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Cowt-14 Sesta Settimana  - M3 Tempo Congelato

Fandom: Jujutsu Kaisen 

Numero parole: 2000

Note: AU/ accenni di Omegaverse




All’inizio, fu solo silenzio.

Nessuna esplosione, nessun grido. Solo un battito mancante.

Yuta si svegliò in mezzo a un campo di detriti sospesi a mezz’aria. Una pioggia di foglie immobili, uccelli congelati nel volo, automobili bloccate a un respiro dal disastro. Persino le maledizioni erano immobili, come statue pietrificate nel mezzo di un attacco. Il cielo non si muoveva. Il tempo era morto.

Trascinava i piedi tra le ombre della città congelata, senza capire perché lui potesse ancora muoversi. Nessuna risposta dalle radio della scuola. Nessuna energia da avvertire… tranne una.

Un punto, al centro di Shinjuku. Un epicentro.

E lì, tra le crepe del suolo, Yuta lo vide.

Satoru Gojo fluttuava a pochi centimetri dal terreno, occhi chiusi, un’espressione di pace irreale sul volto. Intorno a lui, l’Infinito si era condensato in una sfera quasi trasparente, pulsante come un cuore. Dentro, il suo corpo non mostrava ferite. Ma non reagiva.

Yuta si avvicinò, posando una mano tremante sulla barriera.

«S…sensei?»

Silenzio.

E poi, un sussurro. Non una voce vera, ma un’eco nella sua mente.

Ci eravamo quasi legati… ma non ho avuto il coraggio.”

Yuta indietreggiò. Quella voce… non era di Satoru Gojo. Era più bassa. Più calda. Apparteneva a Suguru Geto.

Un legame spezzato. Un Infinito prigioniero. E forse, una seconda occasione che il tempo stesso aveva fermato per non lasciarla andare.

Il sussurro si dissolse nell’aria come nebbia. Ma qualcosa si era mosso.

La superficie dell’Infinito, prima solida e respingente, iniziò a vibrare sotto la mano di Yuta. Onde sottili si propagarono nel vuoto, come se la barriera riconoscesse il suo tocco. Come se volesse… lasciarlo entrare.

Yuta serrò i denti. «Se questo è l’unico modo per salvarlo…»

Chiuse gli occhi.

E il mondo cambiò.


***


Quando li riaprì, era notte. Ma non quella di Tokyo.

Si trovava in una strada deserta, illuminata da lanterne di carta che fluttuavano nell’aria come se il vento fosse solo un’illusione. L’asfalto era umido, come appena piovuto. Intorno, silenzio. Non un’anima. Solo una sensazione intensa di rimpianto, come se ogni cosa in quel posto fosse stata costruita da pensieri mai detti.

Poi lo vide.

Un ragazzo seduto su una panchina, la testa piegata all’indietro, gli occhi chiusi. Suguru Geto. Non quello della guerra, non il nemico. Ma il Geto che Yuta aveva intravisto una volta, tra le pieghe dei ricordi di Gojo: giovane, vivo, con il volto sereno e un sorriso appena accennato. Un filo di luce lo circondava, tenue, dorato. Un legame incompleto.

Dall’altra parte della strada, un altro ragazzo avanzava, scalzo, con gli occhiali da vista tra le dita. Gojo. Non ancora il Satoru che tutti conoscevano. I capelli sciolti, spettinati, il passo lento, quasi esitante. C’era qualcosa nel suo volto, una fragilità rara, visibile solo quando il suo sguardo incrociava quello di Geto.

«Dovevi aspettarmi,» furono le uniche parole di Gojo, la voce ridotta ad un sussurro spezzato.

«L’ho fatto,» rispose il corvino. «ma tu… avevi troppa paura.»

Yuta trattenne inconsciamente il respiro. Stava assistendo a un ricordo, ma era più di una visione. Era come se quel luogo fosse stato creato da emozioni compresse nel tempo stesso. Ogni parola, ogni gesto era reale, tangibile.

Gojo abbassò lo sguardo, le mani strette sul tessuto della camicia. «Era il momento giusto, Suguru. Ma io… io non ero pronto a legarmi a nessuno.»

«Perché sei un Omega, e ti hanno sempre detto che sarebbe stato un punto debole?»

«No. Perché sei tu.»

La voce di Gojo si incrinò. «Avevo paura di quello che significavi per me.»

Calò un silenzio carico di significato. 

Poi Geto si alzò. Le sue dita sfiorarono la guancia di Gojo, e per un attimo, il mondo intero sembrò trattenere il fiato.

«Lo sai che non è mai troppo tardi, vero?»

«Ma tu sei morto.»

«Sì.» Geto sorrise piano. «Eppure mi hai tenuto con te. Dentro l’Infinito. Dentro questo legame mai concluso.»

Yuta si portò una mano al petto. Sentiva tutto: il calore, il dolore, l’amore non detto.

Il tempo si era fermato per questo. Per dare loro un’ultima possibilità di legarsi.

E forse, per salvare tutto ciò che era stato perduto.

«Perché ora?»

La voce di Satoru tremava appena, come se ogni parola costasse troppo.

«Perché adesso che è tutto finito mi sento pronto, quando tu… non ci sei più?»

Geto non rispose subito. Lo guardava. Come se bastasse quello. Come se stesse aspettando da anni che il possessore del Minimo Infinito finalmente ponesse la domanda giusta.

«Perché il legame non è mai morto, Satoru. Tu lo hai tenuto vivo anche senza volerlo.»

Fece un passo avanti. «Lo hai fatto con ogni ricordo, ogni sogno, ogni volta che hai pronunciato il mio nome con rabbia o nostalgia. Il tempo si è fermato… perché il tuo cuore si è rifiutato di lasciarmi andare.»

Gojo abbassò lo sguardo.

Le sue dita si strinsero contro il tessuto leggero della camicia, proprio lì, sopra lo sterno. Come se sentisse qualcosa lì sotto, vibrare. Come un filo teso che si era spezzato, ma non del tutto.

La memoria del loro legame era ancora lì. Non completata. Eppure così reale. Tanto da fare male.

«Sai cosa succede se lo facciamo adesso?»

La voce di Gojo era bassa, più fragile di quanto avrebbe mai ammesso davanti a chiunque altro.

«Il tempo riprenderà a scorrere. E tu… tu svanirai per sempre, Suguru.» non sapeva nemmeno lui perché quelle parole avessero lasciato le sue labbra. La verità faceva male, quasi quanto il fatto di doverla accettare.

Geto però gli sorrise. C’era una dolcezza infinita in quel gesto.

«Allora è giusto così.» rispose tranquillamente.

Un passo. Poi un altro. Gojo non si mosse. Non scappò.

Le dita di Geto sfiorarono le sue. Il tocco era leggero, ma bastò perché l’energia tra loro si risvegliasse.

Una corrente calda, viva, attraversò l’aria.

Il loro bond si risvegliava, riconoscendo se stesso.

Geto posò la fronte contro quella di Gojo.

«Legati a me, Satoru. Lasciami andare, una volta per tutte. Ma non da estraneo. Non da nemico.»

«Da Alpha.»

Gojo chiuse gli occhi e finalmente, non ebbe più paura.

Si lasciò andare, sentendo il proprio corpo cedere alla tensione, all’istinto, a quel desiderio antico e represso. La sua anima riconobbe l’altra.

Il filo si chiuse.

Il soulbond fu completato, non nel corpo, ma nello spirito.

Nel momento in cui lo fece, un vento invisibile attraversò la città congelata. Le foglie ripresero a cadere. Il battito del mondo riprese.

Yuta spalancò gli occhi, fuori dalla barriera. L’Infinito intorno a Gojo si era dissolto.

Il suo corpo cadde a terra, tremando.

Respirava e piangeva.

In silenzio.

L’aria era cambiata.

Yuta lo sentì nel primo respiro che riempì i polmoni del mondo.

Il cielo riprese a muoversi, lento, come se stesse svegliandosi da un lungo sogno. I suoni tornarono uno dopo l’altro, il fruscio delle foglie, un clacson lontano, il battito regolare del cuore di Gojo.

Satoru che, ora, giaceva a terra, con le mani premute sul viso, tremando.

Yuta corse verso di lui, inginocchiandosi al suo fianco.

«Sensei! Sta bene? Riesce a sentirmi?»

La voce gli uscì spezzata dalla paura e dalla tensione trattenuta troppo a lungo.

Gojo non rispose subito. Il suo corpo era teso, scosso da brividi. Dopo parecchi secondi sollevò lentamente il viso.

Stava piangendo. Senza rumore. Senza drammi.

Piangeva come si piange quando si lascia andare qualcosa che non si riesce più a trattenere.

«Sì… Yuta. Ti sento.»

Ci fu una pausa. Lunga. Quasi sospesa, ancora. Poi Gojo si mise a sedere, passandosi una mano tra i capelli disordinati.

«Il tempo si è fermato… perché io l’ho fermato.»

Yuta spalancò gli occhi. «Ma… come?»

Gojo guardò davanti a sé, come se vedesse ancora il ricordo svanire all’orizzonte.

«Era l’unico modo che il mio corpo conosceva per non andare avanti. Per restare aggrappato a lui. Al legame che non abbiamo mai avuto il coraggio di concludere.»

Silenzio.

«Con Geto?» sussurrò Yuta. Sapeva di quella storia come anche del fatto che Satoru fosse restio a parlarne.

Gojo annuì.

«Eravamo destinati a legarci. Omega e Alpha, sì. Ma prima ancora della nostra natura, noi eravamo due anime simili. Opposte. Incomplete. Non lo abbiamo fatto. Non abbiamo mai avuto tempo, mai avuto il coraggio. Poi Suguru se ne è andato, e io ho continuato a vivere come se nulla fosse, come se potessi sopravvivere al suo ricordo.»

La voce gli si spezzò.

«Ma il mio cuore non ci è riuscito. Così ho congelato il tempo. Ho creato un rifugio in cui restare con lui. Un frammento dove nessun orologio potesse più andare avanti.»

Yuta abbassò lo sguardo.

«E ora…?»

Gojo sorrise. Un sorriso stanco, ma vero.

«Ora Geto è andato. Per davvero. Lo sento. Ma siamo legati. Finalmente. Anche se solo adesso, anche se troppo tardi… ho scelto di lasciarlo andare nel modo giusto.»

Poi, voltandosi verso Yuta, gli posò una mano sulla spalla.

«Grazie per avermi portato indietro.»

Yuta deglutì. La voce gli tremava.

«Non l’ho fatto solo per lei, sensei. Ma anche per lui. Meritavate entrambi di chiudere quel cerchio.»

Gojo chiuse gli occhi. Le sue dita tremavano ancora, ma nel profondo del suo petto… qualcosa si era placato.

Il tempo, ora, poteva andare avanti.


***


Il cielo di Tokyo era grigio.

Non pioveva, ma l’aria aveva il sapore di qualcosa che stava per cominciare, o forse finire del tutto. Gojo sedeva in cima all’edificio dell’Istituto, le gambe penzoloni nel vuoto, lo sguardo perso oltre le nuvole. Non indossava gli occhiali.

