò finire.

“Non dobbiamo essere pronti per tutto, Megumi,” Yuji rispose, la sua voce ferma e serena. “Però possiamo farlo insieme. Se è quello che vuoi.”

Era più di quello che Megumi si aspettava. Non c’era giudizio, non c’erano domande. Solo una promessa silenziosa. Yuji non chiedeva a Megumi di essere perfetto. Non chiedeva risposte facili. Sapeva che la scelta sarebbe stata difficile. Eppure, in quel momento, non c’era nulla che li separasse. Nessuna distanza. Nessuna paura. Solo la possibilità di affrontare ciò che sarebbe venuto.

Megumi chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla sensazione di quelle parole che gli risuonavano nel cuore. Era una possibilità, una chance che non pensava di meritare, eppure Yuji gliela stava offrendo. Non come una via di fuga, ma come una nuova via da percorrere. E, per la prima volta, Megumi sentì che forse, insieme, avrebbero potuto farcela.

“Voglio tenerlo,” sussurrò alla fine, la decisione che gli aveva tormentato il cuore si schiariva finalmente. Non sapeva cosa sarebbe successo, ma sapeva che non sarebbe stato da solo. Non più.

I giorni seguenti furono un susseguirsi di silenzi e parole non dette, ma anche di piccoli momenti di tranquillità. La decisione era stata presa, eppure, a volte, Megumi si sentiva come se il peso del futuro gli stesse schiacciando il petto. Non c’era più un’indecisione totale, ma una consapevolezza che si faceva sempre più tangibile: il mondo stava cambiando intorno a lui, e lui non avrebbe mai potuto tornare indietro.

Yuji non lo lasciava mai solo. Ogni giorno, un gesto di supporto, un sorriso che cercava di rassicurarlo. Ma Megumi, nonostante l’amore che sentiva per lui, non riusciva a non sentirsi distante. Un vuoto lo separava dalla realtà di quella decisione, e la paura che lo aveva tormentato non se ne andava.

“Come ti senti?” la voce di Yuji arrivò una sera, mentre si sdraiavano nel silenzio della loro stanza. Megumi aveva gli occhi chiusi, ma non stava dormendo. Sentiva il respiro di Yuji vicino, il calore che emanava da lui. Non c’era mai stato nessuno a cui si fosse sentito tanto vicino e, allo stesso tempo, così distante. La sua solitudine sembrava essere rimasta intatta, incastrata tra il loro amore e la consapevolezza che la sua vita stava cambiando per sempre.

“Non lo so,” rispose, la sua voce ancora bassa, come se avesse paura di parlare troppo a voce alta. “Ogni volta che ci penso, sembra tutto troppo grande. Troppo per me.”

Yuji si girò, cercando il suo sguardo. “Non sei solo, Megumi. Io sono qui, sempre.” La sua mano sfiorò delicatamente il braccio di Megumi, ma quest’ultimo si irrigidì, come se non fosse ancora pronto a cedere completamente a quella vicinanza. Non era paura di Yuji. Era paura di se stesso, della sua incapacità di gestire ciò che stava accadendo.

“Sai, quando ero piccolo… ho sempre pensato che non avrei mai potuto essere un buon genitore. Che non avrei mai avuto la forza.” Yuji continuò a parlare, come se cercasse di sbloccare qualcosa dentro di lui. “Ma poi ho visto te. E ho capito che… beh, forse non serve essere perfetti. Serve solo esserci. Ci basta esserci.”

Megumi sentì le parole risuonare dentro di lui. “E tu pensi che io sarò un buon genitore?” chiese, il tono basso ma sincero, come se volesse sapere se Yuji vedeva in lui qualcosa che lui stesso non riusciva a riconoscere.

“Non è una questione di essere ‘buoni’ o ‘perfetti’,” Yuji rispose con un sorriso, un sorriso che sapeva di fiducia. “È una questione di esserci. E tu ci sei. E lo sarai. Lo so.”

Megumi chiuse gli occhi, lasciandosi andare per un attimo. La verità che Yuji gli stava offrendo era più grande di qualsiasi cosa lui potesse sentire dentro. Non si sentiva pronto, ma in quel momento non aveva bisogno di esserlo. Quello che aveva bisogno era solo di fidarsi.

“Non posso cambiare il passato,” disse infine, con una voce più calma, più pacata. “Ma voglio provare a costruire un futuro. Con te. E con lui.”

Yuji gli strinse la mano. “E lo faremo, Megumi. Lo faremo insieme.”

 


 

La gravidanza di Megumi proseguì tra alti e bassi. Nonostante la paura che ogni giorno portava con sé, c’era qualcosa di incredibilmente solido nel sostegno di Yuji. Ma non era tutto facile. A volte, Megumi si svegliava nel cuore della notte, preso dal panico per ciò che sarebbe successo. Altre volte, era la sensazione che nulla sarebbe mai stato abbastanza. Ma in quei momenti, Yuji c’era, pronto a sostenerlo, a rassicurarlo, a prenderlo tra le sue braccia quando il mondo sembrava troppo grande.

Ma le cose non erano solo semplici per Megumi. Anche Yuji stava combattendo con i suoi dubbi. C’era una tensione che non riusciva a spiegare, come se qualcosa fosse sotto la superficie della loro relazione, qualcosa che li stava cambiando. La consapevolezza che Megumi stava per diventare genitore lo aveva travolto in modi che non si aspettava. Non solo doveva fare i conti con il suo ruolo di compagno, ma anche con il futuro che lui stesso non riusciva a vedere con chiarezza.

Eppure, entrambi sapevano che avevano fatto una scelta, e non l’avrebbero mai rimpianta. La vita non era mai stata facile per loro. Ma ora, forse, avevano trovato la loro strada, una strada che, seppur imperfetta, li avrebbe portati a qualcosa di nuovo, di importante, insieme.

I mesi passarono con una velocità che sembrava ingannevole, come se la gravidanza di Megumi fosse diventata una tempesta in pieno svolgimento, ma lui non riusciva mai a capire se stava vivendo l’occhio del ciclone o se stava solo cercando di sopravvivere alla furia. Il corpo cambiava e, con esso, anche la sua mente. C’era una sensazione di costante inadeguatezza che non riusciva a scrollarsi di dosso, un’ombra che lo inseguiva in ogni angolo. Ogni piccolo cambiamento, ogni piccolo malessere fisico sembrava amplificato dalla sua ansia.

A volte, si svegliava nel cuore della notte, un sudore freddo sulla pelle, con la sensazione che qualcosa stesse andando storto. Le nausee mattutine non lo abbandonavano mai, ma era il battito del cuore del bambino a tormentarlo, a volte così forte e veloce da sembrare il suo, altre così lontano che lo faceva dubitare di essere pronto per accogliere davvero quella nuova vita.

Le sue mani tremavano ogni volta che cercava di mangiare, come se il cibo fosse qualcosa di estraneo, di non appartenente a lui. Sentiva un peso crescente nel petto, ma sapeva che non poteva parlarne con nessuno, nemmeno con Yuji. Sentiva di non poterne più, ma il pensiero di deluderlo lo teneva in scacco.

Era una mattina particolarmente difficile. Megumi si alzò dal letto con la solita fatica, ma un’improvvisa nausea lo colse di sorpresa. Si chinò sopra il lavandino, cercando di trattenere il respiro, ma il suo corpo non lo obbediva. Le mani tremavano mentre cercava di mantenere il controllo, ma quando alzò la testa e vide la sua faccia riflessa nel vetro del bagno, qualcosa in lui scattò.

“Che cosa stai facendo?” si sussurrò, la voce strozzata, come se quella domanda fosse diretta a se stesso. “Non posso… non posso essere debole.”

Il silenzio che seguì fu pesante, quasi soffocante. Poi, una mano si posò sulla sua spalla. Era Yuji. Era sempre lì, ma in quei momenti Megumi non riusciva mai a trovare le parole giuste.

“Stai bene?” Yuji chiese, il suo tono preoccupato ma dolce. Megumi non rispose subito, ma alla fine si voltò verso di lui, cercando di forzare un sorriso che non arrivava mai. La nausea era stata solo uno dei tanti segnali di un corpo che stava cambiando, ma c’era di più sotto la superficie, una paura che lo paralizzava.

“Non è niente,” disse Megumi, ma la sua voce tradiva la stanchezza che stava accumulando. “Solo un momento di debolezza.”

Yuji non si fece ingannare. “Megumi…” La sua voce era seria, ma non giudicante. “Non devi farlo da solo. Non devi fare finta che vada tutto bene.”

Megumi lo guardò, ma il suo cuore sembrava pesante. “Non voglio che tu ti preoccupi per me. Non voglio che tu pensi che non ce la faccia.”

Yuji sospirò, avvicinandosi ancora di più e prendendolo delicatamente tra le braccia. “Lo so, ma non sono preoccupato solo per te. Sono preoccupato per noi, per quello che stiamo costruendo. E se non parli, non possiamo affrontarlo insieme.”

Megumi abbassò gli occhi. Non c’era più spazio per mentire, nemmeno a se stesso. “A volte ho paura di non essere abbastanza. Non mi sento pronto per questo, Yuji. Non so come farò ad essere il genitore che questo bambino merita.”

Il cuore di Yuji batté forte, ma non fece nessun altro gesto che non fosse quello di stringerlo più forte. Non ci furono parole rassicuranti, né promesse che potessero cancellare la paura che entrambi sentivano. Ma c’era qualcosa di confortante nell’abbraccio di Yuji, qualcosa che gli dava il coraggio di non spegnersi, di non arrendersi.

“Ti prometto che faremo del nostro meglio,” disse Yuji con sincerità. “E non importa quanto sarà difficile, io sarò qui. Sempre.”

Ma il momento di sollievo fu solo temporaneo. I giorni seguenti si presentarono con nuove sfide. Megumi iniziò a sentirsi sempre più isolato, come se ci fosse un muro invisibile che lo separava dal mondo. La gravidanza, purtroppo, non era solo una sfida fisica; stava diventando anche un peso emotivo che cresceva a ogni passo. La stanchezza lo avvolgeva, la sua mente non riusciva a concentrarsi, e il suo corpo sembrava sempre più un estraneo.

Una sera, dopo una giornata particolarmente difficile, Megumi si trovò a rifugiarsi nel suo angolo preferito della casa, lontano da Yuji, lontano da tutto. Si sedette sul pavimento, cercando di respirare lentamente. Il suo corpo era troppo stanco per reagire, ma la sua mente non si fermava mai. Sarò un buon padre?

Fu allora che sentì il rumore dei passi di Yuji avvicinarsi, e senza parole, Yuji si inginocchiò accanto a lui, stando in silenzio per un momento. Poi, con dolcezza, posò una mano sulla sua schiena, cercando di infondergli un po’ di quella calma che lui stesso faticava a trovare.

“Va tutto bene,” disse Yuji, più come un promemoria per entrambi. “Va tutto bene, Megumi. Siamo insieme in questo. Non devi affrontarlo da solo.”

Era una piccola verità, ma in quel momento, per Megumi, sembrò sufficiente. Non aveva tutte le risposte, non sapeva se sarebbe mai stato pronto, ma non sarebbe mai stato solo.

La gravidanza di Megumi stava iniziando a entrare in una fase delicata. Non solo la stanchezza e le nausee erano diventate compagne quotidiane, ma l’inquietudine sembrava crescere ogni giorno di più. La sua mente, già turbolenta, ora affrontava una tempesta di emozioni contrastanti, e il corpo non faceva che ricordarglielo.

Non era più solo una questione di paura per il futuro, ma anche di dubbi sulla sua capacità di sopportare il peso del suo ruolo. Yuji aveva sempre cercato di stare vicino a lui, eppure Megumi avvertiva una crescente distanza, un senso di solitudine che non riusciva a scacciare, nemmeno nei momenti più intimi. Yuji era lì, ma il pensiero che potesse non comprendere pienamente ciò che stava vivendo lo tormentava.

Una sera, dopo una lunga giornata, Megumi si rifugiò nel solito angolo della casa, lontano da Yuji. Aveva bisogno di un momento da solo, lontano dalla sua crescente ansia, ma la sua tranquillità fu interrotta dal suono dei passi di Yuji.

“Sei sicuro di voler stare da solo?” Yuji lo chiamò con voce lieve, ma preoccupata. “Non ti senti bene?”

Megumi alzò la testa, ma non rispose subito. Il volto di Yuji mostrava preoccupazione, e Megumi sapeva che non poteva più nascondere ciò che stava provando. Non poteva più fingere che andasse tutto bene.

“Mi sento… troppo stanco,” confessò finalmente, la sua voce più fragile di quanto volesse ammettere. “Non so se ce la farò. Non so se sono pronto.”

Yuji si sedette accanto a lui, senza dire nulla per un lungo istante. Poi, con delicatezza, gli posò una mano sulla schiena. “Non devi fare tutto da solo,” disse, la sua voce ferma ma piena di dolcezza. “Mi fai paura quando dici cose del genere. Non stai affrontando questo solo.”

Megumi abbassò gli occhi, cercando di nascondere la debolezza che stava provando. “Ma non posso fare altro. Non posso essere quello che tutti si aspettano. Non posso essere abbastanza per il nostro bambino.”