Li aveva lasciati accanto a sé, insieme a una vecchia foto: lui e Geto, studenti, sorridenti, ancora ignari di tutto.

Yuta lo osservava da lontano.

Non aveva il coraggio di interromperlo. Non ancora.

Gojo sembrava intatto. Ma qualcosa era cambiato: nei suoi gesti, nel modo in cui respirava.

Come se portasse dentro un silenzio nuovo. Un vuoto colmo, se esiste qualcosa del genere.

Poi, come se l’avesse sentito, Satoru parlò.

«Sai che ho ancora la sua voce nella testa? Non come prima… non come un tormento. Solo… una frase. L’ultima.»

Yuta si avvicinò piano, sedendosi accanto a lui.

«Cosa ha detto?»

Gojo non rispose subito. Prese un respiro, lungo, profondo.

«Ti ho aspettato, anche se sapevo che non saresti arrivato in tempo. Ma il tempo… in fondo, non importa»

Chiuse gli occhi, lasciando che il vento gli scivolasse addosso.

Poi Yuta lo vide: per un istante, fugace come un battito d’ali, una figura seduta accanto a Gojo, le braccia incrociate dietro la testa, lo sguardo rivolto al cielo.

Suguru Geto.

Non reale, non vivo. Eppure presente.

Gojo non lo guardò. Non ne aveva bisogno.

«Non dimenticherò mai il posto in cui il tempo si è fermato. Perché in quel silenzio… lui mi ha perdonato. E anche io sono riuscito a farlo»

Dopo pochi minuti la figura svanì.

Yuta rimase in silenzio, sapendo che quell’attimo non gli apparteneva. Satoru Gojo era tornato ad essere se stesso. Non era più in balia del proprio passato. Di un legame che non era riuscito a concludere.

E se il tempo si fosse fermato solo un secondo prima?

Un secondo appena.

Sarebbe bastato per cambiare tutto. 

In quell’attimo rubato, Gojo avrebbe potuto tendere la propria mano verso Geto.

Non per dirgli addio ma per restare, combattere insieme a lui.

Niente guerra, niente addii.

Solo un respiro trattenuto, due fronti che si toccano.

E la promessa muta di vivere insieme quell’attimo, all’infinito.

Il tempo non avrebbe ripreso a scorrere.

Non lì, non così.

Eppure, in quella frattura impossibile, entrambi sarebbero stati felici.

Una realtà che non è mai accaduta. Un’utopia.

Un universo alternativo custodito nel cuore di un uomo che, alla fine, aveva imparato a lasciare andare ma non a dimenticare.

Perché semplicemente, esistono amori che non muoiono così come esistono legami che vivono anche dopo la fine.

E, da qualche parte, in un frammento di tempo mai esistito…

Gojo Satoru e Geto Suguru sono rimasti insieme.



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Cowt-14 Sesta Settimana  - M4 Viaggio

Fandom: Jujutsu Kaisen 

Numero parole: 9096

Note: Viaggio inteso come viaggio di Satoru nella consapevolezza di non poter salvare Suguru, ma anche viaggio nel tempo visto che ritorna nel passato con la speranza di poter cambiare le cose.



Il tempo non ha odore.

Non ha sapore, né forma.

Eppure, mentre tutto dentro di lui si sgretolava, Satoru Gojo avvertiva su di sé il peso di ogni secondo, come se gli fosse stato cucito addosso. Aveva il vago retrogusto di un viaggio, un’escursione verso l’ignoto. 

La Prigione Astrale nella quale era riunchiuso appariva silenziosa. Non il silenzio pieno della quiete, ma quello vuoto dell’assenza. Nessuna voce, nessun suono. Solo lui, e il ricordo di tutto ciò che aveva perso.

Suguru.

Quel nome gli si formò sulle labbra senza che ne fosse consapevole. Un riflesso involontario, come il battito del proprio cuore.

Ogni volta che lo pronunciava nella mente, qualcosa dentro di lui si tendeva, come una corda sull’orlo dello strappo. Era il peso del proprio rimpianto, il rimorso per non averlo salvato.

«Se potessi tornare indietro…»

Lo aveva pensato tante volte. Troppe. E ora che il suo corpo era imprigionato in un guscio senza tempo, quel pensiero si era fatto più reale di qualsiasi altra cosa.

Il tempo non si piega, non si può modificare né alterare. O almeno, così aveva sempre creduto.

Poi venne la luce. Un lampo accecante, come se l’universo stesso avesse deciso di rispondere a un desiderio mai detto ad alta voce. Il suo potere, unito alla maledizione di Kenjaku, si ribaltò su sé stesso e quando riaprì gli occhi, il mondo era ancora lì. Ma qualcosa era diverso.

I capelli non gli cadevano più sulle spalle. Le mani erano più piccole. Il corpo più leggero.

La voce che gli rispose allo specchio era quella di un ragazzo.

«Bentornato, Satoru.»

Si trovava nell’antico dormitorio dell’Istituto.

E poco più in là, nel corridoio, una voce familiare rideva, ignara del tempo, ignara di tutto.

Era Suguru Geto.

Passi. Quell’andatura l’avrebbe riconosciuta ovunque. Suguru non camminava: scivolava, come se il mondo intero fosse stato fatto per lasciargli spazio. La sua risata risuonava contro le pareti del dormitorio, così giovane, così viva. Così lontana dall’eco cavernosa e spezzata che Satoru aveva udito l’ultima volta. Sembrava un sogno, doveva per forza esserelo. La stanza girò appena. Non per effetto della tecnica. Era il proprio cuore. Il rimorso. La memoria.

Satoru si appoggiò alla parete, chiudendo gli occhi. Inspirò a fondo, come se potesse trattenere quel momento dentro di sé, imprigionarlo prima che svanisse. Era lì. Era veramente lì. Ogni suo senso glielo confermava. Mentre Suguru…

Suguru era ancora se stesso. Non aveva ancora guardato un bambino e visto un errore. Non aveva ancora pronunciato quelle parole.

“Gli umani deboli non meritano salvezza.”

Eppure Gojo le sentiva già, sospese nel tempo come un ronzio ossessivo. Gli rimbalzavano nel petto, tra le costole, come spine. Aveva avuto il potere per fermarlo. Il potere per salvarlo e invece aveva voltato le spalle, convinto che ci sarebbe stato tempo, modo di rimediare, che Suguru sarebbe tornato indietro da solo.

Che sarebbe bastato aspettare.

Aveva sbagliato. Aveva fallito. Era quel peso a consumarlo, a guidare ogni sua azione.

«Se ti parlo adesso… rovino tutto?»

La domanda gli uscì in un sussurro, non era diretto a nessuno in particolare. A se stesso, forse. O alla versione del tempo che aveva osato sfidare.

Sapeva di camminare su un filo sottile. Il solo parlare troppo, svelare troppo, sentire troppo… poteva frantumare quel presente come vetro.

Ma come si faceva a restare in silenzio, quando tutto dentro di lui urlava?

Quando ogni risata di Suguru gli tagliava la pelle come una lama, perché sapeva che da lì a poco quelle risate sarebbero sparite?

Gojo si voltò lentamente, il cuore tamburellante nel petto. Finalmente lo vide. Suguru, in piedi, un panino in mano, la divisa un po’ stropicciata, l’aria scanzonata.

«Satoru?»

Lo sguardo si accese. Come sempre. Il cuore fece un paio di capriole spezzandogli il respiro.

«Hai una faccia… strana. Tutto ok?»

Gojo cercò di rispondere. Di sorridere. Di essere lui, il sé di quel tempo, anche se il dolore era troppo vicino alla superficie. Sapeva che si sarebbe tradito, prima o poi.

«Sai, Suguru…» La voce gli tremò, come ogni volta che si trovava a sussurrare quel nome.

«Se avessi solo un’altra possibilità…» si lasciò scappare.

Geto lo guardò, inclinando la testa, incuriosito.

«Eh? Di fare cosa?» Gojo abbassò gli occhi.

«Di non perderti.» ammise con sincerità non riuscendo a trattenersi.

«Di non perdermi?» Suguru smise di sorridere. Il panino restò sospeso a metà strada tra la mano e la bocca, come se quelle parole avessero interrotto il tempo anche per lui. Lo guardò con un’espressione che Gojo non vedeva da anni — attenta, silenziosa, piena di quella percezione acuta che aveva sempre nascosto dietro un’aria tranquilla.

«Satoru, che ti prende? Hai fatto un sogno brutto o qualcosa del genere?» indagò.

Gojo abbassò lo sguardo. Non poteva dirglielo. Non doveva dirglielo. Ogni sua parola rischiava di creare una frattura, ogni confessione un effetto domino di eventi imprevedibili.

Eppure, stargli di fronte e fingere che tutto fosse normale… era come soffocare a ogni respiro.

«Scusa,» mormorò. «Sono solo… stanco, tutto qui.»

Suguru non rispose subito. Lasciò il panino sul davanzale e si avvicinò. Gli occhi scuri lo scrutavano come se volessero leggere qualcosa che non veniva detto, qualcosa che si muoveva sotto pelle.

«Ti conosco, Satoru. Sei strano, ma non così strano.»Gojo sorrise, amaramente. Geto era l’unico a conoscerlo così intimamente. 

«E allora cosa sono oggi? Uno strano più uno?»

Suguru lo guardò ancora, poi si mise a ridere. Una risata vera, piena, che per un istante cancellò ogni cosa. Gojo la assorbì come una medicina, come ossigeno e allo stesso tempo, gli fece male.

Era la risata di un uomo che non sapeva ancora quanti morti avrebbe sulle spalle. Quanta oscurità lo avrebbe divorato. Era come trovarsi in un sogno, un deja-vu. Un viaggio senza ritorno del quale conosceva ogni tappa, compreso l’amaro finale.

«Qualunque cosa tu abbia sognato, non succederà. E anche se dovesse accadere..beh tu non mi perderai mai, Satoru.»

Geto si avvicinò e gli diede un colpetto sulla spalla. Anche quel tocco era così vero, familiare, nostalgico. 

«Siamo troppo forti per perderci, no?»

Quelle parole lo colpirono più di qualsiasi maledizione.

Erano vere.

Nel passato, nel presente, in quel momento.

Quello che gli fece più male era che Suguru lo credeva davvero.

Gojo chiuse gli occhi e, in silenzio, giurò che avrebbe riscritto tutto.

Avrebbe protetto quella luce, anche a costo di spegnere la propria. Stava iniziando a comprendere lo scopo di quel viaggio, il senso della propria missione


***


La sera calò in fretta sull’Istituto.

Dalla finestra del dormitorio, Satoru Gojo osservava i tetti annerirsi nel cielo di Kyoto, mentre le luci delle stanze si accendevano una a una come stelle artificiali.

Dietro di lui, la stanza era silenziosa. Nessuna voce, nessun rumore. Solo il battito del proprio cuore e il peso dei pensieri.

“Non mi perderai mai.”

Quelle parole gli tornavano alla mente come un’eco ossessiva. Eppure, ogni fibra del suo corpo sapeva già che era una bugia.

Non perché Suguru stesse mentendo, ma perché il futuro esisteva già nella sua memoria — scolpito, definito, inevitabile.

A meno che non lo cambiasse.

Gojo si lasciò cadere sul letto, le braccia spalancate, lo sguardo fisso sul soffitto.

Sentiva il peso del suo stesso corpo come se fosse fatto di piombo. Ma non era il fisico a pesargli. Era la propria mente. 

Pensieri ricorrenti sul passato. Il futuro. Il fatto che adesso si trovasse nel mezzo, e che ogni sua azione potesse riscrivere tutto. Modellare la storia, i destini di tutti loro.

“Da dove si comincia a salvare una persona?”

Geto Suguru non era crollato in un solo giorno.Non c’era stato un unico errore, una sola crepa.

Era stato un lento e progressivo sgretolarsi. Missione dopo missione, perdita dopo perdita. Il primo era stato Haibara. Solo a pensare a quel nome, qualcosa si strinse nel petto di Satoru.

Gojo ricordava perfettamente quella missione, così come la telefonata che ne era seguita. Rammentava la faccia di Nanami, così giovane e distrutta, e quella di Suguru, già distante, già sull’orlo, pronto a gettarsi in quel precipizio.

Fu uno dei primi passi. Uno dei chiodi nella bara.

“Se salvo Haibara, cambia qualcosa?” Fu il suo primo pensiero. 

“Oppure…”

Si voltò, affondando il viso nel cuscino.

“…rischio solo di accelerare la fine?”

La consapevolezza che quell’ipotesi fosse troppo fragile lo paralizzava.

Avrebbe potuto distruggere tutto.

Creare un futuro ancora peggiore ma non agire significava lasciare che Suguru cadesse di nuovo.

E lui non lo avrebbe sopportato.

Non una seconda volta. Non che avvenisse davanti ai suoi occhi. 

Fu in quel momento che decise.

Avrebbe osservato. Studiato ogni variabile per poi agire solo al momento giusto, nel punto esatto in cui l’equilibrio poteva essere spezzato senza collassare.

Era una partita a scacchi con il destino e Gojo, per la prima volta, non era sicuro di vincere. 


***


La porta dell’infermeria era socchiusa.

La luce al neon crepitava piano, come se anche lei stesse cercando di non svegliare nessuno.

Shoko Ieiri sedeva su uno sgabello, una sigaretta accesa tra le dita e lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Non si voltò quando lo sentì entrare.

«Non sapevo che fossi ancora sveglia,» disse Gojo, cercando di tenere la voce leggera e assumere un tono vago, quasi distaccato.

«Non sapevo che tu sapessi bussare,» ribatté lei, senza alzare lo sguardo.

Un silenzio familiare calò tra loro. Non era disagio. Era solo il modo in cui comunicavano: attraverso pause, mezze parole e tutto ciò che restava non detto.

Satoru si sedette di fronte a lei. Guardò la sigaretta consumarsi lentamente. Gli sembrò una perfetta metafora di quello che sentiva dentro: qualcosa che bruciava piano, ma inesorabilmente. La ragazza se la riportò alle labbra e tutto finì così come era iniziato. 

«Shoko…» La voce gli uscì più bassa del previsto.

«Tu credi che si possa davvero salvare qualcuno, se… se sta già cadendo?» Lei lo guardò finalmente. Niente ironia, niente cinismo. Solo stanchezza. Comprensione.

«Dipende da quanto sei disposto a farti male per provarci.» Satoru abbassò lo sguardo. Colpito e affondato. 

«E se lo avessi già perso una volta?» la donna inspirò lentamente, come se quella domanda fosse un bisturi da maneggiare con cura prima di un’operazione.

«Allora sai già quanto fa male. Ma ci riproveresti lo stesso, vero?» Gojo scelse di non rispondere subito.

«Non posso restare a guardare,» mormorò. «Non di nuovo. E se anche cambiasse tutto, se mi costasse ogni cosa… non importa.»

Shoko spense la sigaretta.

«Non parli di qualcuno qualsiasi. Parli di Suguru.» decreto con serata. Gojo alzò lo sguardo di scatto, sorpreso. Shoko lo conosceva troppo bene, era sempre stato un libro aperto per lei. 

«Non so cosa stai cercando di fare, Satoru. Ma se stai tentando di riscrivere qualcosa… stai attento. A volte, per salvare qualcuno, rischi di perderti tu.»

Gojo si passò una mano tra i capelli, poi rise piano. Una risata amara, vuota.

«Shoko… io mi sono già perso.» e quel viaggio nel era la prova. 

  

***


La pioggia cadeva fine, quasi invisibile, ma c’era nell’aria quella sensazione sottile di elettricità che Gojo aveva ormai imparato a riconoscere.

Lui la chiamava banalmente “l’istante prima che tutto andasse a puttane”

E in quella notte, ne sentiva il sapore.

Dall’alto dell’edificio abbandonato, il possessore del Minimo infinito osservava la scena sotto di sé con attenzione chirurgica.

Haibara, vivace come sempre, parlava a raffica.

Nanami, al suo fianco, lo ignorava con stoica rassegnazione.

«Dài, Kento, non sei un po’ emozionato? È la nostra prima missione davvero da soli!»

«È solo una classe due,» rispose Nanami, senza voltarsi. «Non c’è nulla di emozionante nella possibilità di morire.» Gojo li fissò in silenzio.Quelle parole le ricordava bene. Fin troppo.

In passato, erano diventate un presagio. Un’oscura previsione di morte.

Si strinse nel proprio giaccone. Il vento gli pungeva il volto, ma il freddo vero era dentro. Ciò che provava nel proprio animo. Era la consapevolezza di essere lì, così impotente di fronte al destino

Non poteva intervenire apertamente, non ancora. Doveva capire come cambiare le cose senza far crollare l’intero castello di carte che si era formato intorno a lui.

“È qui che succede. È questa la missione.”

Un’informazione sbagliata. Una maledizione più potente del previsto.

Nanami che si salverà per miracolo mentre il povero Haibara no.

Gojo chiuse gli occhi. Prese un lungo respiro. Per un istante, fu di nuovo lì. In quel obitorio. Ricordò il lenzuolo sporco di sangue e la voce spezzata di Suguru.

La furia. Il dolore.

E poi, il silenzio. Quel vuoto che non se n’era mai andato.

Aprì gli occhi di scatto.

“No. Questa volta no.”

Non lo avrebbe lasciato accadere.


***


Mentre Nanami e Haibara si inoltravano nel complesso, Gojo scese dal tetto utilizzando la propria abilità. Nessuno lo notò. Si mosse tra le ombre come un guardiano invisibile, pronto a intervenire.

Non doveva solo salvare Haibara. Doveva capire il punto esatto in cui tutto cominciava a rompersi, sgretolarsi. Perché solo allora, in quel preciso istante, avrebbe potuto provare a ricostruirlo. Un nuovo futuro, un avvenire diverso per tutti loro.


***


Il giorno dopo


La mattina era grigia. Non pioveva, ma il cielo sembrava trattenere le lacrime.

Suguru Geto era seduto sulla panchina, fuori dall’aula di addestramento, con lo sguardo perso nel vuoto.

Le mani giacevano inattive sulle ginocchia.

Non leggeva, non scriveva, non parlava.

Solo… restava. Immobile, schiavo dei propri pensieri 

Gojo lo osservava da lontano, appoggiato contro una colonna.

Una parte di lui avrebbe voluto correre lì, strattonarlo, urlargli addosso che era ancora tutto intero. Che Haibara era vivo. Che non era ancora troppo tardi.

Ma un’altra parte, quella che aveva imparato troppo presto il linguaggio del tempo, dell’imprevisto, sapeva che non funzionava così. Sarebbe stato troppo bello. Un sogno, un’utopia.

La frattura però non era visibile. Era sotto pelle. Nel modo in cui Suguru teneva le spalle un po’ più curve. In quel suo respiro che sembrava trattenuto, come se non volesse più espandersi del tutto. Gojo si mosse piano, avvicinandosi. Si sedette accanto a lui senza dire una parola. Per un po’, rimasero solo così.Due ragazzi in silenzio. Due amici con un futuro spezzato che forse, solo forse, poteva ancora essere ricucito.

«Haibara sta bene,» sussurrò Satoru.

Suguru annuì ma senza guardarlo.

«Lo so. Nanami me l’ha detto.»

Seguì un’altra pausa. Poi, come se le parole fossero scivolate fuori da sole:

«Ma non è questo.» Gojo lo fissò.

«Cosa intendi?»

Suguru si voltò verso di lui. Il suo sguardo era limpido. Dolorosamente trasparente.

«È tutto il resto.»

Gojo non rispose.

Si limitò a restargli accanto, sentendo il peso di ogni secondo che passava. Perché forse, in quel momento, quello che Suguru cercava non erano soluzioni ma qualcuno che restasse, anche quando tutto iniziava a tremare.

Geto abbassò lo sguardo.

Le dita giocherellavano con il bordo della manica, un gesto così piccolo, così umano, che Gojo ne fu trafitto.

Era come vedere la maschera iniziare a scivolare.

«Satoru…» disse piano.

«Non ti è mai sembrato tutto sbagliato?»

Gojo trattenne il respiro.

Quel tono. Quella domanda.

L’aveva già sentita.

Nel futuro.

Nel momento in cui tutto era ormai perduto.

«Ti riferisci agli incarichi?» provò a chiedere, cercando di mantenere la voce neutra.

Ma Suguru scosse la testa.

«Mi riferisco a noi. A quello che ci chiedono di essere. Di fare. Di sopportare.»

Si voltò lentamente verso di lui.

Lo sguardo era serio, ma non ancora rotto.

C’era passione, frustrazione. Un fuoco che non bruciava per distruggere, ma per cercare senso.

«Noi salviamo le persone… anche quelle che non fanno altro che generare maledizioni. Quelle che odiano gli stregoni. Quelle che ci userebbero come cani da combattimento, se potessero.»

Gojo non disse nulla. Il ricordo di Amanai Riko impresso a fuoco nella propria memoria. Il suo sorriso, la sua voglia di vivere.

Suguru continuò, come se la diga fosse stata appena scalfita.

«Ogni giorno mettiamo a rischio la nostra vita per proteggere chi non ci capisce. Chi non sa. Chi non vuole sapere.

E quando perdiamo qualcuno, non c’è nessuno che venga a chiederci come stiamo. Nessuno che ci dica: avete fatto abbastanza.»

Le parole si conficcarono come lame.

Gojo si ritrovò a stringere i pugni, senza accorgersene.

Perché aveva ragione.

Aveva così dannatamente ragione.

Ma non era quella la strada.

Doveva trovare il modo di dirglielo. Di farglielo sentire.

«Suguru,» disse con voce roca.

«Tu non sei solo. Qualsiasi cosa pensi… io ci sono. Sempre.»

Geto gli sorrise ma fu un sorriso triste, stanco. Non cinico. Solo… rassegnato.

«Lo so. Ma non basta, Satoru. Tu da solo non puoi salvare il mondo. E io… io sto iniziando a non volerlo più salvare.»

Sei il più forte perchè sei Gojo Satoru o sei Gojo Satoru perchè sei il più forte?

Bastava un niente per ricadere nell’abisso.


***


L’aria era immobile, come sospesa in una bolla di vetro.