Yuji scosse la testa con un sorriso triste. “Non c’è una risposta giusta, Megumi. Non esistono risposte perfette. Ma so che sarai un buon genitore. Io sarò qui, ogni passo del cammino.”

Ma proprio quando sembrava che le cose stessero prendendo una piega più positiva, qualcosa di inaspettato accadde. Una mattina, Megumi si svegliò con un dolore acuto al fianco. Inizialmente pensò fosse solo la stanchezza, ma il dolore non passava. Un’ansia improvvisa lo sopraffece, e quando si alzò dal letto, si accorse che qualcosa non andava.

“Yuji…” la sua voce tremò, e Yuji si precipitò da lui, riconoscendo immediatamente che qualcosa non andava.

“Che succede? Megumi, che c’è?” Yuji lo guardò con preoccupazione, il suo viso teso.

Megumi non rispose subito, il respiro affannoso, il corpo tremante. “Non lo so… sento come se qualcosa stesse succedendo. Non è normale.”

Yuji lo afferrò con forza, preoccupato. “Dobbiamo andare subito all’ospedale.”

Megumi esitò, ma alla fine annuì. Non voleva allarmare Yuji, ma la paura era troppo forte. C’era qualcosa che non andava, e se fosse successo qualcosa al bambino? Se non fosse stato pronto, se non fosse stato abbastanza forte per affrontare ciò che stava per arrivare?

 


 

Il viaggio verso l’ospedale fu un susseguirsi di silenzi tesi. Megumi cercava di rassicurare Yuji, ma dentro di sé non riusciva a scrollarsi di dosso l’angoscia. Non aveva mai avuto paura di nulla come in quel momento. Cosa sarebbe successo se fosse stato troppo debole? Cosa sarebbe successo se non fosse riuscito a proteggere il bambino che portava dentro di sé?

Arrivati in ospedale, furono subito sottoposti a esami. La situazione si rivelò essere meno grave di quanto temessero, ma la preoccupazione non si placò facilmente. I medici avevano confermato che era solo un piccolo malessere legato ai cambiamenti ormonali, ma Megumi non riusciva a togliersi di dosso il senso di impotenza. Il dolore al fianco si era calmato, ma la paura di non essere abbastanza per affrontare la gravidanza, per proteggere il bambino, continuava a serpeggiare nel suo cuore.

“Sei sicuro che stia andando tutto bene?” Yuji chiese, con la voce tremante, quando furono finalmente soli nella stanza.

“Lo spero,” rispose Megumi, ma la sua voce tradiva la sua incertezza. “Non posso fermarmi a ogni paura, Yuji. Ma è difficile. Mi sembra che non ci sia mai fine.”

Yuji prese la sua mano, senza dire una parola, ma gli occhi parlavano per lui. “Non devi farcela da solo. Non devi far finta che sia facile, Megumi. Io ci sono.”

Megumi strinse la mano di Yuji, ma la paura rimase, come una presenza costante. La gravidanza era diventata una sfida ben più grande di quanto avesse immaginato, ma in quel momento, per la prima volta, sentiva che non sarebbe stato completamente solo a affrontarla.

La situazione di Megumi si sarebbe complicata ulteriormente nei giorni successivi. Non solo la gravidanza stava portando con sé complicazioni fisiche, ma il suo stato emotivo era sempre più precario. La paura di non essere un buon padre, la sensazione di non essere all’altezza, lo avvolgevano continuamente, mettendo a dura prova la sua capacità di affrontare il futuro. La paura di perdere il bambino si mescolava con la sensazione che il peso delle aspettative su di lui fosse insostenibile.

Tuttavia, Yuji era lì, e il suo amore, purtroppo mai del tutto esente da dubbi, diventava il suo punto di ancoraggio. La loro relazione sarebbe stata messa alla prova in modi che Megumi non aveva previsto, ma una cosa era chiara: insieme, avrebbero trovato la forza di affrontare tutto, anche quando la paura sembrava insormontabile.

Dopo le paure iniziali e le incertezze, la gravidanza di Megumi iniziò ad andare meglio. Nonostante le difficoltà fisiche e i momenti di ansia che lo avevano tormentato, i medici confermarono che la sua condizione era stabile, e che il bambino stava crescendo sano e forte. Tuttavia, la sua mente non si tranquillizzò facilmente: la paura di non essere pronto a diventare padre era ancora lì, nascosta sotto la superficie, pronta a riemergere in ogni momento di fragilità.

Fu un processo graduale. Nei mesi che seguirono, Megumi imparò a convivere con il corpo che cambiava, con l’idea che stava per diventare padre. Ogni visita al medico portava con sé una leggera speranza, ma anche un senso di colpa, come se non fosse abbastanza preparato a quel nuovo capitolo della sua vita. Spesso, si rifugiava nei suoi pensieri, cercando di trovare un equilibrio tra le sue paure e la consapevolezza che non poteva più tornare indietro. L’idea di proteggere il bambino diventava un pensiero costante che occupava la sua mente, ma Yuji era sempre lì a fargli da ancoraggio.

Yuji non lo forzava mai a parlare se non voleva, ma c’era sempre un sorriso rassicurante e una mano tesa ogni volta che Megumi lo guardava. Non parlavano tanto dei timori di Megumi, ma entrambi sapevano che, nonostante tutto, c’era un legame che cresceva tra loro, una solida fiducia che rendeva le paure più sopportabili.

Ogni giorno, a modo suo, Yuji cercava di rassicurare Megumi, anche con gesti semplici, come preparargli il cibo preferito o rimanere in silenzio accanto a lui nelle lunghe notti insonni. Yuji cercava sempre di farlo ridere, anche se a volte Megumi non se la sentiva. Ma i piccoli gesti contavano: erano questi momenti che gli facevano sentire che, forse, ce l’avrebbero fatta.

Un giorno, durante una passeggiata tranquilla, mentre il sole calava all’orizzonte, Megumi si fermò a guardare il cielo. Yuji lo seguì, fermandosi al suo fianco. C’era una calma che non si era mai sentita prima, come se l’intero mondo si fosse fermato per un momento.

“Sei preoccupato per il futuro, vero?” chiese Yuji, con la sua tipica sincerità. “Ma non devi esserlo. Siamo qui, insieme. E se dobbiamo farlo, lo faremo. Ma non dobbiamo farlo da soli.”

Megumi lo guardò, vedendo la determinazione nei suoi occhi, una determinazione che gli ricordava che non era solo. Anche se il futuro era incerto e pieno di paure, il suo cammino non sarebbe stato solitario. Yuji era lì, pronto ad affrontare tutto con lui.

“Lo so,” rispose Megumi, la voce finalmente più calma, sebbene il cuore continuasse a battere forte. “Ma ho paura che non sarò un buon padre.”

Yuji sorrise e lo abbracciò. “Non devi esserlo subito. La perfezione non esiste. Ci saremo per imparare insieme.”

Megumi si lasciò andare a quel abbraccio, per la prima volta sentendo che forse, con Yuji al suo fianco, avrebbe potuto affrontare davvero tutto. Il bambino che stava per arrivare non era solo una nuova vita da proteggere, ma anche il segno di un nuovo inizio, un’opportunità per crescere, insieme.

Nei mesi successivi, la gravidanza procedette senza ulteriori intoppi. Megumi e Yuji si adattarono a questa nuova realtà, imparando a gestire le sfide quotidiane con una consapevolezza rinnovata. Yuji si preoccupava di ogni piccolo dettaglio: che Megumi mangiasse abbastanza, che dormisse, che stesse bene. Megumi, a sua volta, si sforzava di non farsi sopraffare dalle sue preoccupazioni, ma sapeva che tutto sarebbe cambiato quando il bambino sarebbe arrivato. Ancora una volta, il futuro sembrava un terreno incerto, ma ogni giorno che passava lo rendeva più sopportabile.

“Abbiamo tempo per prepararci,” diceva Yuji ogni volta che Megumi esprimeva le sue paure. “E anche quando arriverà, lo affronteremo insieme.”

E fu in quei momenti, mentre preparavano la stanza per il bambino o scelgono insieme il nome, che Megumi si rese conto di come il suo cuore stesse cambiando. Non solo il suo corpo, ma anche il suo spirito, stava evolvendo. La paura non sarebbe mai scomparsa completamente, ma era diventata qualcosa che poteva affrontare, grazie a Yuji e al bambino che portava dentro di sé.

Quando il grande giorno arrivò, il mondo sembrava fermarsi ancora una volta. Non c’era il frastuono della paura, solo la calma di una nuova vita che stava per iniziare. Yuji, con il suo solito sorriso, gli teneva la mano, e Megumi non aveva mai sentito il suo cuore battere così forte. Il dolore e la fatica del parto erano dimenticati in un attimo, quando finalmente videro il loro bambino per la prima volta.

“Ce l’abbiamo fatta,” sussurrò Yuji, mentre osservavano il piccolo che avevano portato al mondo, la piccola vita che sarebbe diventata il centro di tutto. Megumi annuì, il sorriso che gli si formava sul volto era diverso da quello che aveva conosciuto. Era un sorriso di sollievo, di speranza.

In quel momento, Megumi capì che la paura, seppur presente, non aveva mai avuto l’ultima parola. Era l’amore, la fiducia e il legame che avevano costruito insieme a Yuji che avrebbero guidato loro e il bambino verso il futuro.


Capitolo III: sceglie di non tenere il bambino 


Il peso della gravidanza si era fatto sempre più difficile da sopportare. Megumi si sentiva intrappolato tra il suo desiderio di essere libero da tutto ciò e il timore che la sua vita stesse per cambiare irrevocabilmente. La paura lo consumava: non sarebbe mai stato abbastanza per un bambino, non avrebbe mai potuto proteggere una nuova vita come avrebbe voluto. Non poteva. Eppure, il suo corpo tradiva ogni sua volontà di evitare la realtà.

Ogni mattina, si svegliava con il cuore pesante, un pensiero fisso che lo tormentava: Forse dovrei lasciarlo andare. Non avrebbe mai potuto vivere una vita tranquilla, non ora. La sua natura di Omega, le sue paure riguardo alla sua vulnerabilità e il suo passato tormentato lo rendevano incapace di immaginare una vita come genitore. Avrebbe fatto soffrire quel bambino, come lui stesso aveva sofferto. Non c’era alcuna via d’uscita.

Una sera, quando Yuji era fuori per una missione, Megumi si trovò da solo nel loro appartamento. Il silenzio che lo circondava sembrava amplificare le sue angosce. Si guardò allo specchio e vide il suo volto pallido, i suoi occhi che brillavano di una tristezza che non riusciva a nascondere. Quel bambino che cresceva dentro di lui non era solo un peso fisico, ma un fardello emotivo che lo stava spezzando. Non avrebbe mai potuto essere il padre che Yuji avrebbe voluto, né la figura stabile che il bambino avrebbe meritato.

E così, Megumi decise: non avrebbe tenuto il bambino.

Era una scelta che sentiva come un atto di protezione. Non voleva far soffrire il bambino, e non voleva che Yuji fosse costretto a portare il peso di una decisione che non si sentiva pronto a fare. Si alzò dal letto, senza sapere nemmeno bene cosa fare, ma con una determinazione che non aveva mai provato prima.

Quando Yuji tornò a casa quella sera, la tensione nell’aria era palpabile. Non c’era la solita energia di sempre, né il sorriso spontaneo che di solito illuminava il volto di Megumi. Yuji lo guardò, preoccupato.

“Megumi, che c’è? Hai l’aria… stanca,” disse Yuji, avvicinandosi a lui con un’espressione di preoccupazione. “Tutto bene?”

Megumi non sapeva come iniziare. Non voleva farlo. Non voleva che Yuji lo odiasse. Non voleva che questa scelta li separasse. Ma sapeva che non avrebbe mai potuto fare diversamente. La paura era troppo forte. La sua voce tremò mentre cercava di trovare le parole giuste.

“Yuji… non posso farlo. Non posso tenerlo.”

Le parole furono come un colpo allo stomaco per Yuji. Lo guardò, incapace di comprendere appieno ciò che stava succedendo. Non riusciva a credere a quello che stava sentendo. La paura che aveva percepito negli occhi di Megumi si materializzò improvvisamente come una verità sconvolgente.

“Cosa vuoi dire? Megumi… non stai dicendo sul serio, vero?” Yuji si avvicinò a lui, cercando di leggere nel suo volto una traccia di speranza, ma Megumi non riusciva a nascondere la determinazione che aveva preso il sopravvento.

“Sono troppo debole, Yuji. Non sono capace. Non posso essere un buon padre. Non possiamo fare questo…” Megumi non riuscì a proseguire, le parole gli si fermarono in gola. “Non posso farlo al bambino. E non posso farlo a te. Non sono… abbastanza.”

Yuji rimase immobile, il suo cuore che batteva forte. Quella risposta era una ferita profonda, eppure non riusciva a trovare le parole per rispondere. Non riusciva a capire, non riusciva a immaginare la vita senza quel bambino che stava crescendo dentro Megumi. Aveva sperato che, con il tempo, Megumi si sarebbe reso conto che avrebbero potuto affrontarlo insieme, ma ora, quella speranza sembrava svanire nell’aria gelida della stanza.