Gojo sedeva sul tetto dell’Istituto, le gambe penzoloni nel vuoto e gli occhiali appoggiati accanto a lui. La notte gli si stendeva addosso come un manto pesante, trapunta di stelle che non bastavano a fare luce sul caos che aveva dentro.

“Non voler più salvare il mondo.”

Le parole di Suguru gli risuonavano nelle ossa. Satoru si passò una mano sul viso, di riflesso. Era stanco. Non fisicamente, quello non succedeva quasi mai, ma in un modo che non sapeva descrivere e che non aveva ancora sperimentato.

Come se ogni secondo trascorso in questo passato lo allontanasse un po’ di più da se stesso. Come se fosse un’eco di qualcosa che non poteva più essere.

Satoru aveva sempre pensato che, tornando indietro, sarebbe stato tutto chiaro. Che avrebbe trovato il momento esatto in cui salvare Suguru. Che avrebbe cambiato il corso degli eventi con la stessa facilità con cui apriva una barriera.

Ma non era così.

Era tornato con la consapevolezza del futuro, quello sì.

Con il dolore inciso a fuoco nelle proprie viscere.

Ma ogni parola, ogni sguardo, ogni silenzio… erano pieni di sfumature che non aveva mai visto prima.

E lui, beh semplicemente lui non era più lo stesso ragazzo.

Si era trasformato in un uomo che aveva perso troppo. Uno stregone che aveva guardato la fine in faccia. Un uomo che aveva ucciso il suo migliore amico con le proprie mani, e che adesso sedeva accanto a un Suguru ancora intatto, ancora pieno di crepe non ancora esplose. Come voleva salvarlo da quel baratro ma non sapeva davvero come allontanare tutte quelle ombre che, all’improvviso stavano ricadendo su di loro.

«Perché mi hai dato questa possibilità?» sussurrò nel vuoto, senza sapere bene a chi stesse parlando.

A Tengen? A Dio? A se stesso? O forse a quel folle di Kenjaku che aveva sfruttato la propria debolezza per imprigionarlo.

«E cosa succederebbe… se anche questa volta fallissi?» ripensò al sorriso di Suguru, a quell’estate del loro primo anno, alla propria giovinezza ormai sfiorita.

Il vento non rispose ma Gojo sentì qualcosa muoversi dentro.

Una determinazione silenziosa. Una ferita che bruciava, sì, ma che pulsava ancora di vita. Non era ancora finita; non poteva assolutamente permettersi di cadere.

Non questa volta.

«Non salverò solo Suguru,» mormorò, serrando le mani.

«Salverò anche me stesso» non vivrò nel rimorso, col peso di non aver fatto nulla per impedire il disastro.

Quando scese dal tetto, l’aria era ancora carica di silenzio.

I corridoi dell’Istituto erano deserti. La notte si era fatta più cupa, ma Gojo sentiva una chiarezza diversa nel petto.

Non era speranza quanto più un bisogno.

“Se lo lascio solo anche ora… se faccio finta di non vedere…” le cose torneranno come prima, Suguru passerà all’oscurità e sarò costretto a separarmi da lui. 

Non poteva. Non avrebbe rinunciato al proprio migliore amico.

Non dopo tutto quello che sapeva.

Si fermò davanti alla stanza di Suguru. La porta era socchiusa.

Un dettaglio piccolo, ma per lui importante. Suguru non lasciava mai le cose a metà per caso.

Satoru bussò appena con le nocche.

Non ottenne nessuna risposta. Solo il fruscio lieve di un libro sfogliato.

«Posso entrare?» La sua voce era bassa, quasi esitante. Diversa dal solito, carica di una nuova preoccupazione data dalla consapevolezza di conoscere ciò che stava per accadere.

«Sei già qui, no?» Il tono di Suguru era pacato. Ma non freddo.

Era come se lo stesse aspettando. Gojo si fece coraggio e spinse la porta.

La stanza era illuminata da una luce fioca. Geto era seduto per terra, la schiena appoggiata al letto, un libro aperto sulle ginocchia.

«Non dormi?»

«Nemmeno tu.» Suguru chiuse il libro, senza guardarlo.

«Che vuoi, Satoru?» Gojo esitò. C’erano mille parole che gli bruciavano sulla lingua, ma nessuna sembrava adatta. Alla fine rispose solo;

«Voglio esserci.» Suguru lo guardò per la prima volta quella notte per poi chinare il capo.

«Sei sempre stato lì. Non è questo il problema.»

Gojo scosse energicamente la testa. Geto aveva frainteso le sue intenzioni. Si avvicinò, si sedette accanto a lui sul pavimento, come facevano da ragazzi. Come se il tempo non fosse passato. Solo lui sapeva quanto tempo fosse trascorso da quei giorni felici, spensierati.

«No. Non c’ero. O non nel modo giusto. Ti ho guardato spegnerti, giorno dopo giorno, e ho fatto finta che fosse colpa tua. La verità però è un’altra Suguru, era anche colpa mia.»

Geto non disse nulla.

Il silenzio tra loro era denso, ma non ostile. Gojo continuò, più piano;

«Sono tornato indietro, ho iniziato questo viaggio pensando di salvarti. Ma forse… forse devo prima imparare ad ascoltarti.»

Suguru chiuse gli occhi.

Inspirò.

Poi si lasciò andare contro il bordo del letto, le spalle che sembravano cedere per un momento.

«È la prima cosa sensata che dici da giorni, inoltre sei finalmente tornato a parlarmi» grazie ne avevo bisogno

Un accenno di sorriso, seppur stanco, sfiorò le sue labbra.

E in quel frammento sospeso nel tempo, Gojo sentì che forse qualcosa stava cambiando, c’era uno spiraglio, un barlume di speranza che avrebbe continuato ad alimentare con tutte le proprie forze.

«Sai qual è la cosa che odio di più?» La voce di Suguru era un filo, ma tagliente.

Gojo lo guardò, aspettando. Voleva comprendere Geto, le ragioni che lo avevano spinto in quell’oblio.

«Che la gente muore… e tutto continua uguale. Come se niente fosse. Come se non fossero mai esistiti.» Gli occhi di Suguru in quel momento erano fissi sul vuoto anche se Gojo capiva benissimo dove stava guardando.

Il volto di Haibara, il suo sorriso. La risata che ancora gli riecheggiava nella memoria. Il pensiero di perdere un amico, una persona cara, così, da un giorno all’altro avrebbe scosso chiunque.

«E allora mi chiedo,» continuò Suguru, «a cosa serve salvare le persone, se poi ci dimenticano? Se ci usano? Se diventiamo solo numeri in un registro?»

Gojo si passò una mano tra i capelli. Non aveva risposte.

Ma forse… forse non era quello che Suguru voleva.

Forse, in quel momento, l’amico desiderava solo essere visto, ascoltato.

«Io non ti ho dimenticato» Le parole uscirono quasi a bassa voce, un sussurro che sembrava fragile ma aveva il peso di anni fatti di silenzio, solitudine, colpa.

Suguru si voltò verso di lui.

Non disse nulla, mentre Gojo, per la prima volta da quando era tornato indietro, decise di non riempire quel silenzio.

Lasciò che restasse. Che li avvolgesse. Che parlasse per loro.

Per qualche minuto, rimasero così.

Due ragazzi che avevano visto troppo, sentito troppo, perso troppo. che, nonostante tutto, erano ancora lì.

Poi, all’improvviso si udì un suono secco.

Un ronzio. Un sibilo. Una vibrazione nell’aria. Gojo si alzò di scatto. Suguru lo seguì con lo sguardo, la stanchezza che lasciava il posto all’istinto.

«Che succede?» domandò 

«Non lo so ancora, ma non è niente di buono»

Gojo indossò i propri occhiali con un gesto rapido. Sentiva una maledizione avvicinarsi.

Forte. Insolita. Si voltò istintivamente verso Suguru.

Lo sguardo fermo.

Non da stregone. Da amico.

«Andiamo  gli propose con un cenno del capo.

Suguru annuì. Una sola volta. Ma fu abbastanza. Erano i due studenti più forti. Insieme nessuno avrebbe mai potuto competere con loro.


***


Il silenzio nel cortile divenne opprimente. L’aria vibrava di una tensione che andava oltre ogni maledizione che Gojo avesse mai incontrato. Non c’era nessun suono, nessuna energia. La distorsione era appena percettibile, come una presenza che stava al di là di ogni forma di maledizione conosciuta.

Gojo respirò profondamente, le sue mani si stringevano a pugno. Era consapevole di quanto fosse pericoloso tornare indietro nel tempo, di come ogni mossa potesse alterare il fragile equilibrio che aveva cercato di mantenere. Eppure, era lì. In quel momento. Di fronte ad un qualcosa che non avrebbe mai potuto prevedere.

Un’ombra più profonda si staccò dalla nebbia, avvolgendo tutto intorno a loro. Gojo non la vide, ma la percepì. Una frustrazione che si mescolava alla paura. La paura di aver cambiato qualcosa che non avrebbe dovuto essere toccato.

“Se il passato è una ferita che non guarisce mai, cos’è che sto cercando di fare?”

La domanda rimbombava nella sua mente. Tornare indietro nel tempo per salvare Suguru. Aveva intrapreso quel folle viaggio per impedire la sua caduta nel buio. Eppure, cosa significava davvero tutto ciò?

Geto si mosse accanto a lui, ma Gojo non lo guardò. Il suo sguardo era fisso nell’oscurità, in quel vuoto che sembrava inghiottire ogni cosa.

L’ombra davanti a loro iniziò a prendere forma. Non era una maledizione che conoscevano. Non c’era il classico, malvagio sfogo di potere. Era una presenza che sembrava appartenere a una dimensione parallela, come se il tempo stesso, la realtà fossero state lacerate e ciò che ne restava solo un riflesso distorto.

Gojo sentiva che questa non era una battaglia come le altre. La sua energia pulsava in modo diverso, la sua stessa forza gli sembrava distante, come se l’universo non fosse più d’accordo con la sua presenza. Eppure doveva combattere. Doveva fermare ciò che minacciava di distruggere tutto, a qualunque costo.

“E se fossi io l’errore?”

Questa volta la voce era sua, ma sembrava provenire da un altro posto. Un angolo oscuro della sua mente che non aveva mai voluto esplorare. Un pensiero che rifiutava, come un seme che sin dal primo istante si era impiantato dentro di lui ed ora stava germogliando, alimentando i suoi dubbi e insicurezze.

Suguru lo guardò, percependo la sua lotta interiore. «Satoru, che sta succedendo?»

Gojo non rispose. Non c’era più tempo per le parole. Lo avvertiva. 

Il vuoto davanti a loro si fece più profondo. La figura oscura si manifestò completamente, ma non era mai stata una minaccia fisica. Era solo… presenza. Un’entità senza forma, che trascendeva ogni logica o comprensione. Ogni passo che faceva sembrava smuovere il flusso del tempo e la realtà stessa, e Gojo sentiva un brivido di pericolo che non riusciva a catalogare.

Quella presenza gli stava parlando, non con le parole, ma con il suo stesso essere.

Un messaggio che non poteva decifrare, ma che avvertiva nel profondo.