“Non posso… lasciarlo andare, Megumi,” disse Yuji finalmente, la voce piena di dolore. “Non posso perderlo. E tu non devi farlo da solo. Io sono qui, con te. Non voglio che tu faccia questa scelta. Non voglio che tu ti senta così.”

Megumi lo guardò con gli occhi pieni di lacrime, ma la sua decisione non vacillò. “Non sono come te, Yuji. Tu sei forte, tu potresti farcela. Ma io…” la voce gli tremò. “Non ce la farò. Non posso dare a un bambino quello che merita. Non posso essere un padre.”

Yuji si fece avanti, ma Megumi si fece indietro, come se avesse paura che l’avvicinamento di Yuji potesse distruggere la fragile barriera che aveva costruito intorno a sé. Non voleva ferirlo, non voleva perdere Yuji, ma sapeva che la sua paura era più forte di qualsiasi cosa potesse fare. La sua paura di non essere abbastanza, di fallire, di essere incapace di donare una vita migliore a quel bambino.

“Se lo fai, se lo lasci andare…” Yuji sussurrò, “perderò anche te?”

Le parole di Yuji furono come un colpo al cuore. Megumi chiuse gli occhi, cercando di bloccare le lacrime che minacciavano di uscire. Non voleva rispondere. Non voleva affrontare quella domanda. Perché in fondo, sapeva che quella scelta avrebbe cambiato tutto. Forse non solo la sua vita, ma anche quella di Yuji. Eppure, non riusciva a fare diversamente.

Il tempo passò inesorabile. Dopo la decisione di Megumi, le cose non furono mai più come prima. La scelta di interrompere la gravidanza lasciò un vuoto nel loro rapporto. Yuji non riusciva a guardarlo nello stesso modo. Aveva paura di farsi avanti, paura di ferirlo ulteriormente. Megumi aveva deciso, ma dentro di lui c’era solo il rimorso, un vuoto che nessuna spiegazione o gesto poteva colmare.

A volte, la solitudine sembrava più forte di quanto avesse mai sperato. Yuji si allontanava sempre di più, purtroppo non per colpa di odio, ma per l’impossibilità di riprendersi da ciò che era accaduto.

Il destino li aveva cambiati, e Megumi sapeva che le sue paure avrebbero sempre avuto un peso su di lui. La vita, in qualche modo, sarebbe continuata, ma le cicatrici lasciate dalla scelta erano troppo profonde per essere ignorate.





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Cowt-14 Quinta Settimana  - M1

Fandom: Bungou Stray Dogs 

Numero parole: totale 2794  (capitolo 1: 485 ; capitolo 2: 1241; capitolo 3: 1068 )



Capitolo 1: una scelta difficile


Il cielo su Yokohama era color cenere.

Fumo nero si levava dalle macerie degli edifici, mischiandosi alla nebbia del mattino, e nell’aria stagnava un odore acre di bruciato, sangue e metallo.

Atsushi camminava in silenzio, il rumore dei suoi passi sull’asfalto spezzato era l’unico suono, rotto solo di tanto in tanto dal ronzio di droni in ricognizione o dal crepitio delle fiamme rimaste vive qua e là.

Il suo mantello era lacerato. Le mani sporche. Il cuore pesante.

Dazai non gli aveva detto cosa avrebbe trovato. Solo chi.

Un ragazzo, poco più giovane di lui. Nome in codice: Thanatos.

Era stato rapito anni prima da un gruppo sconosciuto, cresciuto in un laboratorio dove il suo potere aveva divorato lentamente ogni cosa: umani, animali, strutture, tempo stesso. L’abilità che possedeva – un parassita astrale che consumava la vita stessa – era considerata da Dostoevskij la chiave per distruggere il mondo.

E ora era lì.

Nel centro di controllo di un edificio abbandonato, immerso nel silenzio, sotto terra.

Atsushi fermò il respiro quando arrivò davanti alla porta. Le sue dita tremavano. Non era per la paura. Non stavolta. Era qualcos’altro.

Un ronzio costante gli martellava la testa. Non era dolore fisico, era quella parte di lui che aveva imparato a tacere: la voce del bambino che era stato.

“Non voglio farlo. Non voglio diventare come loro. Ma se non lo faccio… moriranno tutti, giusto?”

Si passò una mano nei capelli, sudati e sporchi.

“Chi sono io per decidere se qualcuno merita di vivere o morire?”

Per anni aveva creduto che il suo valore dipendesse dalla capacità di proteggere gli altri. Che essere un eroe significasse compiere il bene, anche quando faceva male.

Ma ora, davanti a quella porta, Atsushi capiva che quel confine non era mai stato così sottile.

Spalancò la porta.

All’interno, la luce fioca rivelava un corpo rannicchiato a terra, incatenato, intubato. Era solo un ragazzo. I capelli bianchi come la neve, la pelle diafana, gli occhi chiusi. Dormiva.

Non sembrava un mostro.

Sembrava lui.

Quando mi trovai in quell’orfanotrofio. Quando nessuno mi voleva. Quando avrei fatto di tutto perché qualcuno mi vedesse.

Atsushi sentì il respiro mancare.

La pistola nella sua mano pesava più di qualsiasi altra cosa avesse mai sollevato.

Si inginocchiò accanto al ragazzo.

Non si svegliava.

La sua pelle sembrava quasi bruciare a contatto con l’aria. L’Abilità vibrava nel suo corpo, affamata, come una bestia in gabbia.

Un colpo e tutto sarebbe finito.

Un colpo.

Solo uno.

“Sei solo un ragazzino…” sussurrò

“ Come me”

Fu allora che il ragazzo aprì gli occhi.

Erano vuoti. Ma anche pieni di qualcosa che Atsushi conosceva fin troppo bene: dolore.

E lì, con le dita sul grilletto, Atsushi vide le due strade aprirsi davanti a lui.

Due vite. Due finali. Due Atsushi.

Il giudizio che stava per pronunciare non era solo per quel ragazzo.

Era per sé stesso.


Capitolo II: Cuore umano


Il dito di Atsushi tremava sul grilletto.

L’istinto gridava di premere. La voce di Dazai gli rimbombava nella mente: “Non esitare, o sarà la fine di tutto.”

Ma davanti a lui non c’era un’arma.

C’era un ragazzo.

Magro, spezzato, gli occhi grigi come ceneri di qualcosa che non aveva mai avuto il tempo di ardere. Fu in quegli occhi Atsushi vide la propria immagine riflessa.

Con un respiro lento, abbassò la pistola.

Silenzio. Un silenzio così profondo da sembrare eterno.

Poi il ragazzo parlò, con una voce fioca e incrinata come vetro:

“Perché… non mi hai ucciso?”

Atsushi abbassò lo sguardo. Non sapeva rispondere. O forse sì, ma la risposta lo spaventava.

“Perché… se lo facessi… smetterei di essere me stesso”

Il ragazzo lo fissò a lungo, come se quelle parole fossero in una lingua dimenticata. Poi svenne.

Portarlo all’Agenzia fu una decisione solitaria. Nessuno l’aveva autorizzato. Nessuno l’aveva previsto.

Quando lo vide entrare con il corpo tra le braccia, Kunikida sbiancò. Tanizaki si irrigidì. Yosano non disse una parola.

Fu Dazai a rompere il silenzio.

“Cos’hai fatto, Atsushi?” domandò l’ex Dirigente della Port Mafia. Il tono non era severo. Era… triste. Come se sapesse già la risposta.

“L’ho salvato,” mormorò il ragazzo tigre “come tu hai fatto con me” aggiunse dopo una manciata di secondi.

Dazai si avvicinò, lo guardò dritto negli occhi. Per un istante, sembrò più vecchio. Più stanco. Poi si voltò.

“Allora preparati a sopportarne il peso”

Nei giorni seguenti, l’Agenzia fu sospesa. Le forze di sicurezza del governo iniziarono un’inchiesta. Fukuzawa, dalla stanza d’ospedale, diede il suo silenzioso assenso a proteggere il ragazzo.

Il suo nome era Kaoru.

Aveva quattordici anni. Non ricordava nulla della sua vita prima del laboratorio. Non sapeva parlare bene, né camminare. Ma ogni tanto, quando Atsushi gli era accanto, sorrideva. Un sorriso piccolo, incrinato, come il primo raggio di sole dopo una lunga notte.

Kaoru non sapeva ancora cosa fosse l’amore. O il perdono.

Ma conosceva cos’era la gentilezza.

E la stava imparando.

“Pensi ancora che io sia un mostro?” chiese un giorno, con la voce tremante.

Atsushi si sedette accanto a lui, poggiandogli una mano sulla spalla.

“Io mi sono sentito così per anni. Ma poi ho capito che a renderci umani non è quello che abbiamo dentro… ma le scelte che facciamo”

Kaoru annuì piano.


***


Kaoru non parlava molto.

All’inizio comunicava a gesti, o con silenzi troppo lunghi per un ragazzo della sua età. La lingua sembrava un oggetto nuovo, un regalo ancora da scartare.

Quando lo chiamavano, si voltava lentamente, come se ogni parola ricevuta potesse nascondere un rimprovero o una minaccia.

I suoi occhi erano quelli di chi ha visto troppo e capito troppo poco.

Atsushi lo seguiva ovunque nei primi giorni, come un’ombra paziente. Lo aiutava a vestirsi, a mangiare, a fare piccoli passi nel corridoio dell’Agenzia. Nessuno li fermava, anche se nessuno era davvero d’accordo con quella scelta.

Nessuno, tranne Fukuzawa.

“Osservalo. Se fa del male, è tua responsabilità. Ma se invece è qualcosa di più… merita una possibilità.”

Quelle parole gli tornavano alla mente ogni volta che il dubbio gli rosicchiava lo stomaco.

Una notte Kaoru si svegliò urlando.

L’Abilità esplose intorno a lui in un’onda di energia nera che spezzò vetri e bruciò la carta dei fascicoli in archivio.

Yosano corse nella stanza, seguita da Tanizaki e Kyouka. Dazai arrivò per ultimo.

Atsushi era già lì, seduto a terra, il corpo coperto da tagli sottili. Non si era mosso.

“Non è colpa sua,” disse, con la voce calma, anche se il suo sangue sporcava il pavimento.

“Sta solo sognando”

Dazai non rispose. Si chinò, posò una mano sulla fronte del ragazzo e, per un attimo, l’Abilità si quietò.

Poi si alzò e si avvicinò ad Atsushi. Lo tirò in piedi con forza, lo trascinò in corridoio e lo spinse contro il muro.

“Ti sta consumando” sibilò.

“Non vedi che ti sta trascinando nel suo abisso?”

Atsushi non distolse lo sguardo. Sfoderando un inconsueta nota di decisione che l’ex mafioso non aveva mai visto.

“Allora vorrà dire che lo seguirò. Fino a quando troveremo la luce insieme”

Dazai lo lasciò andare, come se fosse stanco di combatterlo.

“Stai diventando più simile a me di quanto pensi” vi era una nota di rimpianto in quelle parole, come l’eco di un passato lontano.

Forse ho fallito Odasaku, non sono stato in grado di salvare un orfano.


***


Un pomeriggio, Kaoru porse ad Atsushi un foglio spiegazzato. Era un disegno.

Due figure stilizzate: una grande, con le orecchie da tigre. Una piccola, con un’esplosione nera intorno.

“Sei tu?” domandò il ragazzo tigre, indicando la figura più piccola.

Kaoru annuì. Poi, con voce incerta aggiunse;

“Sai… adesso…con te… è meno buio”

Atsushi sorrise. Non ne fu certo, ma pensò di sentire il cuore scaldarsi un poco.


***


Un giorno, il potere di Kaoru si attivò volontariamente. Non per paura. Non per rabbia. Ma per proteggere un uccellino caduto dal nido.

Le sue mani tremarono, ma la materia non venne distrutta.

Si plasmò. Il terreno si alzò, formò un nido provvisorio, morbido e protetto.

Kaoru lo guardò con stupore.

Atsushi rimase immobile. Non era un’illusione. Non era istinto.

Era volontà.

Era controllo.

“Ce l’hai fatta,” mormorò quasi commosso il ragazzo tigre.

“Ce l’hai fatta davvero” una lacrima gli rigò la guancia


***


Quella sera, mentre Kaoru dormiva, Atsushi rimase da solo sulla terrazza.

Dazai gli si avvicinò, in silenzio.

“Il suo potere è mutato. Lo ha cambiato. Come hai fatto tu”

Atsushi si voltò, sorpreso.

Dazai si accese una sigaretta. Non fumava quasi mai. 

“Ogni Abilità è una proiezione del cuore, Atsushi. Se cambia il cuore… cambia anche il potere”

“Ma non credevi che potesse farcela”

“No. Ma tu sì”

E a volte… la fede è più potente di ogni logica.


***


Quando la Port Mafia attaccò l’Agenzia per mettere le mani su Kaoru, fu lui stesso a fermarli.

Uscì da solo. Il corpo ancora fragile, le mani nude.

Di fronte a Chuuya, attivò l’Abilità. Una voragine si aprì sotto i piedi degli aggressori, ma si arrestò a pochi centimetri da loro.

Non li uccise.

Chuuya lo guardò in silenzio. Poi rise.

“Tsk. Quel moccioso ti ha davvero insegnato qualcosa”

Kaoru si voltò verso di lui. Un sorriso tirato sul volto

“È stato Atsushi a insegnarmi come essere umano” il rosso rimase in silenzio.