Il filo tra lui e il passato si stava spezzando, e quella entità ne era consapevole. Il proprio viaggio stava forse giungendo al termine?

Gojo si mise in posizione, pronto a combattere, ma i suoi occhi erano distanti, persi nei propri pensieri.

“Se davvero avessi il potere di fermare tutto questo… potrei davvero cambiare la storia? O solo accelerare la sua fine?”

Il pensiero lo assaliva, mentre una sensazione di nausea lo prendeva. Una paura, un dubbio che non era mai stato abituato a provare. Ma ora c’era, era presente, ogni fibra del suo corpo lo avvertiva con una forza travolgente.

Suguru gli stava accanto. La sua presenza era solida, come sempre.

Era il suo punto di riferimento. La sua ancora morale e fisica.

«Satoru,» disse Geto, fermandosi al suo fianco. «Non dimenticare che non siamo soli. Se c’è una via d’uscita, la troveremo insieme.»

Gojo chiuse gli occhi per un attimo. La sua mano si staccò dalla sua fronte, pronta a scatenare il Limitless, ma il peso dell’incertezza lo fermò. L’unica certezza che aveva mai avuto era il suo potere. Ma adesso?

La maledizione davanti a loro iniziò a muoversi, e con essa il tempo stesso sembrava piegarsi. Gojo sentiva un dolore acuto nella testa, come se stesse scontrandosi con qualcosa di più grande della sua stessa forza. Ogni passo che faceva era una lacerazione nel tessuto del passato.

«Non posso più scappare,» pensò.

Eppure, in quel momento, il peso della sua responsabilità si fece più chiaro. Forse non avrebbe mai trovato la risposta, forse il suo viaggio nel passato non avrebbe mai potuto annullare tutto. Ma aveva scelto di essere qui. E ora doveva affrontare il futuro, qualsiasi esso fosse, con quella consapevolezza.

Gojo fissò la figura che si stava avvicinando e, per la prima volta, accettò la propria vulnerabilità.

E il suo potere, una volta incontrato il vuoto, esplose.

Satoru alzò la mano, il Minimo Infinito esplose con una potenza che avrebbe schiacciato chiunque. Ma qualcosa non andò come previsto. Non vi fu la reazione immediata che si aspettava, la solita distorsione dello spazio che lo avrebbe messo al sicuro. Il suo potere sembrava dissolversi nell’aria come polvere. La maledizione davanti a lui non era una semplice manifestazione di energia negativa, ma un’entità che sfidava le leggi stesse della fisica e della realtà.

L’oscurità che si stagliava davanti a lui non si mosse, non tremò nemmeno. La distorsione non si dissipò. Solo il silenzio. E un’ombra che sembrava allungarsi, come se il tempo stesso stesse venendo inghiottito dalla sua forma indefinita.

Gojo sentì un brivido lungo la schiena, come se qualcosa stesse stringendo la sua stessa anima. Il potere che aveva sempre usato con facilità non funzionava. Un malessere gli pervase la mente, ma la sua concentrazione rimase ferma. Non era solo il suo potere fisico a essere messo alla prova, ma la sua stessa esistenza. Era come se la maledizione stesse cercando di manipolare il suo concetto di essere.

Il tempo… Forse lo stava distruggendo. La voce sembrava sussurrare in ogni angolo della sua mente. Ogni parola si faceva più opprimente, ogni pensiero si dissolveva. Lui era un intruso in quel mondo, aveva salvato Haibara, provando a modificare il corso degli eventi. Quella doveva essere la sua punizione.

Suguru, al suo fianco, percepiva lo stesso peso. «Satoru! Devi farlo ora, non possiamo permetterci di perdere il controllo!»

Gojo scosse la testa. La sua mente era in tumulto, ma ora doveva rispondere. Non poteva lasciarsi sopraffare. Non poteva permettere che il suo stesso essere venisse annientato da un’ombra, che fosse una maledizione o meno.

“Non posso essere debole. Non posso. Non posso permettere a me stesso di perdere questa battaglia… Non posso permettere a lui di avere la meglio.”

Il pensiero di Suguru lo spingeva. La sua presenza, lì accanto, lo riportava alla realtà. Un legame che era sempre stato più forte della distanza o del tempo. Il suo amico, il suo compagno, la persona che aveva sempre creduto nel suo potere. Suguru….

Gojo fece un passo in avanti, il suo respiro profondo. Si concentrò. Il Limitless non era solo il suo potere, non era solo una barriera. Era la sua essenza, la sua volontà di esistere oltre le leggi che imprigionavano il mondo. Alzò le mani con determinazione.

La maledizione, percependo l’intensità dell’energia che stava liberando, sembrò reagire. La figura nera cominciò a contorcersi, l’oscurità intorno a loro pulsava, ma non abbastanza da fermare Gojo. Non abbastanza da annientare la sua presenza.

“E se fosse troppo tardi?”

Il pensiero tornò a tormentarlo. Un fremito di paura lo attraversò. Ma poi si fermò. Non c’era tempo per i dubbi. Non ora. Non mai.

“Dai… dobbiamo farcela,” mormorò, con gli occhi brillanti di determinazione.

Un’esplosione di energia avvolse il cortile. Le mani di Gojo si alzarono come un faro in mezzo all’oscurità, e il bagliore scaturito dal Minimo Infinito si espanse, non più come una barriera, ma come un’ondata devastante che attraversava il tempo stesso. Ogni angolo del cortile, ogni centimetro, venne invaso dalla sua energia.

L’ombra urlò, non in un linguaggio comprensibile, ma come un’eco che risuonava nel cuore di Gojo. La maledizione cercava di resistere, ma più provava a spingersi oltre, più sembrava lacerarsi.

Satoru sentiva la propria mente annebbiata dalla potenza del suo stesso potere, ma non si fermò. Era come un fiume in piena, una forza che non poteva essere contenuta né trattenuta.

«Suguru!» gridò, mentre il suo potere si scatenava. «Ti ho detto che non possiamo fermarci. Questo è il nostro momento!»

Geto, che si era allontanato per evitare l’esplosione della potenza, ora si fece avanti con calma. Il suo sguardo fisso su Gojo, consapevole che la battaglia non era ancora finita.

In un attimo, la maledizione emise un ultimo strido, lacerando l’aria e scomparendo, come se il tempo stesso avesse deciso di inghiottirla. Il cortile tornò al silenzio. Gojo, ansimante, abbassò lentamente le mani, ma la tensione non svanì. Guardò Suguru negli occhi, l’incertezza ancora presente nei suoi.

«L’abbiamo fatto,» disse, ma le sue parole non erano di vittoria. C’era troppo dentro di lui per sentirsi davvero libero.

Suguru si avvicinò e, con un sorriso sottile, rispose: «Sì, ma tu lo sai, Satoru. Non è mai finita.»

Gojo annuì, sentendo il peso di quelle parole più che mai. La battaglia era vinta, ma la guerra, quella contro il tempo e le proprie scelte, non era ancora finita.

L’esplosione di energia svanì, lasciando dietro di sé una distesa di silenzio. Il cortile, prima invaso da una nebbia densa, ora era nuovamente illuminato da una luce fredda, che sembrava bagnare ogni angolo di quel mondo. Ma Gojo non riusciva a sentire la liberazione. Non riusciva a gioire della vittoria.

Il suo respiro affannoso lo riavvicinò alla realtà, ma i suoi pensieri restavano distanti, come se il peso di ciò che aveva fatto lo stesse annegando. Guardò la mano che ancora tremava, il corpo sfinito dalle forze che aveva spinto al limite. Ma non era quello il vero fardello che sentiva.

“L’ho fatto.” La voce nella sua testa era un sussurro, ma il peso di quelle parole era imponente. Non si trattava della battaglia che aveva appena vinto. Si trattava di lui, del percorso che aveva intrapreso, del passato che aveva cercato di cambiare.

Il suo sguardo si abbassò. Ogni scelta che aveva fatto, ogni passo che aveva compiuto per arrivare a questo punto, aveva un costo. Nonostante la potenza che possedeva, nonostante il suo controllo assoluto sul mondo che lo circondava, non poteva sfuggire al suo stesso vuoto interiore. La sua mente cercava disperatamente un senso, ma ogni domanda lo spingeva più a fondo, più lontano dalla risposta.

“Perché sono qui?” Pensò, mentre il cortile si riempiva di un silenzio sempre più soffocante. “Ho cercato di cambiare qualcosa che non dovevo. Ho cercato di salvare Suguru, ma a quale prezzo?”

Gojo alzò gli occhi verso il cielo grigio. La sua energia, quella potenza che aveva sempre pensato fosse la risposta a tutto, ora sembrava vuota. “Per cosa l’ho usata? Ho salvato Suguru? O forse ho solo spinto ancora più lontano la sua rovina? Ho solo dato il via a una spirale che non posso fermare. Non posso fermare il mio stesso passato.” e a quanto pare nemmeno combattere contro di esso.

Il suono dei suoi passi gli sembrò lontano, come se stesse camminando in un sogno. La sua figura si stagliava contro il paesaggio distrutto, ma in quel momento non sembrava più essere una persona che stesse andando avanti. Sembrava una ombra del passato che cercava di inseguire se stessa.

Suguru si avvicinò lentamente, notando la gravità che sembrava aver preso il posto della solita sicurezza di Gojo. Il suo amico lo osservò, ma non disse nulla, come se capisse che ora non era il momento delle parole.

Satoru si fermò, guardandolo. C’era una calma triste nei suoi occhi, come se avesse finalmente accettato qualcosa che aveva sempre evitato di vedere. Il suo cammino, per quanto fosse stato deciso, in quel momento gli sembrava incerto.

“Ho fatto un viaggio. Un viaggio per fermare quello che è accaduto. Per cancellare un errore che avevo già commesso, ma…” Si fermò, la voce tremante. “…E se quell’errore fosse la mia condanna? E se il mio stesso desiderio di cambiamento fosse la cosa che mi ha condannato?”

Suguru fece un passo verso di lui, il suo viso imperturbabile come sempre, ma il suo sguardo era profondo. Come se volesse dirgli qualcosa, ma non trovasse le parole giuste. Non c’era bisogno di parlare, però. La tensione che esisteva tra di loro parlava più di mille frasi.

Gojo, tuttavia, non poteva più ignorare il suo tormento. “Suguru, ho cercato di riportarti indietro. Di fermarti prima che fosse troppo tardi. Ma ora…” Fece una pausa. “Ora non so più cosa sto facendo. Ogni mossa che faccio, ogni passo che compio, sembra solo allontanarmi dalla persona che ero. Non sono più certo di nulla.”

Geto lo guardò in silenzio, ma il suo viso non tradiva nessuna emozione. Forse capiva. Forse anche lui sentiva quel vuoto che si stava riempiendo di domande senza risposta.

Gojo riprese a camminare, ma i suoi passi non erano più quelli di un uomo che cercava un nemico. Non stava più cercando di riscrivere il passato. Era come se stesse cercando una via di fuga dal proprio stesso cuore. Il viaggio che aveva intrapreso non era solo attraverso il tempo, ma anche attraverso il proprio io interiore. Aveva pensato che fosse tutto chiaro, che il suo potere lo avrebbe guidato, ma adesso era diverso.