Sapeva come ci si sentiva, cosa significavano quelle parole. Era una ferita non del tutto sanata presente nel suo animo, una debolezza che mai avrebbe ammesso di fronte al proprio nemico. Si scambiò una rapida occhiata con Dazai. Ne aveva riconosciuto la figura tra le ombre e le macerie che li circondava. Quello Sgombro era il solo a conoscere il suo passato, la sua storia.

Il bastardo sapeva che non lo avrebbe mai attaccato. Era, come sempre, tutto parte di un suo piano.

Imprecò, prima di allontanarsi.


***


Dopo quella notte, Kaoru scomparve.

Lasciò una lettera, poche parole scritte male:

“Non voglio fare del male a nessuno. Andrò via. Ma grazie. A te devo il fatto di avere cuore.”

Atsushi la lesse, seduto da solo sulla terrazza dell’Agenzia.

E pianse. In silenzio.

Aveva salvato una vita. Ma aveva perso qualcosa di sé.

O forse… aveva trovato qualcosa che non aveva mai avuto davvero: la certezza che la compassione non è una debolezza, ma la più forte delle scelte.


Capitolo III: bestia interiore



Un respiro.

Uno solo.

Poi il colpo.

Il suono esplose nella stanza come un tuono spezzato.

Il corpo del ragazzo sobbalzò, poi si afflosciò a terra, inerme.

Atsushi restò fermo.

Non pianse.

Non urlò.

Non ci fu redenzione in quel gesto. Seguì solo silenzio.

Eppure qualcosa dentro di lui si spezzò per sempre.

Atsushi non disse nulla quando uscì dal rifugio.

Dazai lo attendeva fuori, le mani in tasca e lo sguardo perso in un punto indefinito del cielo.

“È finita?” domandò

Il ragazzo tigre annuì.

“Bene,” fu la risposta. Ma non c’era alcuna soddisfazione nella voce di Dazai. Solo rassegnazione.

Atsushi voleva dirgli che aveva fatto la cosa giusta. Che aveva salvato vite. Che non aveva avuto altra scelta.

Ma la verità era che… non era più sicuro di nulla.


***


Nei giorni seguenti, fu lodato.

Il governo ringraziò l’Agenzia.

Il popolo parlava di Nakajima Atsushi, l’eroe di Yokohama.

Un giovane capace di decidere ciò che nessuno aveva il coraggio di fare.

Ma ogni notte, il ragazzo con gli occhi violacei tornava nei suoi sogni. Non parlava. Non urlava.

Lo guardava soltanto.

E Atsushi non riusciva a sostenerne il peso di quelle iridi. Il senso di colpa gli smorzava quasi il respiro


***


“Hai solo fatto ciò che dovevi,” gli disse Kunikida, il giorno in cui Atashi trovò il coraggio di esprimere i propri dubbi in Agenzia.

“È stato un gesto di forza,” aggiunse Tanizaki prima di venire atterrato da Naomi.

Solo Yosano lo fissava in silenzio, senza dire nulla. Come se vedesse oltre.

Dazai non disse mai più una parola sull’accaduto. Era l’ultimo in grado di dispensare consigli, le sua mani erano gronde di sangue. Il ricordo di Odasaku ancora vivo nella propria memoria. 


***


Nei mesi seguenti Atsushi divenne più freddo. Più efficiente.

Imparò a colpire prima, a dubitare dopo.

Cominciò a vedere il mondo in termini di minaccia o innocuità. Bianco o nero. Vivo o morto.

Con il tempo, anche la sua trasformazione da tigre cambiò.

Era più rapida. Più brutale. Meno umana.

Lo sguardo della bestia non era più quello di un animale in cerca di redenzione.

Era quello di un predatore che aveva trovato il proprio scopo. Fu allora che Dazai comprese il proprio errore, aveva permesso lui tutto quello.


***


Un giorno, cinque anni dopo, un altro ragazzo venne trovato. Stessa età. Stessa aura. Stesso potere. Per Atsushi fu come vivere un déja-vu.

Quando lo portarono al suo cospetto, legato e tremante, non gli fece tenerezza, né pietà.

“Per favore… io non voglio far male a nessuno…”

Atsushi lo fissò.

Per un attimo, il suo sguardo tremò.

Per un attimo, si ricordò chi era stato. Erano memorie lontane nel tempo, frammenti di una vita che quasi non ricordava di aver vissuto.

Poi fece rapido un cenno con la mano.

Il ragazzo fu portato via. Nessuna espressione. Nessun sentimento. Tornò freddo e inflessibile come il ghiaccio.

Dazai, appoggiato a una parete, osservava la scena in silenzio.

Non parlava più con Atsushi da mesi.

Non ne aveva bisogno. Il ragazzo che aveva salvato non esisteva più.

Quella che aveva davanti era solo una tigre.

Addestrata.

Letale.

Senza cuore.


***



All’inizio fu solo un riflesso.

Uno sguardo più freddo.

Una voce più tagliente.

Una mano che tremava meno quando Atsushi stringeva un’arma.

Ma poi… la trasformazione si radicò più in profondità.

La tigre dentro di lui non era più una creatura spaventata in cerca di redenzione.

Aveva imparato ad uccidere e aveva smesso di chiedere scusa.

Ogni volta che si trasformava, Atsushi lo sentiva: l’istinto si faceva più nitido, i pensieri più veloci, la coscienza più remota.

La bestia non era più solo un’abilità. Era diventata il riflesso della sua nuova identità.

E Atsushi non se la sentiva di lottare più contro di essa. Abbracciò il suo potere, la sua essenza, diventando un tutt’uno con lei.


***


Con i membri dell’Agenzia, la distanza crebbe come neve che si accumula, lenta ma inesorabile.

Tanizaki cercò di parlargli. Una volta. Poi smise.

Kyouka non riusciva più a guardarlo negli occhi.

Yosano si limitava ad annuire quando lo incontrava. Il suo sguardo era quello di chi aveva visto troppi mostri e non ne voleva altri sotto il proprio tetto.

Solo Dazai rimaneva.

Ma anche lui, sempre più spesso, taceva. Riconoscendo già i segni che precedevano la sua caduta verso l'oblio.



***



“Non è questo ciò che eri destinato a diventare,” gli disse l’ex Dirigente nel cuore della notte, in un corridoio vuoto dell’Agenzia.

Atsushi si voltò. Aveva appena completato una missione. I suoi artigli erano ancora sporchi di sangue, così come i suoi vestiti.

“Destino? “ gli fece eco. 

“Non esiste nessun destino. Solo scelta. E io ho scelto di sopravvivere”

“Sopravvivere non è vivere”

Atsushi si avvicinò. I suoi occhi, un tempo chiari e smarriti, erano duri come acciaio.

“Tu volevi salvare il mondo, Dazai. Io voglio solo impedirgli di distruggermi. E se questo significa diventare come loro, allora sì. Lo accetto”

Dazai non disse altro e per la prima volta distolse lo sguardo.

Ho fallito Odasaku, perdonami

Fu il suo unico pensiero che lo accompagnò nell’oscurità della notte.


***


In una missione segreta, Atsushi fu mandato ad annientare un gruppo di “soggetti instabili”, tutti ragazzini dotati di Abilità pericolose.

Erano guidati da un vecchio conoscente: Akutagawa.

Era sopravvissuto. Cambiato. Ma ancora convinto che il mondo dovesse essere purificato dal dolore, non preservato.

Quando si incontrarono, Akutagawa gli sorrise.

“Guardati. Un tempo piagnucolavi per un briciolo di dolore. Ora sei più simile a me di quanto tu voglia ammettere”

“Taci”

“Hai distrutto un ragazzo come noi. Senza rimorso. Senza esitazione. E ora sei venuto a finire il lavoro Il prossimo passo è semplice, Jinko: smettere di credere che ciò che fai abbia ancora un significato”

Atsushi lo abbatté con una precisione spietata. Nessun urlo. Nessuna esitazione.

Ma le parole rimasero. Come spine sotto pelle.

Quello fu il punto di non ritorno, il momento in cui la sua discesa negli inferi potè dirsi completa.

Nakajima Atsushi era morto, ciò che vi rimaneva non era altro che un’ombra illuminata dal chiaro di luna.


***


Anni dopo, in un rapporto confidenziale, Osamu Dazai annotò le seguenti parole:

“Nakajima Atsushi: stabile. Letale.

Controlla perfettamente la sua Abilità.

Ma ha perso la capacità di distinguere tra difesa e annientamento.

Non riconosce più il volto del nemico.

Non distingue più la voce della coscienza.

La Tigre è sveglia.

L’uomo, addormentato.”





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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Bungou Stray Dogs 

Numero parole: 300


L’Agenzia dei Detective Armati lo aveva trovato in una libreria dimenticata, intento a sfogliare un volume ingiallito. Il suo nome era Marcel, o almeno era così che era conosciuto. Era ricercato in ogni dove per via della sua Abilità, un potere che rappresentava un enigma: Chronos, la capacità di riavvolgere il tempo in una certa area. 

“Ogni volta che riavvolgo il tempo,” aveva spiegato a Dazai “mi trovo come a sfogliare una pagina. La carta finisce con l’ingiallirsi, si logora, e così avviene anche la con realtà.”

Era per questo che la Mafia lo voleva. Mori Ougai sapeva che un potere come il suo poteva riscrivere la storia. Era come possedere una pagina del Libro. 

Al contrario, Dostoevskij non cercava di rubare Chronos, ma di tentarlo, coinvolgerlo nei propri piani. 

“Ti hanno mai detto che il passato non esiste davvero, Marcel? Alla fine non è altro che un’illusione, un’eco nella mente.”

Proust non rispondeva. Per lui, il passato era tutto ciò che aveva. Parole non dette, amori mai confessati, il tempo che vedeva scivolare tra le dita come sabbia. Eppure, ogni volta che riavvolgeva il mondo, qualcosa andava perso per sempre e non poteva tornare. Un giorno, avrebbe premuto troppo forte su quella pagina logora e il tempo, per lui, si sarebbe spezzato.

Dazai aveva ascoltato i suoi dubbi, timori e risposto con il solito tono tagliente e scanzonato. Non poteva biasimarlo, ma solo aiutarlo ad alleviare le sue colpe. Era questo il suo scopo, convincerlo ad entrare nell’Agenzia o lavorare per una divisione del Governo, andava bene qualsiasi cosa, non avrebbe mai permesso a Mori o peggio di Dostoevskij di impossessarsi di quel Abilità. 

“Voglio solo rimediare agli errori passati” sussurrò Proust. 

Il Demone Prodigio gli sorrise.

Lo so benissimo, ecco perché ti sto aiutando.

Speró che da qualche parte, Odasaku fosse fiero di lui. 


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Bungou Stray Dogs 

Numero parole: 200



Le bombe squarciarono il cielo sopra Parigi, il tuono dei cannoni si mescolava ai lamenti della città ormai allo stremo. Victor Hugo avanzava tra le rovine, il cuore pesante come piombo. La guerra aveva riscritto il destino dell’Europa, ma quel giorno, tra le ombre della distruzione, il suo cammino andò ad incrociarsi con quello di una bambina dai capelli chiari e un paio di occhi troppo antichi per la sua età.

“Sei tu… Victor Hugo?” La scrutò con attenzione, il nemico poteva assumere diverse forme 

“Chi sei?”

“H.G.Wells e sai, io posso aggiustarlo” la confusione sul viso del leader dell'intelligence francese durò il tempo di un istante.

“Aggiustare cosa?”

La ragazzina alzò una mano e il mondo si distorse. Solo per un istante. Poi, come un respiro trattenuto troppo a lungo, tutto collassò su sé stesso, riprendendo il proprio corso distruttivo.

Di fronte ad un simile scenario Hugo rimase senza fiato. 

“Il tempo…” mormorò incredulo.

“Sai, è come una macchina rotta” spiegó  lei, con un sorriso amaro.

“E io posso ripararla anche se non del tutto. Miss Agatha mi ha detto così”

Hugo alzó gli occhi al cielo. Doveva aspettarselo, quella donna amava farsi beffe di lui.


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Fandom: Bungou Stray Dogs 

Numero parole: 300 


Dazai si svegliò sudato con il cuore che batteva forte nel petto. Il suo sogno era stato lo stesso della notte precedente. Il dolore che provava nel vedere gli ultimi istanti di Odasaku lo perseguitava da giorni, settimane.

In quella dimensione onirica, il tempo assumeva la consistenza di un fluido che scivolava lentamente tra le sue mani, come una sequenza che poteva fermare e riscrivere a proprio piacimento. Dazai correva contro il destino, combatteva contro l’inevitabile ma non si sarebbe fermato. Quando aveva visto Odasaku scomparire per sempre dalla propria vita, si era accorto di quanto l’amico fosse diventato indispensabile per lui. Per questo motivo la sua mente si era rifugiata nel passato.

Ogni volta si trovava inginocchiato accanto a Odasaku, stringendogli la mano con forza mentre l’amico, esalando il proprio ultimo respiro lo esortava a diventare una persona migliore.

Eppure, il passato non si piegava. Ogni notte Dazai riviveva quel giorno non riuscendo a fare nulla per cambiare gli eventi. Iniziò a credere che non sarebbe mai riuscito ad impedirlo. 