“Ho potuto fermare la maledizione,” disse, la voce quasi un sussurro. “Ma il vero mostro… è sempre stato dentro di me.”

Suguru non rispose. Non aveva bisogno di farlo. Sapeva che Gojo era arrivato a un punto in cui le risposte non venivano dalle azioni, ma dalla propria accettazione. La forza che cercava di controllare il mondo, alla fine, non poteva nemmeno contenere i suoi propri conflitti. La vittoria, in questo caso, non era la fine, ma l’inizio di un nuovo percorso.

Gojo si fermò di nuovo, guardando Suguru, e in quel momento lo vide come lo aveva sempre visto, come un compagno di viaggio, ma anche come un simbolo di ciò che aveva cercato di cambiare. Ogni parola, ogni gesto che avevano condiviso fino a quel momento, lo riportava al punto di partenza: Non poteva cambiare ciò che era successo, né cancellare il passato.

Con una smorfia amara, aggiunse: «Non posso più tornare indietro, vero?»

Suguru lo osservò per un attimo, poi, senza una parola, poggiò una mano sulla sua spalla, come se la risposta fosse già chiara. E con quel gesto, la domanda restò sospesa, insieme alla consapevolezza che non c’era un cammino facile da percorrere. Solo il continuo viaggio verso un futuro incerto.

Gojo si stava perdendo nella nebbia di pensieri che l’avevano tormentato fin dal momento in cui aveva deciso di intervenire nel passato. Il tempo non era più solo un concetto astratto per lui, ma una realtà concreta, un campo di battaglia in cui ogni sua azione si intrecciava con il destino degli altri, creando un effetto a catena di cui non era mai stato davvero consapevole.

Mentre il vento sferzava la sua pelle, Gojo si sentiva intrappolato, non nella battaglia che aveva appena vinto, ma nell’eco delle sue azioni. Ogni passo che aveva compiuto, ogni singola scelta che aveva fatto per cercare di fermare Suguru, sembrava tornargli contro, come se il destino fosse irrimediabilmente legato a quella maledizione che lui stesso aveva cercato di cancellare.

La sua mente correva indietro, ripercorrendo il viaggio che lo aveva portato qui, al confronto tra ciò che aveva pensato di poter cambiare e ciò che invece aveva scoperto essere ineluttabile.

“Mi sono illuso.” Il pensiero gli attraversò la mente come una scarica elettrica. “Ho sempre pensato di poter manipolare il tempo, di poter riscrivere la storia. Ma… non ho mai pensato a quello che avrei lasciato dietro. Non ho pensato al costo.”

Gojo si fermò, come se ogni passo fosse diventato più pesante del precedente. La nebbia lo circondava come un velo, offuscando la vista, ma ciò che gli era più difficile da vedere era ciò che portava dentro di sé. Le sue stesse scelte lo avevano messo di fronte a una verità che aveva sempre cercato di ignorare: il suo potere non era la chiave per salvare gli altri, ma una prigione che lo teneva lontano da chi era davvero.

In quel momento, una fitta di dolore attraversò il suo petto. Non era fisico. Era come se ogni ricordo, ogni frammento di quella lunga solitudine che aveva vissuto, stesse finalmente venendo a galla.

“Ho scelto di isolarmi. Ho scelto di non essere vulnerabile.” Pensò, e le parole suonarono strane, come se fossero lontane da lui. Ma erano vere. Aveva costruito un muro intorno a sé, un muro che ora non poteva più ignorare. “E ora il mio viaggio mi ha portato qui, in un luogo dove non posso più nascondermi. Dove non posso più scappare.”

Era la solitudine, la consapevolezza di aver rinunciato a vivere una vita piena per proteggere gli altri, per essere il più forte. Ma, ora che il suo viaggio lo aveva portato di nuovo al punto di partenza, si rendeva conto che aveva pagato un prezzo altissimo. Non aveva mai permesso a nessuno di vedere il suo vero sé. Non aveva mai permesso a nessuno di avvicinarsi davvero. Aveva messo i suoi amici, i suoi compagni, in una distanza che, alla fine, lo aveva consumato.

Gojo si piegò leggermente in avanti, il respiro più pesante mentre cercava di far uscire i pensieri confusi. Non era più sicuro di nulla. Nemmeno di chi fosse.

“Perché ho fatto tutto questo?” La domanda gli rimbombò nella testa, ma non trovò risposta.

Ogni passo che aveva fatto nel suo viaggio, dalla sua ascesa come stregone fino a quel momento di scontro, sembrava portarlo più lontano dalla possibilità di una risposta. La ricerca di controllo, di perfezione, di forza, l’aveva trasformato in qualcuno che non riconosceva più. “Cosa voglio davvero?”

In quella solitudine che lo avvolgeva, Gojo si rese conto che non stava solo affrontando il passato di Suguru. Stava affrontando il suo. Ogni scelta che aveva preso lo aveva condotto verso questa spirale senza fine, una spirale in cui non c’era né il bene né il male assoluti, ma solo una lotta tra ciò che era giusto e ciò che sentiva essere necessario.

“Mi sono rinchiuso nella mia forza.” Si rese conto, una rivelazione che lo colpì come un pugno allo stomaco. “Ho creduto che il potere sarebbe stato la risposta. Ma ora che l’ho ottenuto… cosa mi rimane?”

Nonostante le sue capacità, nonostante il suo dominio assoluto sulla maledizione e sulle forze che lo circondavano, non riusciva a fermare quel tormento che cresceva dentro di lui. Ogni cosa che aveva fatto per il bene degli altri, per proteggere il mondo, lo aveva portato a distaccarsi sempre di più dalla sua umanità.

Ma, in un angolo nascosto della sua mente, sentiva ancora il desiderio di cambiare qualcosa, di fermare la catena di errori che si erano accumulati nel tempo. La battaglia con Suguru non era solo una lotta contro l’amico, ma contro se stesso. Contro la parte di sé che aveva cercato di sopprimere, che non aveva mai voluto vedere.

“Forse…” pensò, il suo cuore colmo di un dolore amaro, “forse non posso cambiare il passato. Forse non posso più essere il Gojo che tutti conoscono.”

Il suo viaggio non era solo quello di un uomo che cercava di rimediare ai propri errori. Era il viaggio di un individuo che stava cercando di capire chi fosse, di accettare ciò che aveva fatto e, infine, di trovare la forza di perdonarsi.

Si alzò in piedi, il volto segnato da un’espressione di determinazione. Non sapeva ancora cosa sarebbe successo dopo, ma era pronto ad affrontarlo. La sua forza non sarebbe più stata la sua prigione. La sua forza, ora, doveva diventare la chiave per liberarsi.

Sospirò, guardando l’orizzonte. Il viaggio che aveva intrapreso non era finito. Ma aveva finalmente trovato una parte di sé che non aveva mai visto prima: il desiderio di rimanere umano, di non essere solo una forza da temere, ma una persona in grado di scegliere il proprio destino.

Il silenzio intorno a lui era irreale. Non c’erano maledizioni. Non c’erano urla. Solo l’eco dei suoi stessi pensieri.

Gojo rimase lì, immobile, mentre l’alba stentava a filtrare tra le nuvole basse. Era come se il mondo stesso avesse trattenuto il respiro. Per un attimo, si concesse di fare lo stesso. Di ascoltare il battito del proprio cuore, sfasato, come se non appartenesse a lui.

“Tornare indietro… non è mai solo un ritorno. È un peso. È la riscrittura di ogni possibilità che ho già vissuto. È guardare in faccia chi ero, sapendo di non poter essere più quel ragazzo.”

Aveva rivisto Suguru. Aveva rivisto Shoko. Aveva rivisto se stesso, giovane, inconsapevole, arrogante. E in quell’immagine così lontana, aveva riconosciuto la fragilità che ora lo consumava. Quello che non si era mai concesso di dire ad alta voce, ora lo avvolgeva come una lama sottile:

“Non sono invincibile.”

Non lo era mai stato. Solo che aveva preferito crederlo.

Ogni volta che salvava qualcuno, ogni volta che proteggeva i suoi studenti, ogni volta che rideva come se nulla potesse scalfirlo… era solo un modo per dimenticare quanto fosse vuoto dentro. Quanto il vuoto lasciato da Suguru fosse ancora lì.

E ora che il tempo gli aveva dato un’altra possibilità, si chiedeva cosa stesse davvero cercando. Redenzione? Perdono? Una versione della storia in cui non doveva perdere tutto?

Oppure… solo un’illusione, pur di non affrontare la verità?

Il terreno tremò leggermente sotto i suoi piedi. Un presagio. Gojo alzò lo sguardo. Qualcosa si stava avvicinando. Qualcosa di familiare, eppure distorto. Forse Kenjaku, forse un’eco del tempo che si ribellava a quella forzatura.

“Non è finita.”

Sapeva che quel viaggio non gli aveva dato risposte facili. Ma, per la prima volta, si sentiva pronto a guardare avanti, non solo per salvare gli altri, ma per salvarsi da se stesso.

Chiuse gli occhi per un momento.

«Non tornerò indietro. Non questa volta. Farò in modo che il me di domani… non abbia più nulla da rimpiangere.»

Poi si voltò, il passo deciso.

Il passato era ancora lì. Ma anche il presente. E, forse, se avesse continuato a lottare, ci sarebbe stato ancora un futuro.

Un rumore, sordo e profondo, si diffuse nell’aria. Come se il cielo stesso si fosse incrinato.

Gojo si voltò di scatto, e per un istante fu come se tutto rallentasse. L’energia maledetta si condensò in un punto lontano dell’orizzonte, crepitando con un’intensità che gli fece accapponare la pelle. Un punto nero si stava espandendo nel cielo, come una cicatrice nel tessuto stesso del tempo.

“Una breccia.”

Capì subito cos’era. Il tempo si stava ribellando. Aveva forzato troppo, aveva riscritto il flusso degli eventi, e ora qualcosa—o qualcuno—stava cercando di correggere quell’anomalia.

Dal cuore di quella frattura si spalancò un varco. E da lì, non emerse Kenjaku. No.

Emerse una versione distorta di lui stesso.

Era Satoru Gojo. Ma più giovane. Più impulsivo. Più letale. Gli occhi carichi di quell’arroganza pura che lui stesso aveva portato per anni. Non c’era saggezza in quello sguardo, solo potere.

E rabbia.

«Interessante…» disse quella figura, con un sorriso quasi divertito. «Sei tu che hai rotto tutto, vero?»

Gojo non rispose. Rimase fermo, studiandolo. Era una proiezione del tempo? Una maledizione nata da lui? O un frammento del sé che aveva provato a cancellare?

“Questo è il prezzo. Il tempo non dimentica.”

«Tu sei un errore,» continuò la figura, alzando la mano. L’energia maledetta si distese nell’aria come una ragnatela luminosa. «E io sono qui per correggerti.»

Gojo strinse i pugni. Il suo cuore batteva forte, ma il suo volto rimase calmo.

«Correggermi, eh?» replicò piano, il tono basso, quasi ironico. «Peccato che io non sia mai stato bravo a seguire le regole.»

E in un istante, tutto esplose.