Poi qualcosa cambiò. Una notte Dazai riuscì ad arrivare in tempo, uccidendo quel sicario prima che Oda facesse la propria comparsa sulla scena.

Era avvenuto l’impossibile. Non ebbe nemmeno il tempo di festeggiare che, con un balzo nel cuore, Dazai si svegliò. La realtà lo avvolse come un incubo, insieme alla solita consapevolezza. Il letto era vuoto. Non c’era nessun Odasaku accanto a lui,  solo il freddo della solitudine.

Era solo un sogno.

Le lacrime bruciarono, ma Dazai non si mosse. Non c’era modo di cambiare il passato. Avrebbe dovuto saperlo. La sua mano tremò mentre cercò una delle sue sigarette e se la portò alle labbra, quell’odore denso lo avvolgeva come un abbraccio silenzioso. Fu allora che prese la propria decisione.


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Fandom: Bungou Stray Dogs 

Numero parole: 200


Arthur Rimbaud observait les ruines d’une ville ravagée par la guerre, le ciel obscurci par la fumée et le bruit lointain des bombardements qui scandait le temps comme une horloge brisée. Le temps... c’était quoi, sinon une cruelle illusion ? 

Paul.

Il n’était pas mort. Il en était sûr.

Si c’était le cas, le temps aurait cessé d’exister. Timbaud était encore là, à respirer, à errer dans les décombres d’un monde qui s’écroulait, se demandant si l’homme qu’il avait aimé et haï avec autant de passion avait survécu à cette tempête de l’histoire.

Il avait entendu son nom dans une conversation chuchotée entre soldats. Ils parlaient d’un monstre qui se battait non loin de la capitale. J’espérais que c’était vrai, que Verlaine était proche. 

Le temps n’avait jamais eu pitié d’eux. Il les avait fait se rencontrer et puis il les avait séparés sans pitié. Il s’est juré qu’il ne le laisserait plus jamais faire.

Il leva les yeux au ciel et c’est alors qu’il remarqua une chevelure dorée. Paul était de retour.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Vanitas no Carte

Numero parole: 200


Noé n’aurait jamais dû boire ce sang.

Il l’avait compris au moment même où le liquide dense glissait sur sa langue, emportant avec lui une vague de souvenirs qui n’appartenaient à personne. Ce n’était pas un fragment du passé, ni un écho délavé du temps. C’était quelque chose de différent.

C’était un souvenir qui n’existait pas.

Devant ses yeux se déroulait une scène que personne n’avait jamais vécue. Vanitas riait sereinement, les yeux privés de l’ombre habituelle de mélancolie. Paris était intact, le ciel clair mais surtout Vanitas semblait si heureux.

Noé s’accrocha à la table pour ne pas perdre l’équilibre. Ce n’était pas possible. Il n’avait jamais vu Vanitas comme ça, pas depuis qu’il l’a connu. Pourtant ce souvenir était vif, réel, comme s’il avait toujours été là, enfoui dans les plis du temps.

Quand il est revenu à lui, Vanitas le regardait avec un regard vide. 

"Qu’as-tu vu ?" demanda-t-il, la voix chargée de curiosité mais aussi de crainte

Noé hésita.

"Rien" J’espérais que ce mensonge pourrait nous sauver tous les deux.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Vanitas no Carte

Numero parole: 300


Noé se retourna vers Dominique, les yeux voilés par une pensée qu’il ne pouvait chasser.

"Dominique... as-tu déjà pensé à ce qui se serait passé si on avait sauvé Louis ?" si on ne l’avait pas laissé seul dans sa souffrance.

Le silence devint lourd. La jeune De Sade ne répondit pas tout de suite, continuant à fixer le vide. Puis, avec un sourire fatigué, il murmura : "Tous les jours." 

Noé baissa les yeux. Il savait qu’il n’aurait pas dû demander. Il n’y avait aucune réponse qui pouvait apaiser cette douleur. Pourtant, dans l’ombre de ses pensées, il voyait souvent des images qui n’existaient pas : Louis grandissant avec eux, riant encore, comme s’il n’avait jamais dû connaître l’horreur de sa propre malédiction. 

L’énième illusion, une tromperie du temps. Des images qui se mêlaient à un passé lointain, qui ne lui paraissait jamais aussi flou qu’à ce moment-là. Un rêve éveillé. 

Dominique se tourna vers lui, les yeux fixes mais pleins de quelque chose de cassé. 

"Ce que je me demande, s’il était toujours là... tu serais la même personne?" 

Noé ne répondit pas tout de suite. Car au fond, il connaissait la vérité. Si Louis n’était pas mort cette nuit-là, le temps lui-même aurait été différent. Il n’aurait jamais rencontré Vanitas, connu Paris, le monde. 

"Si tu pouvais changer les choses, tu le ferais" a trouvé le courage de lui demander,

"On ne peut pas changer le passé, Noé" murmura-je amusée,

"Je préfère ne pas me laisser tenter par ces illusions" acquiesça Noé. Dominique avait raison et pourtant, rien qu’à la pensée, son âme s’est inquiétée. 


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Haikyuu

Numero parole: 200


Il fischio dell’arbitro risuonò nell’aria, segnando la fine del primo set. 

Karasuno e Shiratorizawa si allontanarono dalla rete, i volti tesi, i respiri pesanti. Il tabellone brillava con il punteggio: 25-22 per Shiratorizawa. Un set combattuto, ma ancora non abbastanza. Anche il tifo cessò all'improvviso.

Hinata si lasciò cadere sulla panchina, il petto che si alzava e abbassava in cerca d’aria. Ushijima era un muro. Ogni attacco, ogni ricezione, ogni schiacciata sembrava un duello impossibile da vincere.

“Kageyama,” ansimò, asciugandosi il sudore dalla fronte. “La prossima volta… più in alto” riuscirò a prenderla, fidati di me.

Il Setter lo fissò, occhi azzurri come il ghiaccio. Più in alto. Come se fosse facile. Ma Hinata non chiedeva mai qualcosa di semplice e lui lo avrebbe accontentato. Come sempre.

Dall’altra parte del campo, Ushijima li osservava con curiosità. Sapeva che avrebbero provato a cambiare ritmo. Sapeva che non si sarebbero mai arresi. Soprattutto quel gamberetto. Hinata Shoyo.

Takeda intanto si avvicinò ai ragazzi di Karasuno. 

“State facendo un ottimo lavoro,” disse con un sorriso incoraggiante. “Ma ricordate, questa non è una partita per sopravvivere. È una partita da vincere”

Hinata strinse i pugni. Il secondo set sarebbe stato loro.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Link Click

Numero parole: 300 parole 


Cheng Xiaoshi guardava la foto con attenzione, rigirandosela tra le mani. Qualcosa non tornava. Era arrivata per posta quella mattina. Nessun mittente o indirizzo. Aveva trovato una busta sotto la porta del negozio, insieme al resto della propria corrispondenza. Così l’aveva aperta. Conteneva solo quella fotografia.

Lu Guang gli si avvicinò, il suo sguardo acuto come sempre scrutò ogni dettaglio dell’immagine.

“Questa foto non appartiene a questa realtà” decretò con serietà.

Cheng Xiaoshi sollevò lo sguardo, leggermente confuso;

“Cosa intendi dire?” era forse uno scherzo? Anche se doveva ammettere che era stato sfiorato da un pensiero simile.

Lu Guang indicò il soggetto principale della foto: lui. 

Si trovava in un angolo della città che non ricordava di aver mai visitato anche se la cosa che maggiormente lo infastidiva era l’espressione sul suo volto; vi era un sorriso che non riconosceva, non gli apparteneva.

Anche il Cheng Xiaoshi nella foto sembrava… diverso. Sicuro di sé, felice, come se non fosse mai stato in preda ai dubbi, alla confusione.

“Questa foto,” disse Lu Guang, “Questo momento non è mai accaduto. Eppure, come vedi siamo ritratti entrambi”

Non c’era una spiegazione logica. Non era una foto modificata, non c’era nulla che suggerisse che fosse stata scattata in un altro momento. Semplicemente, quella foto non doveva esistere. Era un frammento di tempo che non aveva mai avuto origine.

Cheng Xiaoshi, per la prima volta, sentì una fitta di angoscia. Se quella foto non apparteneva al loro tempo, allora da dove veniva? 

Lu Guang si perse nelle proprie riflessioni; era forse una conseguenza dei propri tentativi di salvare Cheng Xiaoshi? Un bug nel flusso temporale?

Non poteva trattarsi di una coincidenza, inoltre anche lo Cheng Xiaoshi di quel mondo non ricordava lo scatto. Era un avvertimento? Un messaggio rivolto a lui?


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Link Click

Numero parole: 300 parole 


Cheng Xiaoshi aveva sempre amato il senso di “controllo” che gli dava il proprio potere: entrare nelle foto, vivere la vita di un altro, cambiare il destino di chi aveva bisogno di aiuto. Quella sera però accadde qualcosa di strano. Quando tornò dalla propria missione, il mondo sembrava in qualche modo diverso.

Si risvegliò la mattina precedente. Ogni dettaglio era identico, ma la sensazione di deja-vu lo percorreva, come un brivido lungo la schiena.

“Lu Guang, guarda questa foto”, disse con voce incerta, mostrando l’immagine che avevano scattato insieme il giorno prima. Lu Guang guardò la foto, ma non sembrava sorpreso.

“Non è la prima volta che accade, vero?” Domandó Lu Guang, con la sua calma abituale.

 “Abbiamo già vissuto questa giornata. Perché il tempo è tornato indietro? E perché non riesco a fermarlo?”

Lu Guang chiuse gli occhi per un momento, riflettendo. “Credo che tu stia vivendo un loop. Ogni volta che proviamo a cambiare qualcosa, il tempo… si riavvolge.”

Cheng Xiaoshi sentì la testa girargli. Un loop? Avevano viaggiato nel tempo tante volte, ma mai in questo modo. Era come se il tempo stesso fosse in lotta contro di loro.

“Cosa possiamo fare?” Domandò, con la voce che tremava appena. 

“Possiamo fermarlo?”

Lu Guang guardò fisso negli occhi di Xiaoshi. 

“Non possiamo semplicemente modificare il corso del passato come facciamo di solito. Se continuiamo a cambiare le cose, rischiamo di perderci. La realtà stessa potrebbe collassare.”

Nonostante questo, Cheng Xiaoshi non riusciva a darsi per vinto. La giornata continuava a ripetersi, e ogni volta avvertiva una sensazione di frustrazione crescente. Ad ogni dettaglio che si ripeteva, come un’ombra oscura che non riusciva a scacciare.

Ogni volta che cercava di fare qualcosa di diverso, il futuro sembrava avvolgersi in una spirale senza fine. Non c’era via d’uscita.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Link Click

Numero parole: 300 parole 


La pioggia cadeva sottile sulle strade di Bridon, scivolando sui vetri del piccolo caffè in cui Lu Guang e Cheng Xiaoshi sedevano da ore. Davanti a loro, un uomo anziano mescolava il proprio tè senza bere, lo sguardo perso altrove, oltre la finestra. Perso in ricordi lontani.

“Non so di cosa stiate parlando" La sua voce era bassa, esitante, quasi ridotta ad un sussurro.

Cheng Xiaoshi strinse i pugni sotto il tavolo. Sempre più irrequieto.

“Ma lei c’era, giusto? Ha conosciuto mio padre” forse aveva esagerato, alzando leggermente il tono della propria voce.

L’uomo smise di mescolare. Non lo negò, ma non lo confermò nemmeno. Il silenzio parlava per lui. Fissò entrambi.

Lu Guang posò una foto sul tavolo. Era sfocata, i volti ritratti a malapena riconoscibili, ma dietro si stagliava l’arco di Bridon, immerso in una luce irreale. 

“Questa è stata scattata qui. Fuori dal suo bar. Questo è Vein… c’era anche allora” tentò nuovamente Cheng Xiaoshi.

Era stata scattata quasi quindici anni prima, come poteva essere possibile? Che il rosso fosse un viaggiatore nel tempo come loro? Quali poteri nascondeva quell’individuo?

Un sussulto appena percettibile, poi l’uomo si alzò, infilando qualche moneta sul tavolo. 

“Lasciate perdere. Alcune cose è meglio dimenticarle” sussurrò.

La porta si chiuse dietro di lui con un suono ovattato.

Cheng Xiaoshi abbassò lo sguardo sulla foto. Il proprio riflesso nella vetrina gli restituì un volto teso, segnato da domande senza risposta.

Lu Guang riprese l’immagine dalle sue mani e se la rigirò tra le dita. Dietro, un dettaglio appena visibile. Un’ombra. Quella che secondo le loro indagini doveva appartenere al padre di Cheng Xiaoshi. L’uomo che da settimane stavano cercando.

Forse il passato non voleva essere svelato ma una cosa era sicura, dovevano trovare Vein, parlare con lui.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Attack on Titan

Numero parole: 200 parole 


Il vento freddo soffiava tra i rami spogli, sollevando piccoli vortici di neve. Zeke restò immobile, seduto su di una roccia al limitare della foresta, con lo sguardo perso nel nulla. La guerra continuava a consumare il mondo intorno a lui, eppure, paradossalmente, dentro di sé, tutto era finito. Come una novella di cui conosceva già il finale.