Gojo scattò in avanti, la sua energia vibrante, precisa, incontaminata. I loro attacchi si scontrarono a metà cielo, e fu come vedere due stelle che collidono: luce cieca, forza brutale, un silenzio seguito da un tuono che fece tremare l’aria.

Ogni movimento del suo avversario era familiare. Lo conosceva fin troppo bene. Lo aveva usato lui stesso. Ma ora, in quello scontro, c’era qualcosa di diverso.

Gojo non stava solo combattendo una maledizione.

Stava combattendo contro l’ombra di chi era stato.

Ogni colpo, ogni schivata, era una sfida al passato. Alla sua sicurezza. Alla convinzione di essere invincibile.

Eppure, con ogni secondo che passava, capiva di più. Questa battaglia non era solo una punizione.

Era una prova.

“Se riesco a sconfiggere questa parte di me, allora forse… posso davvero andare avanti.”

Le due figure si sollevarono nel cielo, pronte a colpire di nuovo.

Gojo sorrise, quel sorriso vero, stanco, ma deciso.

«Non sono più quello che eri tu. E non voglio esserlo mai più.»

Il suo prossimo attacco fu carico non solo di potere, ma di intenzione.

Di crescita.

Di verità.

I due Satoru si mossero come specchi impazziti, riflessi uno dell’altro, danzando in uno spazio sospeso tra presente e passato. L’aria bruciava, distorta da raffiche di energia pura. Ogni colpo era una dichiarazione, ogni difesa una negazione.

Ma Gojo lo capiva. A ogni passo, a ogni pugno, a ogni occhiata scambiata con quella versione più giovane e spietata, si faceva sempre più chiaro.

“Non è lui il nemico. Lo è mai stato?”

Quel ragazzo davanti a lui così arrogante, indomito, insensibile, non era solo una proiezione del tempo o una maledizione evocata dall’anomalia. Era un frammento. Un riflesso delle sue scelte. Di ciò che aveva lasciato irrisolto.

“Il tempo non può essere piegato senza conseguenze. Ma forse… non è mai stato questo il punto.”

Un pugno lo colpì al volto, violento, e Gojo atterrò con un tonfo che fece tremare la terra. Si rialzò lentamente, il sangue che scendeva dal sopracciglio non lo infastidiva. Anzi, lo riportava alla realtà.

Davanti a lui, il giovane Gojo si fermò. Lo fissava. Non parlava più.

Ed è in quel silenzio che il Satoru adulto comprese.

“Non posso cambiare quello che è successo. Non posso impedire a Suguru di scegliere il proprio cammino. Non posso salvare tutto e tutti. Ma posso accettarlo. Posso smettere di combattere contro un tempo che non mi appartiene.”

Inspirò a fondo. Lo sentì nelle ossa, nella pelle, nella sua stessa anima: il motivo del viaggio non era il passato.

Era lui.

Cambiare sé stesso.

Saper lasciare andare.

«Sai qual è la vera maledizione?» disse ad alta voce, lo sguardo dritto nell’altro. «Pensare che basti essere forti per sistemare tutto.»

Aprì le braccia, come ad abbracciare quel peso che lo aveva accompagnato per anni.

«Io non voglio più essere invincibile. Voglio solo essere umano.»

E con quell’affermazione, la sua energia cambiò. Si purificò. Non più cieca potenza, ma volontà. Non più dominio, ma equilibrio.

Il giovane Gojo lo attaccò di nuovo, ma questa volta, l’adulto non lo colpì.

Lo accolse.

Lasciò che l’attacco lo attraversasse, scomparendo nell’aria come nebbia svanita al sole.

La figura più giovane vacillò. Si incrinò. Poi, lentamente, svanì.

Non sconfitta.

Accettata.

Gojo rimase solo. Il cielo era tornato silenzioso. Il varco temporale si stava richiudendo.

E lui, per la prima volta, sentì che il viaggio aveva compiuto il suo scopo.

Non aveva cambiato il destino.

Ma si era cambiato.

Il tempo si richiudeva su sé stesso.

Come un nastro riavvolto, la realtà tornava a farsi densa, tangibile, inarrestabile. Gojo sentì l’energia intorno a lui vibrare, contrarsi, poi svanire. Il cielo era tornato limpido. Il mondo era quello che aveva lasciato: il campus, il vento leggero tra i ciliegi, e davanti a lui—

Geto Suguru.

In piedi, le mani nelle tasche della divisa da studente, con lo sguardo rivolto a lui. Ma qualcosa era diverso. Forse Gojo stesso era cambiato, e ora riusciva a vedere con maggiore chiarezza quello che non aveva mai voluto accettare.

Suguru non aveva ancora varcato il confine.

Era ancora lì. Vivo. Intero.

«Sei strano oggi, Satoru.» La voce di Geto era leggera, come se stesse parlando con un vecchio amico e in effetti, era così. Solo che lui non sapeva. Non poteva sapere.

Gojo sorrise piano. Era un sorriso amaro, sincero. Non gli restava molto tempo. Il presente lo stava già reclamando.

«Avrei voluto dirti tante cose,» disse, senza riuscire a guardarlo negli occhi. «Ma credo che alcune parole… non arriverebbero mai nel modo giusto.»

«Wow, sei poetico oggi,» rispose Geto, alzando un sopracciglio. «Shoko ti ha cambiato i medicinali?»

Gojo rise, quasi strozzato.

Poi fece un passo verso di lui. Si fermò. Lo guardò come se volesse imprimere per sempre quel volto nella memoria.

«Qualunque cosa accada, qualunque scelta tu faccia… voglio che tu sappia che io ti ho voluto bene. Davvero.»

Geto restò immobile. Una piega lieve attraversò il suo volto, ma non disse nulla.

Un battito.

Poi il mondo si spaccò.

E il presente lo inghiottì.


***


Buio.

Silenzio. Denso. Liquido. Immobile.

Gojo riaprì gli occhi, e il suo sguardo fu accolto dalle pareti immobili della Prigione di Colore. Ancora lì. Ancora intrappolato. Nessuna via d’uscita.

Ma qualcosa era diverso.

Lui.

Non c’erano lacrime. Non c’era rabbia. Solo un’immensa, silenziosa comprensione.

“Ho cercato di cambiare il destino.”

“Ma il destino… non si lascia cambiare.”

Aveva visto Suguru. Gli aveva parlato. Aveva tentato, in tutti i modi, di salvare ciò che si era rotto. Ma la verità era che alcune ferite non possono essere guarite. Solo accettate.

Eppure quel viaggio non era stato vano.

Aveva scoperto che la sua forza non risiedeva nella tecnica, né nella superiorità. Risiedeva nella capacità di non voltarsi più indietro.

Di andare avanti.

Di essere umano.

Anche nella prigione. Anche nel silenzio.

Perché se mai fosse uscito da lì — e lo sarebbe — avrebbe saputo chi era davvero.

Un uomo che aveva amato. Un uomo che aveva perso. Un uomo che non cercava più di riscrivere la storia.

Ma di onorarla.

Con ogni respiro rimasto.



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Questo capitolo partecipa al Cow-t 14 - VII Settimana - M3 Vaso di Pandora

Fandom: BSD - lingua francese

Numero parole: 8168



XXVI Saison - Conte




«Un soir, il galopait fièrement. Un Génie apparut, d'une beauté ineffable, inavouable même. De sa physionomie et de son maintien ressortait la promesse d'un amour multiple et complexe! D'un bonheur indicible, insupportable même! Le Prince et le Génie s'anéantirent probablement dans la santé essentielle. Comment n'auraient-ils pas pu en mourir? Ensemble donc ils moururent.»

Conte” Illuminations - A. Rimbaud






Wonderland

Paris - Maison de Victor Hugo



Malgré les prémices, le dîner ne fut pas un désastre total. 

Comme Rimbaud l’avait prévu, Alexandre Dumas était immédiatement intervenu pour animer la conversation en remplissant lui et Paul de questions concernant leur première rencontre, les expériences menées par le Faune et les missions accomplies ensemble.

Victor Hugo avait préféré rester silencieux en échangeant de temps à autre des regards avec son fils. Mais aucun des deux ne semblait vouloir faire le premier pas. Ils se sont étudiés comme des prédateurs, deux bêtes féroces en attente du moment propice pour s’attaquer à la proie.

«Arthur dit que vous êtes les meilleurs, même parmi les Transcendantaux» commença Verlaine, attirant l’attention du public et alléchant un peu l’atmosphère.

Hugo se borna à regarder son verre de vin, laissant au compagnon la charge de répondre;

«Je ne sais pas, la Capacité de Victor est beaucoup plus puissante que la mienne mais je pense que Agatha et Johan ne sont pas à sous-estimer non plus, tu en penses quoi?» 

Le chef des Poètes répondit simplement en haussant les épaules. Il n’aurait pas su l’évaluer non plus, au fond le continent européen grouillait de doués exceptionnels et les Transcendantaux n’étaient rien d’autre qu’un groupe élitiste né des cendres d’un conflit désormais oublié. Ils appartenaient au passé, à une époque qui touchait à sa fin.

«Qui sait. C’est peut-être dans cette guerre que nous découvrirons le meilleur entre nous», soupira-t-il en souriant. Dumas l’avertit silencieusement avec son regard, prédisant ce qui allait se passer peu de temps après. Une escalade qui ne se fit pas attendre. Provoquer le possesseur d’Illuminations équivalait à ouvrir la boîte de Pandore, à partir de ce moment-là tout pouvait arriver.

«Il me semblait étrange que je n’aie pas encore soulevé le sujet» Comme prévu, Rimbaud n’avait pas laissé passer l’occasion, en commençant à piquer le maître dans son ressentiment.

«Arthur» tenta Dumas, mais fut immédiatement mis à l’écart par son compagnon,

«Je me souviens que ta mission à Londres s’est terminée avec succès, Mary a prononcé de très bons mots sur toi», mit délibérément l’accent sur le nom du chef des écuyers anglais, essayant de déclencher une réaction de la part de Black qui, comme par hasard, ne se fit pas attendre.

«Mary?» demanda en effet Verlaine avec la pointe habituelle de jalousie qui n’échappa pas à l’oreille attentive de Dumas. C’était un piège d’Hugo et le blond était tombé dedans.

«Oh c’est juste le surnom que nous utilisons pour Agatha Christie, c’est une longue histoire» se hâta de déclarer avec un ton volontairement malicieux;

«Quelle est la relation entre elle et Rimbaud?» Victor ne s’étouffa pas avec le vin. Il ne s’attendait pas non plus à une sortie aussi directe. Black avait su aller au-delà de ses prédictions. Cela l’amusa.

«Purement professionnels, je ne l’ai rencontrée qu’à cette occasion» clarifia Arthur en interceptant les regards suspicieux qu’Hugo n’avait cessé de réserver aux deux. Victor ne faisait que jouer. le chef des Poètes était un vieux renard, il ne pouvait pas se permettre de le sous-estimer.

«De ce que je me souviens, vous n’aimez pas le mode opératoire des Anglais», reprit Verlaine. A ces mots, le chef du renseignement français sourit, il n’attendait que ça.