«Meno di un anno» mormorò.

Era il tempo che gli rimaneva. Lo sentiva nelle ossa, nel battito irregolare del cuore, nel respiro che si faceva più pesante ogni giorno. Il potere del Titano bestia lo stava consumando, come aveva già fatto con gli altri prima di lui.

Gli era parsa una condanna lontana, una cifra scritta su una pietra, immutabile e distante. Ora lo sentiva addosso, lo viveva in ogni secondo che passava. 

Cosa gli rimaneva? La propria rivoluzione si era rivelata un fallimento, Eren non lo aveva mai compreso davvero e del passato non rimaneva altro che l’eco di una menzogna.

Rise, piano, senza gioia.

«Forse questa è la vera libertà,» mormorò tra sé, osservando la neve posarsi sulle dita guantate. «Sapere che il proprio tempo è già scaduto.»

Allora perché, sotto quel cielo grigio, una parte di lui continuava a sperare?


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Attack on Titan

Numero parole: 300 parole 


Eren si sveglia nel proprio letto. Il soffitto di legno sopra di lui gli è familiare, come il suono delle onde che si infrangono sulle scogliere di Paradis, è una melodia familiare che gli riempie le orecchie. La prima cosa alla quale pensa è solo una: è successo di nuovo. Non ha potuto impedirlo.

Scatta a sedere, il respiro affannoso. Non ha bisogno di controllare. Sa già dove si trova ma soprattutto quando: l’anno 845, il giorno in cui tutto ha inizio. Il momento in cui la sua vita è cambiata per sempre.

Dopo essersi rivestito Eren corre fuori. Intravede Mikasa e Armin sulla collina, sente la voce di sua madre chiamarlo dalla casa e ancora una volta sa esattamente cosa sta per succedere. Il Titano Colossale apparirà presto e Wall Maria verrà abbattuto. Sua madre morirà. Shiganshina sarà distrutta, le loro vite non torneranno più le stesse.

L’ha visto accadere così tante volte. Eren non si è mai arreso ma per tutto quel tempo, ha provato a cambiare le cose: ha gridato alla guarnigione di evacuare prima, ha cercato di convincere suo padre a non andarsene quella notte, chiudendolo in casa. Ha persino provato a scappare con Mikasa e Armin prima che l’inferno si scatenasse. 

Nonostante i suoi sforzi, il risultato non cambia.

Ogni volta, la storia si ripete davanti ai suoi occhi e ogni volta, Eren Jaeger si ritrova di nuovo qui. Al punto di partenza.

All’inizio aveva pensato fosse una punizione. Una sorta di castigo divino. Poi, una possibilità. Ora non gli resta altro che un’amara consapevolezza: non esiste nessun futuro. È intrappolato in un loop. Torna sempre nel punto di partenza. Ogni volta incomincia quella giornata con la speranza di un finale migliore, un futuro destinato a sgretolarsi tra sue mani.

E questa volta?

Questa volta proverà ancora.


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Fandom: Haikyuu

Numero parole: 200 parole 


Oikawa Tooru si fermò al centro del campo, il pallone stretto saldamente tra le mani. Il brusio del pubblico riempiva l’aria, ma per lui, in quel momento, non esisteva altro che il suono del proprio respiro.

Quante volte aveva sognato quell’istante? Quante volte aveva guardato il tabellone segnare la fine, con il nome della sua squadra sempre al secondo posto? Quante volte aveva visto Kageyama e Hinata alzare le braccia al cielo, mentre lui rimaneva a terra, con il peso della sconfitta sulle proprie spalle?

Quel giorno però era diverso.

Oikawa Tooru non era più il capitano del Seijoh. Non era più il ragazzo che si logorava cercando di superare un genio. Anni prima aveva lasciato il Giappone, ricominciando da capo in una terra straniera. Aveva faticato più di quanto avesse mai fatto prima ma ne era decisamente valsa la pena. Tutti quegli sforzi lo avevano condotto su un palcoscenico ancora più grande, pronto a scontrarsi con avversari ancora più forti. Fece rimbalzare la palla tra le sue mani.

L’arbitro fischiò. Il mondo trattenne il fiato.

Oikawa Tooru lanciò la palla in aria. Il tempo del rimpianto era ormai finito.

Era il suo momento, quello del riscatto. 


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Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 



Il cardinale Bellini fissava il crocifisso sulla parete, le mani intrecciate in un gesto di riflessione. Le ombre tremolavano lungo le pareti della Cappella Sistina, mentre il silenzio pre conclave avvolgeva ogni pensiero in una coltre densa e solenne.

Dietro di lui, il cardinale Tedesco si avvicinò, i passi misurati sul pavimento antico.

“Hai deciso?” chiese, la voce bassa, ridotta quasi ad un sussurro.

Bellini non si voltò subito. Avvertiva il peso di quella domanda gravargli sulle spalle, il dovere e il desiderio intrecciarsi come due fili di una stessa trama. Sapeva che in quel momento non era solo un uomo di fede, ma anche un uomo di potere. Aveva delle responsabilità.

“Sai che non posso permettermi esitazioni” rispose infine.

“Stai esitando”

Tedesco si fermò accanto a lui, il calore della sua presenza fu quasi tangibile. Per un istante, Bellini abbassò lo sguardo, le sue dita stavano sfiorando i grani del rosario che portava al polso, gli sarebbe bastato così poco per rendere quel contatto più reale.

“Non è solo il futuro della Chiesa a essere in gioco” sussurrò. Era un codice che solo Tedesco avrebbe saputo interpretare.

Il cardinale annuì. Lo sapevano entrambi, sin dal giorno in cui avevano deciso di iniziare quella partita così pericolosa.

Nessuno li avrebbe visti in quella notte sospesa tra il prima e il dopo. Nessuno avrebbe letto nei loro occhi tutto ciò che le parole non potevano dire. Il peccato che avevano consumato e che avrebbe condotto entrambi all’inferno.

“Qualunque sia la tua scelta, la tua decisione” mormorò il tedesco, “io rimarrò al tuo fianco” non pensare che basti così poco per liberarti di me.

Aldo Bellini chiuse gli occhi per un istante, lasciando che quella promessa gli si depositasse nel cuore. Poi si voltò, finalmente, e lo guardò.

Era tempo di decisioni. 


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Fandom: Jujutsu Kaisen

Numero parole: 300 parole 


Il cielo sopra Tokyo era squarciato da fulmini argentei, il vento carico di energia maledetta. Le rovine della città si estendevano sotto di loro, testimoni silenziose di una guerra che aveva ormai superato il punto di non ritorno.

Satoru Gojo si tolse la benda dagli occhi, lasciando che l’azzurro del suo sguardo divorasse letteralmente il mondo. Davanti a lui, Ryomen Sukuna sorrideva, il mantello insanguinato che si muoveva nell’aria come il vessillo di un conquistatore. Di ciò che era stato, come l'eco di un' epoca ormai lontana.

"Finalmente," Esordì il Re delle Maledizioni, la voce colma di un’euforia quasi infantile. "Quale onore, avere la possibilità di affrontare il grande Satoru Gojo senza più scuse, senza più limiti"

Gojo non rispose subito. Posò il proprio sguardo sulle macerie, sui cadaveri, sul sangue che impregnava la terra. Aveva perso troppo e troppo in fretta. Non aveva fatto in tempo a fermare quella Calamità. Eppure, si sentiva calmo, tanto da sorridere in faccia al proprio avversario.

"Sai," mormorò il più forte, facendo scrocchiare le dita. "Per tutta la vita ho pensato di essere il migliore stregone del mondo"

Fece un passo avanti. Lo spazio stesso tremò.

"Ma forse mi sbagliavo"

Sukuna inclinò il capo, divertito.

"Oh e chi sarebbe il più forte, se non tu?"

Gojo alzò lo sguardo. Un lampo illuminò il suo volto, rendendo quegli occhi spaventosamente sereni.

"Satoru Gojo che non ha più niente da perdere" il mio tempo è ormai scaduto. Tocca ai miei preziosi allievi il compito di proseguire questa mia eredità. Loro sono il mio lascito al mondo.

In quell’istante, tutto intorno a loro si frantumò. Il Minimo infinito si espanse in un istante, il nulla divorò l’aria stessa. Sukuna rise. Non si sarebbe tirato indietro.

Era tempo di chiudere i conti.


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Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


Il sole filtrava appena tra le tende pesanti del Palazzo Apostolico, dipingendo di luce dorata le ombre della stanza. Lawrence si fermò sulla soglia, lo sguardo fisso sulla esile figura seduta davanti alla finestra. Era ugualmente abbagliante nella sua apparente semplicità.

Vincent, anzi Papa Innocenzo, lo sentì ma scelse di non voltarsi. La sua voce, come sempre, era flebile ma nitida.

“E’ strano, Lawrence. Mi sento come se non avessi più tempo… eppure mi sembra di esserne immerso”

Il cardinale abbassò lo sguardo, le mani strette dietro la schiena.

“Tutto è in attesa, Santità. Il mondo, la Chiesa… noi”

Un imbarazzante silenzio cadde tra loro, carico di parole non dette, segreti che solo i presenti potevano conoscere. Mani sfiorate, sussurri, un’intimità da poco scoperta e alla quale troppo presto avevano dovuto rinunciare. 

“Un tempo ero convinto che la fede fosse fatta di certezze,” esordì Vincent.

“Ora so che è fatta di attese. Di vuoti. Di scelte che non vedranno mai il frutto” pronunciò queste parole abbassando gli occhi e abbandonandosi ad un sospiro stanco pregno di rassegnazione. Sapeva a cosa aveva rinunciato accettando il soglio pontificio. Ad un amore appena sbocciato.

Lawrence fece un passo avanti. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma ogni parola sembrava profanare quell’istante così fragile.

“Non avere fretta,” aggiunse all’improvviso Vincent rivokgendogli il solito sorriso calmo, accomodante.

“Questo è il momento più sacro per avere fede. Il tempo sospeso. La chiesa ha trovato una nuova guida e le novità sono accompagnate della paura” 

Finalmente, Vincent si voltò. I suoi occhi, stanchi e limpidi, si posarono su Lawrence con una dolcezza infinita.

“E tu? Sei pronto a restare immobile, quando tutti correranno?” Resterai al mio fianco come lo sei stato fin ora?

Lawrence non rispose. Solo allora capì che il tempo sospeso non era attesa. Era un giudizio.


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Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


La notte era calata sul Vaticano, avvolgendo ogni angolo di mistero e silenzio. Vincent sedeva al suo scrittoio, le mani ferme sopra il papiro bianco. Gli occhi, però, non si fermavano mai sul foglio: sembravano cercare qualcosa nel vuoto della stanza, come se volessero penetrare il futuro, forzare la verità che si celava dietro il suo nuovo destino.

Il conclave era finito. La sua elezione era ormai ufficiale. Papa Innocenzo XIV. Un nome che ancora suonava estraneo alle proprie orecchie. Aveva sempre pensato che non fosse la sua strada, che non sarebbe mai arrivato a quella posizione. Eppure, ora quel titolo era suo, come una veste che non riusciva a togliersi.

Il peso della responsabilità gli gravava sulle spalle come un macigno. La scelta era stata fatta, la decisione definitiva. Il tempo di riflettere era scaduto. Era diventato la massima autorità della Chiesa

Con uno sguardo spento, il neo eletto si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra. Le luci della città si riflettevano sulle pietre antiche del Vaticano, quasi come se il mondo fuori fosse pronto a piegarsi alla sua volontà. Ma lui non lo sentiva. Non avvertiva quel potere che tutti si aspettavano da lui.

“Perché io?” pensò. “Sono davvero pronto per tutto questo?”

Poi, un passo dietro di lui.

“Santità”

Era Lawrence. Il cardinale che da sempre lo aveva accompagnato, il suo sostenitore più fidato.

Vincent si voltò lentamente. Sapeva che la sua risposta non sarebbe arrivata dalle parole, ma dalla forza con cui avrebbe affrontato quel momento. Era il suo destino, e non c’era più tempo per fuggire.

“Sono pronto, Lawrence. Non c’è altro da fare”

In quel momento, Vincent accettò finalmente il peso del pontificato. Il tempo delle decisioni era scaduto. Ora, doveva solo camminare lungo il cammino che gli era stato affidato.


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Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


Il crepuscolo si era da poco abbattuto sul Vaticano, ma in una stanza appartata, lontana da occhi indiscreti, l’atmosfera era soffusa e carica di una tensione diversa. Bellini e il cardinale Tedesco erano soli, il peso del conclave che incombeva su di loro, ma per un attimo il mondo intorno a loro sembrava essersi fermato. Il suono dei loro sospiri riempiva l’aria, come non avveniva da tempo.

“Non c’è un minuto da perdere,” sussurrò Bellini, il tono malizioso che tradiva l’urgenza nei suoi occhi. “Il conclave sta per iniziare” sapevano entrambi cosa gli stava chiedendo.

Tedesco lo guardò, un sorriso furtivo comparve sulle sue labbra.

“E allora… perché non ritagliarci un po’ di tempo, prima che tutto vada in pezzi?” Avrebbe voluto aggiungere: prima della mia elezione, ma si trattenne. Non voleva sprecare quell’occasione.

Bellini rise sommessamente, avvicinandosi. La distanza tra di loro si faceva sempre più sottile e il respiro di entrambi più affannato.

“Lo sai. Non possiamo perdere troppo tempo,” ripeté Bellini, ma le sue mani si appoggiarono sul petto dell’altro tirandolo a sé con dolcezza mista a urgenza. Non erano più giovani come una volta. Ogni minuto insieme era prezioso. 

“Dobbiamo essere pronti a tutto, ma non dimenticare che siamo vivi, Aldo” rispose Tedesco, il suo sguardo per un attimo divenne più intenso di qualsiasi sermone o discussione politica. 

“E che, sebbene il conclave possa cambiare tutto, non cambierà questo..”

Le parole furono interrotte dalle labbra di Bellini, che lo baciò con un ardore che non ammetteva esitazioni. Il tempo del dovere sarebbe arrivato presto, ma per ora… erano solo due uomini in un angolo nascosto, dove il mondo non li guardava.

Non era altro che un piccolo respiro, un’ultima boccata di libertà prima che il destino li chiamasse di nuovo.


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Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


Le candele tremolavano nella penombra della biblioteca del seminario, proiettando ombre danzanti sulle pareti rivestite di libri antichi. Aldo Bellini sedeva a un tavolo appartato, gli occhi fissi sulle pagine di un tomo aperto davanti a lui, ma la sua mente era altrove. Il fruscio discreto di passi familiari lo distolse dai propri pensieri.

“Sempre immerso nei libri, Aldo?” La voce profonda del giovane seminarista Goffredi Tedesco risuonò nell’aria, tradendo una nota di affetto velato.

Bellini alzò lo sguardo, incontrando gli occhi color nocciola dell’altro. Un sorriso involontario sfuggì alle sue labbra.

“E tu sempre a interrompermi, Goffredo”

Tedesco si sedette accanto a lui, la distanza tra loro quasi inesistente. Per un momento, il silenzio fu colmo di parole non dette, di sguardi rubati durante le lezioni, di sfioramenti accidentali nei corridoi. Come in quel momento, quando gli sarebbe bastato allungare la mano per afferrare quella dell’altro.

“Aldo,” iniziò Goffredo, la voce più bassa, quasi esitante. “Sai che il tempo dei giochi è finito” annunciò con tono grave.

Bellini annuì lentamente. Certo che lo sapeva. La loro amicizia aveva superato i confini dell’innocenza, trasformandosi in qualcosa di più profondo, più complesso.

“Ne sono consapevole” rispose, la mano che si posava delicatamente sulla pagina del libro, come a cercare un appiglio di fronte a quella situazione. 

“Ma ciò che sento per te… beh non è un gioco”

Goffredo si avvicinò appena, il calore del suo corpo percepibile nell’aria carica di tensione.

“Nemmeno per me” ammise l’altro.

Un battito di ciglia e le loro labbra si sfiorarono in un bacio casto, ma carico di promesse. Sapevano che il cammino davanti a loro sarebbe stato irto di ostacoli, ma in quel momento, nella quiete della biblioteca, esistevano solo loro due.

Il tempo dei giochi era finito. Svanito per sempre.


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Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


Il chiostro del seminario era avvolto da un silenzio solenne, rotto solo dal fruscio delle pagine sfogliate e dal lieve eco di passi sul pavimento di pietra. Aldo Bellini, giovane seminarista americano, sedeva su una panca di legno, immerso nella lettura delle Sacre Scritture. La luce filtrava attraverso le vetrate colorate, dipingendo sul suo volto giochi di colore che danzavano al ritmo del pallido sole pomeridiano. 

Un’ombra si proiettò sul libro aperto di Aldo. Nemmeno il tempo di alzare lo sguardo e il seminarista incontrò un paio di occhi scuri e penetranti. Davanti a lui stava un altro giovane prelato, la cui presenza emanava un’aura di rigida disciplina. Così a pelle gli suscitò un’instantanea antipatia.

“Sei Bellini, vero? “domandò l’altro, con un accento italiano molto marcato. Doveva essere romano.

“Sì, sono io.” Si limitò ad annuire con fare annoiato.

“Goffredo Tedesco” si presentò tendendogli la mano.

Un silenzio carico di tensione si insinuò tra loro. Aldo percepì una scintilla di sfida nello sguardo di Goffredo, un misto di curiosità ma anche risentimento. Inizialmente non ne comprese il motivo.

“Ho sentito parlare di te, Bellini” proseguí Goffredo, con un sorriso che non raggiungeva gli occhi. 

“Dicono che tu sia brillante” eccola, la vanità. Il peggiore dei peccati.

“Solo voci” rispose Aldo, chiudendo il proprio libro con calma 

“Mentre tu? Sei noto per qualcosa?

Goffredo inclinò leggermente la testa, osservando Aldo con attenzione. Sembrava valutare ogni sua parola, ogni gesto.

“Forse, col tempo, lo scoprirai”

Con un cenno appena accennato, Goffredo Tedesco si allontanò, lasciando Aldo con il cuore che batteva più forte del previsto. Non sapeva se fosse l’inizio di un’amicizia o di una rivalità, ma una cosa era certa: il tempo dei primi amori, con tutte le sue incertezze e turbamenti, era appena iniziato.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


Le pareti marmoree della sagrestia sembravano trattenere il respiro. Il brusio dei cardinali, i preparativi, le voci che si rincorrevano lungo i corridoi: tutto sembrava lontano, ovattato. In quella stanza nascosta, un paio di giorni prima dell’inizio del conclave, esistevano solo loro due.

Aldo Bellini aveva le mani premute contro il petto di Goffredo Tedesco, le dita che afferravano il tessuto porpora con una forza disperata, quasi a volerlo trattenere lì per sempre. Il respiro di entrambi era irregolare, spezzato da sussurri che non osavano diventare parole. Era sempre stato così fra loro.

Non era la prima volta. Ma quel giorno entrambi avvertivano l’amaro sentore dell’addio. Come se quello fosse destinato ad essere il loro ultimo amplesso.

Goffredo lo baciò con foga, con la rabbia e la dolcezza di chi non ha più tempo. Le mani si cercarono, si intrecciarono, mentre i corpi si stringevano nell’ombra, uniti in un abbraccio tanto veloce quanto carico di significato.

“Se potessimo fermare il tempo…” pensò Bellini, mentre osservava gli occhi socchiusi di Goffredo che tremavano di desiderio misto a rimpianto.

“Se potessimo restare così… ancora un momento” fu il pensiero speculare che attraversò la mente del cardinale italiano. 

Fu solo un attimo. Ma in quell’istante si consumò tutto: amore, paura, appartenenza, distacco. Un battito. Un sospiro. Una promessa taciuta.

Poi, la realtà reclamò entrambi. Le voci si avvicinavano. Una sola consapevolezza: il conclave li attendeva e loro erano due dei papabili. 

Bellini si ricompose, aggiustandosi la veste con mani tremanti. Goffredo si voltò, senza guardarlo, ma restando abbastanza vicino da sfiorarlo ancora una volta.

“È tempo” mormorò.

Aldo annuì.

Sì.

Era tempo. Ma dentro di loro, per un istante che non avrebbe mai smesso di bruciare, il tempo si era davvero fermato. 

Avrebbero vissuto per sempre con quel ricordo.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

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Aldo Bellini fissava la volta affrescata della cappella Sistina, ma non riusciva a vedere nulla. Le immagini sacre, i volti dei santi, le scritture dorate… tutto si confondeva in un’unica vertigine sfocata. Non era la preghiera a smuovere il suo cuore, non quel giorno. Era qualcos’altro, anzi qualcuno di cui conosceva perfettamente il nome.

Goffredo Tedesco.

Seduto a pochi banchi di distanza, il cardinale Tedesco sembrava ignaro del tumulto che ribolliva dentro il cardinal Bellini. Schiena dritta, mani giunte, volto composto. Sempre fedele al proprio ruolo, sempre impenetrabile. Eppure Aldo lo conosceva. Sapeva leggere nelle incrinature del suo silenzio, nei fugaci sguardi rubati quando nessuno guardava.

Non era un semplice legame, non più. Si conoscevano da una vita, sin dai tempi del seminario.

“Non posso continuare a mentire a me stesso” pensò Aldo, sentendo il peso di quelle parole dentro il proprio petto. “Non posso continuare a chiamarla amicizia. Né desiderio. Non quando ogni suo sguardo mi accende, ogni suo silenzio mi manca”

Fu allora che finalmente comprese. Non era solo attrazione, non era solo complicità. Era amore. Quello vero, quello che non si spegne con il tempo, quello che resta anche quando il mondo intero cerca di cancellarlo.

Il cuore gli batteva più forte. Una parte di sé avrebbe voluto solo correre verso di lui, prenderlo per mano, dirglielo — lì, in mezzo a tutto e a tutti. L’altra, più prudente, più spaventata, gli ricordava chi erano, cosa rappresentavano.

Ma non poteva più ignorarlo.

Aldo si alzò lentamente, lasciando la panca, senza avvicinarsi troppo a Goffredo. Gli bastò incrociare il suo sguardo per un istante. In quegli occhi severi, vide qualcosa tremare.

Forse, anche Goffredo stava aspettando che lui trovasse il coraggio.

Forse, era tempo.

Tempo di ammettere i propri sentimenti. 

Il giorno dopo il papa spirò.


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Tra le ombre discrete dei corridoi vaticani, i cardinali Aldo Bellini e Goffredo Tedesco camminavano l’uno di fianco all’altro distaccati quel tanto che bastava per non destare sospetti, vicini abbastanza da sentire l’uno il calore dell’altro.

Il conclave era imminente. Le ore si rincorrevano veloci, gravide di decisioni, strategie, sguardi sospettosi. Eppure, nel caos misurato di quei giorni, loro cercavano, ostinati, di ritagliarsi un frammento di eternità.

“Solo dieci minuti,” sussurrò Bellini, con un mezzo sorriso mentre apriva la porta di una delle ennesime sale dimenticate all’interno delle mura vaticane”

“Rubare il tempo non è molto cristiano” rispose Tedesco, ma lo seguì lo stesso, senza esitazione. Faceva sempre così, ribatteva ma poi cedeva. La sua era tutta apparenza, una maschera che aveva scelto di indossare in pubblico per celare il proprio desiderio privato. Il proprio peccato.

La porta si chiuse alle loro spalle con un click ovattato. Il mondo, fuori, smise di esistere. Le loro mani si trovarono, sicure, senza bisogno di parole. Non c’erano promesse né preghiere, solo il silenzio di chi ha imparato a bastarsi. Rubare ogni attimo, ogni secondo.

Bellini sfiorò il volto di Goffredo come si tocca una reliquia: con rispetto e fame. Era invecchiato dal loro ultimo incontro ma aveva mantenuto lo stesso fascino che oltre cinquanta anni prima lo aveva fatto innamorare. 

“Lo so che finirà presto” mormorò tra le sue braccia “Ma lasciami credere che abbiamo ancora tempo” tempo per noi, per amarci, per scendere insieme all’inferno.

Goffredo non rispose. Lo baciò, con la calma di chi non può fermare l’orologio, ma può scegliere come usarne ogni secondo.

E mentre fuori le campane cominciavano a chiamare i cardinali alla Cappella Sistina, loro restavano lì.

A rubare il tempo.

A farne amore. Pienamente consapevoli dei propri peccati.


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La folla cresceva. Ogni ora portava con sé nuovi incontri, nuove strette di mano, nuovi occhi puntati su di lui. E Vincent, già Papa, già simbolo, già figura sacra… si sentiva ogni giorno un po’ meno sé stesso.

Lawrence era lì, sempre un passo indietro, sempre presente, sempre silenzioso. Lo sguardo attento, le mani composte, il volto che non tradiva nulla. Nessuno avrebbe potuto indovinare quante parole non dette erano rimaste in sospeso tra loro dopo il conclave. Come di quel bacio che non sarebbe mai dovuto esistere.

E fu proprio mentre attraversava il cortile vaticano, tra fotografi e monsignori, che Papa Innocenzo capì. Non ci sarebbe più stato un dopo. Nessun momento rubato tra una riunione e l’altra. Nessun sguardo complice dietro le vetrate dell’Arcivescovado.

Non erano più soltanto Lawrence e Vincent.

Erano il Papa e il suo Segretario.

“Avrei voluto dirti così tante cose” sussurrò Vincent, con un sorriso stanco, mentre Lawrence gli porgeva dei documenti.

“Non serve Sua Santità” rispose lui, piano, senza alzare troppo lo sguardo.

Il momento durò l’istante di un respiro. Un battito appena. Ma fu sufficiente.

Perché entrambi sapevano cosa avrebbero voluto dirsi, se solo il tempo gliel’avesse concesso.


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Lawrence li vide. Un attimo appena,  il tempo di un istante, attraverso la porta socchiusa di una cappella laterale. Aldo Bellini, con le mani intrecciate a quelle di Goffredo Tedesco. Un bacio svelto, furtivo, ma carico di tutto ciò che il Vaticano non avrebbe mai perdonato.

Avrebbe potuto parlare. Avrebbe potuto denunciarli, invocare lo scandalo, il peccato, la disciplina.

Invece, si limitò a chiudere la porta, lentamente, senza fare rumore.

Nel silenzio del corridoio, si concesse un respiro lungo. Le dita sfiorarono la piccola croce che portava sempre al collo, non per fede, ma per Vincent.

Anche loro avevano vissuto così. Attimi rubati dietro le ombre dei paramenti, parole sussurrate durante le vestizioni, mani che si sfioravano con la scusa di sistemare una veste. Nessuno li aveva mai colti, ma il rischio era sempre stato lì — parte integrante del desiderio.

Lawrence tornò sui propri passi. Non c’era bisogno di dire nulla.

Sapeva quanto potesse valere un singolo istante, quando tutto il resto ti è negato.

E se Aldo Bellini e  GoffredoTedesco avevano trovato il coraggio di viverlo, allora meritavano almeno il silenzio.

Un patto tacito tra chi sapeva cosa significasse amare nel posto più sacro — e più crudele — del mondo.


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La veste bianca scivolava silenziosa lungo il corridoio privato. Vincent, anzi Sua Santità papa Innocenzo XIV camminava piano, quasi esitante, come se ogni passo lo allontanasse da qualcosa che non avrebbe più potuto avere. Il solo pensarlo equivaleva ad un peccato mortale che il capo della Chiesa di Roma avrebbe scelto ancora ed ancora.

Lawrence lo attendeva nel proprio ufficio, le mani giunte dietro la schiena, lo sguardo fisso sul crocifisso appeso alla parete. Lo conosceva troppo bene: sapeva che quel silenzio pesava più di mille parole. Era sempre stato così fra loro, sin dal giorno del primo incontro.

“Dovrei andare,” mormorò Vincent, con poca convinzione chiudendo la porta alle proprie spalle. Il cardinale chinò il capo.

“Lo so,” rispose Lawrence senza voltarsi.

“Ma non l’hai ancora fatto” colpito ed affondato.

Vinse il silenzio un battito d’orologio. Poi un altro. E infine le dita di Vincent trovarono quelle di Lawrence, intrecciandole con una naturalezza che solo gli anni — e le rinunce — potevano concedere.

“Non ci sarà un dopo, vero?” Domandò Vincent, piano. La voce ridotta ad un sussurro.

Lawrence scosse la testa.

“Il dopo non esiste per noi. Solo adesso. Il presente. È questo che conta, solo questo effimero istante” che abbiamo rubato allo

scorrere incessante del tempo, alla storia: 

Ciò che ne seguì fu un bacio leggero, quasi casto, quasi fosse una preghiera sussurrata contro l’inesorabile scorrere del tempo. Lawrence si sentiva in quel modo, come bloccato dentro ad una clessidra, ad osservare la sabbia che lentamente lo conduceva verso la fine, l’oblio.

Vincent chiuse gli occhi.

Chi ha tempo non aspetti tempo.

E quel giorno, almeno per un istante, scelse di essere solo un uomo. Non papa Innocenzo. Non la nuova speranza della

chiesa, un uomo in compagnia dell’unica persona che avesse mai amato.


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Il silenzio del giardino interno era rotto solo dal lento frusciare delle foglie e dal suono ovattato dei passi di Lawrence sulla ghiaia. Il conclave era alle porte, e con esso la responsabilità di scegliere un nome, un volto, un futuro. Un nuovo Papa, una guida per la Chiesa di Roma. Un faro che li avrebbe guidati atttaverso le tenebre.

Aveva ascoltato discorsi, valutato alleanze, pesato ambizioni travestite da zelo. Tutti sembravano avere una visione chiara, beh tutti tranne lui. In cuor suo Lawrence non avrebbe mai pensato di avere la possibilità di accedere al soglio pontificio, era un onore che malgrado tutto non sentiva di meritare.

Fu allora che lo vide.

Vincent Benitez, inginocchiato accanto a un’aiuola, con la veste sollevata appena per non sporcarla. Davanti a lui, una piccola tartaruga si muoveva lentamente tra l’erba.

“Che state facendo?” Domandò Lawrence, con un sorriso appena accennato.

Vincent sollevò lo sguardo, sorpreso.

“Sapete, vengo qui ogni mattina. Mi ricorda che la pazienza non è immobilità. È fiducia.”

Lawrence rimase in silenzio. Guardò quell’uomo semplice, chino con dolcezza su una creatura indifesa. Non il più potente, non il più astuto, non il più ambizioso.

Ma il più umano.

Fu allora che comprese.

Non servivano grandi miracoli o promesse altisonanti. Bastava quel gesto. Quel rispetto per la vita più lenta, più fragile, più vera.

Il conclave avrebbe eletto un pontefice.

Lawrence, in cuor suo, aveva già scelto.

Vincent non era il più forte.

Era il più giusto. Ci sarebbe stato tempo per tutto il resto, ambizioni, alleanze, potere. 

Osservare il cardinale Benitez divertirsi con gli animali del vecchio Pontefice lo riempi di una gioia inaspettata. Un sentimento che da tempo aveva cessato di provare.

Ogni ansia o paura per l’avvenire era cessata.

“Avete bisogno di altro?” 

No era in pace.


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Il bianco della veste in quel momento pesava più dell’oro, più delle mani che gliel’avevano imposta. Vincent Benitez sorrideva, con la compostezza che il proprio ruolo richiedeva, ma dentro di sé sentiva solo un silenzio vasto e immobile. Era quasi assordante e non gli lasciava un attimo di respiro. 

Lo avevano chiamato Santo Padre. Aveva scelto il nome di Innocenzo XIV. Ma quel titolo aveva solo l’amaro sapore di un addio.

Lawrence fu tra i primi ad avvicinarsi, dopo l’elezione. Lo sguardo fiero, impassibile come sempre. Nessun tremito. Nessuna parola oltre il protocollo. Era bellissimo nel proprio ruolo, esprimeva una sicurezza che nessun altro cardinale avrebbe mai potuto vantare.

Vincent avrebbe tanto voluto sfiorargli la mano in quell’occasione. Dire tutto quello che non era mai stato detto. Ma ora era troppo tardi. O forse, più banalmente lo era sempre stato e quei giorni erano stati solo un sogno vissuto ad occhi aperti.

“Eminenza,” disse, con la voce ferma, anche se sentiva cuore e ogni fibra del proprio corpo bruciare.

Lawrence chinò appena il capo. Mite, accondiscendente. 

“Santità”

Una sola parola. Come una lama.

Il tempo per i sentimenti era finito.

Non ci sarebbero più state confidenze sussurrate nei corridoi, né risate trattenute nei giardini, né quegli sguardi rubati che avevano detto più di mille preghiere.

Vincent ora era diventato Papa.

E il Papa non ama.

Non così. Non può farlo nemmeno in segreto, non in vaticano, non più. 

Si voltò, il manto bianco che si apriva come le ali di un angelo condannato.

E mentre avanzava verso la folla adorante, pensò solo a Lawrence. Il suo fidato cardinale.

Al tempo che non avevano più.

A ciò che non poteva più essere.

E al fatto che, in cuor suo, Vincent non avrebbe mai smesso di amarlo.


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Il portone della Domus Sanctae Marthae si richiuse alle loro spalle con un tonfo sordo, come un sigillo.

Cardinale Aldo Bellini si tolse il cappotto con la lentezza di chi cerca di prendere tempo. Il conclave incombeva, e con esso, l’obbligo di scegliere un nuovo papa. Per Goffredo Tedesco invece, il vero peso era un altro.

Aldo era lì.

Dopo anni di silenzi, di viaggi diplomatici in terre lontane, di lettere formali mai spedite — eccolo. Il volto forse più scavato, ma gli occhi gli stessi. Quelli che un tempo lo avevano guardato come si guarda qualcosa di sacro, unico, prezioso.

Si incrociarono nel corridoio centrale, diretti entrambi verso la cappella. Per un attimo, il tempo sembrò piegarsi. Stagioni dimenticate, preghiere sussurrate, baci e carezze rubati.

“Eminenza,” lo salutò Aldo, con un cenno del capo. Troppo composto, troppo distante. Troppo dannatamente se stesso.

“Bellini” rispose Goffredo, stringendo le labbra. Non “Aldo”. Non ancora. Non poteva permettersi tanta confidenza.

Percorsero insieme alcuni passi. Il silenzio tra loro parlava più delle parole.

“Allora, per chi voterai?” chiese infine Tedesco, non per curiosità politica, ma per sentire la sua voce. Semplicemente gli mancava.

Bellini scosse appena il capo.

“Non ho ancora deciso. Ci sono troppi nomi… e nessun volto”

Un sorriso amaro sfiorò le labbra di Tedesco

“Già. Nessun volto”

Ma i loro sguardi si cercarono, come se il passato bussasse piano alle porte del presente. L’odore dell’incenso non riusciva a coprire quello dei ricordi: le notti nei dormitori, le mani sfiorate per sbaglio, il desiderio nascosto tra le pieghe della tonaca.

“Non è più tempo di giochi”lo sai

mormorò Aldo.

“No,” rispose Goffredo. “Ma forse… è ancora tempo di verità”

E in quel conclave, tra voti e preghiere, tra silenzi e segreti, si sarebbero trovati di nuovo.

Uomini, prima che cardinali.



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L’altare era pronto, l’incenso aleggiava nell’aria, e i seminaristi intonavano i canti con voce limpida, quasi innocente.

Quasi.

Aldo Bellini era rigido nel proprio posto, le mani giunte, lo sguardo fisso sul messale che teneva sulle gambe. Ma ogni volta che alzava appena gli occhi, li trovava: quelli di GoffredoTedesco, fermi su di lui. Fissi. Brucianti, come le fiamme dell’inferno.

Non erano più bambini, non lo erano da un pezzo. Non dopo quelle sere passate svegli, a pochi letti di distanza, con il cuore che batteva troppo forte per il silenzio del dormitorio.

Il canto finì. Don Paolo li chiamò a sistemare i paramenti. E fu lì che accadde.

La sagrestia era vuota. L’eco dei passi lontana.

Bellini vi entrò per primo. Poco dopo, la porta si richiuse alle sue spalle.

Goffredo.

Lo sguardo era lo stesso che aveva durante la messa: feroce, affamato, incredulo. Le mani tremavano appena quando si avvicinò.

“Non dovremmo,” sussurrò Aldo contro il suo orecchio.

“Ma lo faremo.” Ovviamente. Tedesco sapeva come ottenere sempre ciò che voleva e in quel momento il suo desiderio era tutto per Aldo Bellini.

Si baciarono come se il tempo fosse un’illusione, come se il peccato fosse un pensiero lontano. Le dita si stringevano sul colletto delle tonache, i respiri spezzati si confondevano con il fruscio del lino.

Fu un attimo.

Un sacrilegio.

Un miracolo.

Una blasfemia.

La promessa della dannazione eterna.

Quando si separarono, le guance arrossate e i cuori in tumulto, la campanella della messa risuonò oltre la porta.

“Torniamo,” propose Aldo, il volto incredulo, quasi scioccato da tanto ardore.

“Dopo,” rispose Bellini, il sorriso appena accennato. “Solo un istante ancora”.

Un istante solo per loro. Prima di tornare ad essere santi, puri. Prima di abbracciare nuovamente il sentiero che avevano scelto.


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C’era un tempo in cui bastava uno sguardo.

Un cenno, una scusa per restare da soli nella biblioteca del seminario, tra scaffali polverosi e pagine in odore di santità che sapevano solo coprire ciò che davvero ardeva dentro.

Ora quel tempo sembrava appartenere a un’altra vita. Una stagione passata, che mai più sarebbe tornata.

Il Cardinale  Aldo Bellini sedeva nella penombra della propria stanza, il cappuccio leggermente calato, come se volesse nascondersi da tutti ma soprattutto da se stesso. Sulla scrivania, un foglio non scritto. Doveva preparare un discorso, forse una dichiarazione. Ma ogni parola gli pareva vuota. Priva di ogni significato. 

Qualcuno bussò. Un colpo secco.

“Entra,” disse, riconoscendo già il tocco di quella mano contro il legno.

Goffredo Tedesco varcò la soglia come una memoria tornata in carne e ossa. Un fantasma appartenente al passato che Dio aveva riportato sulla sua strada. I capelli più grigi, gli occhi identici a quelli del ragazzo che lo aveva baciato, per la prima volta, tra i banchi di una cappella deserta.

“Hai cercato il mio voto, o me?” chiese Aldo, pacato. Non voleva illudersi. Certe cose non sarebbero mai cambiate, non potevano. 

Tedesco non rispose. Il silenzio parlava per lui.

“Ricordi quando pensavamo che bastasse aspettare? Che un giorno, lontano, ci saremmo concessi il lusso di essere veri?” Vivi.

“Il tempo ci ha traditi,” mormorò Bellini.

Goffredo si avvicinò, senza sorridere.

“No. Siamo stati noi a lasciarlo andare. A perderlo.”

Un gesto. Una mano sulla spalla. Calore sotto la stoffa sacra.

In quell’istante, tutto ciò che non era mai stato detto si fece chiaro.

Non avrebbero mai più avuto vent’anni, né quel coraggio ingenuo. Ma forse, anche in mezzo ai voti e alle omelie, potevano ancora salvare qualcosa.

Non tutto era perduto per loro.

Solo il tempo.


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