«J’ai envoyé Arthur en mission à Londres il y a quelques années» cette fois-ci le blond n’a pas mis longtemps à comprendre, il devait s’agir de ce jour, celui où il avait abandonné Baudelaire. Heureusement qu’ils en avaient parlé. Si Hugo se délectait de mettre à l’épreuve les nerfs des deux, il réussissait.

«Red prince te souviens-tu? Tu avais fait un excellent travail, au point de frapper même le chef des écuyers anglais»

Rimbaud choisit de rester impassible comme si cette conversation ne le concernait pas. Il connaissait Victor, il était préparé, ses jeux ne l’effrayaient pas

«Dame Agatha Christie m’a rejoint dans un train. A cette occasion, nous avons échangé deux conversations rien de plus, rien de moins, je ne vois pas le besoin de créer autant de remous» s’est borné à expliquer, accompagnant le tout avec une élégante gorgée de vin. Chaque mouvement d’Hugo était hypnotique et étudié dans les moindres détails. 

Malgré les apparences, il avait acquis une certaine expérience dans l’art de la conversation et de la tromperie.

«Comment se passe la formation de Verlaine? Si je me trompe, il me semble l’avoir croisé aujourd’hui dans les couloirs du quartier général» Alexandre Dumas avait de nouveau pris en main la situation, changeant promptement de sujet.

Rimbaud semblait accepter volontiers cette intervention,

«Paul est un excellent élève, je suis sûr qu’il pourra bientôt accomplir des missions seul au nom de l’intelligence» n’avait jamais été aussi fier des progrès de Verlaine, des pas qu’il avait accomplis en quelques années. Arthur reconnaissait à peine le cobaye qu’il avait sauvé de ce labo. Il était vraiment fier de l’homme que Paul Verlaine était devenu. Il sourit presque sans s’en rendre compte.

«Je suis heureux de l’entendre», murmura Hugo avant de se lever et de disparaître dans une autre pièce. Il est revenu quelques minutes plus tard avec plusieurs documents entre les mains qu’il a pris soin de remettre aux personnes présentes. Arthur s’est dégonflé, c’était pas un simple dîner de famille.

Pour la énième fois il s’était trompé. Il avait cru que Victor se souciait de leur relation, qu’il voulait en quelque sorte le réparer, s’excuser pour ses erreurs. Il avait parfois tendance à l’oublier, mais l’homme devant lui était le chef incontesté du renseignement français, un individu capable de rester impassible même face à la disparition de son compagnon.

Toute illusion peut être mortelle.

«Qu’est-ce que cela signifie Vic?» n’a pas réussi à masquer sa déception, ce sentiment était évident et peint sur son visage.

«Je pensais te confier une mission top secret en Allemagne. Tu sais, après ce qui s’est passé avec l’équipe de Stendhal...» le chef des Poètes a délibérément laissé la phrase en suspens créant un effet encore plus dramatique.

Tirer parti de la mémoire de Charles Baudelaire était un subterfuge, mais aussi le seul moyen d’obtenir la coopération d’Arthur Rimbaud. 

«Tu es vraiment...» mais il n’a pas réussi à finir la phrase ;

«Arthur, Victor t’a confié cette mission parce que tu es son meilleur agent» comme toujours Dumas essaya de calmer les esprits avant que la situation ne dégénère.

Rimbaud ne pouvait alors que lever les yeux au ciel, avant de se décider à ouvrir le fichier encore dans ses propres mains. C’était un gros dossier et ce n’était jamais bon signe.

«J’aurai besoin d’aide...», son regard s’arrêta sur la figure de Verlaine. Il ne serait jamais parti sans son compagnon. Pas pour une opération aussi risquée. 

«Pas de sauvegarde, de support logistique ou de collaborateurs internes » scanna le leader du renseignement, résumant le contenu de ce document.

«C’est pourquoi je veux que Paul y participe aussi» Il l’a dit. Hugo secoua élégamment la tête ;

«Vous avez lu ce que c’est. Le continent est au bord d’un nouveau conflit. Deux agents peuvent attirer l’attention. Pas besoin de te rappeler comment ça s’est passé la dernière fois»

«Pas besoin» siffla entre les dents.

Charles était mort et son corps déchiqueté. Hugo jouait à un jeu dangereux dont il commençait à comprendre les règles, même s’il était loin d’en saisir le but.

«Je ne serai pas gênant» Verlaine s’était immiscé dans la conversation, se levant et affrontant le leader des Poètes. C’était un mouvement inattendu, mais qui n’a pas semblé surprendre le chef du renseignement français.

«Je peux maintenant contrôler ma Capacité. Nous réussirons la mission», répéta-t-il avec force en croisant les iris émeraude d’Hugo.

«Pourriez-vous s’il vous plaît» cette fois le ton de Victor est devenu plus autoritaire, presque sévère. Il avait enfin mis son masque. Bien qu’il soit le père d’Arthur Rimbaud, Victor Hugo demeurait leur chef, ils devaient lui montrer du respect et ne pas l’oublier.

«Excusez-moi» murmura Verlaine en prenant place et croisant les bras à la poitrine, montrant ainsi toute sa déception. Le maure à ses côtés esquissait un sourire compréhensif.

«Nous avons des raisons de soupçonner que Goethe et ses hommes sont venus en possession de quelques notes...» Le chef du renseignement a recommencé avant d’être interrompu une nouvelle fois par Rimbaud;

«Les recherches du Faune?» demanda-t-il alarmé.

«Précisément. Il semble qu’il y avait une taupe allemande dans le laboratoire de ce fou. Avant notre arrivée, ces bâtards ont dû extraire beaucoup de matériel»

Après cette révélation, Verlaine était blanchi. Les souvenirs de son passé lui revenaient comme des extraits d’un vieux film. La seule hypothèse que quelqu’un puisse répéter une telle barbarie lui était inconcevable.

Le Faune, l’homme qui l’avait enlevé enfant et qui avait abusé de son corps, en l’utilisant pour ses propres expériences. Celui qui l’avait privé de sa liberté, de la possibilité de vivre une vie normale. Un monstre, un criminel, un meurtrier sans scrupules.

«Arthur ne peut pas partir sans moi» s’éleva soudain, surmontant les voix des présents.

«Monsieur Hugo, s’il s’agit vraiment de la recherche du Faune, je suis le mieux placé pour cette mission», réaffirma-t-il avec plus de conviction. Il avait un compte à régler avec cet homme et il punirait quiconque essaierait de l’imiter.

«C’est pour ça que je ne peux pas te laisser faire, mon garçon. Si Goethe savait que des expériences étaient menées sur vous, il pourrait penser à vous recruter ou pire, étudier votre» argumentation du chef de l’intelligence avait du sens mais le blond n’aurait pas abandonné aussi facilement. Il se battait pour Rimbaud, restait à ses côtés.

«Comment pouvez-vous dire ça?»

«Vic et moi connaissons très bien Herr Goethe», expliqua patiemment Alexandre Dumas, resté jusque-là à l’écart pour observer l’évolution de cette diatribe.

«Johann est conscient de l’importance de ces informations, le danger d’un tel projet. S’il découvre que vous êtes le seul survivant de ses expériences...»

«Je le tuerai» en quelques mots Rimbaud mit fin à la question,

«Nous partirons pour l’Allemagne et si Goethe ose lever un doigt sur Paul je le tuerai»

«Maintenant, ne te mets pas la tête Arthur» lui avertit Dumas;

«Tu es mon meilleur agent mais je ne peux pas te permettre d’exposer Black à un tel risque» ajouta Hugo

«Je sais me débrouiller» s’immisça le blond;

Victor Hugo leva les yeux au ciel. Un début de migraine avait commencé à envahir son esprit.

«Je vais réfléchir à la question, d’accord?» était le mieux qu’il pouvait lui offrir. Rimbaud lui répondit avec un sourire sincère.

Il aurait voulu que cela se passe autrement mais pour des espions s’aventurer dans le sentier des sentiments n’était jamais chose facile. 

La raison du plus fort est toujours la meilleure


***


«Pensiez-vous vraiment qu’il vous écouterait?» demanda Dumas dès qu’ils se trouvèrent seuls.

Victor Hugo secoua la tête. Non, même s’il devait admettre qu’il avait imaginé une fin différente. Le chef du renseignement français avait compris l’attachement que Rimbaud éprouvait pour Verlaine et comment ce sentiment était réciproque. 

Il n’était pas fou, mais il avait déjà vécu ça. Arthur était capricieux et asservi à ses émotions. Ce sont ces impulsions qui auraient décrété sa fin. Hugo l’avait élevé au mieux de ses capacités en essayant de faire de lui l’espion parfait, l’agent secret qu’il n’aurait jamais pu être et même devenir.

Il avait éloigné Rimbaud de Baudelaire en croyant faire le meilleur pour les deux. Cela, peut-être avec le sens du temps, avait été une erreur. Paul Verlaine était différent. C’était Hugo lui-même qui l’avait confié à ses soins. Il avait créé ce lien qu’il désirait maintenant rompre. Au début, il avait pensé que c’était mieux de donner à Arthur un but, une nouvelle mission qui lui ferait oublier ce Charles. Il n’aurait jamais imaginé une telle implication émotionnelle de sa part. Verlaine était un sujet dangereux, un ancien rat de laboratoire qui ne connaissait même pas l’étendue de son pouvoir.

«Que ferais-tu?» cette question arriva de façon tout à fait inattendue. Dumas n’imaginait pas que le camarade avait besoin d’entendre sa propre opinion. Pas sur l’avenir de Rimbaud. Victor n’avait jamais demandé conseil sur l’éducation d’Arthur, il avait toujours agi de son propre chef dans la conviction de faire de son mieux pour créer son propre héritier.

«Je le laisserais emmener Black en Allemagne. Si c’est ce qu’il veut», répondit-il calmement, essayant de rencontrer son regard soudain et insaisissable.

«Ce serait une démarche risquée» se borna à lui faire remarquer le chef du renseignement, tout en évaluant les pour et les contre de cette décision.

«Pas autant que le lui refuser. Tu connais Arthur, il ne pliera pas cette fois-ci. Il conduira Black en Allemagne avec ou sans ta permission. À ce stade, on peut aussi leur donner » Lex avait raison. 

«Croyez-moi, il vaut mieux l’écouter pour le moment», continua le compagnon en posant une main sur son épaule. Victor ne semblait pas très convaincu. 

«Si jamais Johann découvrait son identité...» murmura-t-il avec hésitation et décida enfin de lui rendre le regard. C’était dangereux, il avait rarement réussi à gagner une dispute avec Dumas. Lex savait toujours où et comment frapper. Et Hugo détestait sa propre faiblesse.

«Cela veut dire que nous allons commencer une autre guerre» devant cette affirmation, ils ont tous deux souri. 

«Je l’ai toujours pensé; entre nous deux tu es décidément le pire» un loup déguisé en agneau, il ne pouvait y avoir d’autre définition pour Alexandre Dumas, le diable noir.

«En dehors des blagues. De quoi s’agit-il?» avait lu les documents que Hugo avait remis au cours du dîner mais comme toujours, il devait y avoir autre chose. Information qu’il était préférable de ne pas révéler au plus grand nombre.

«Les Allemands ont entre les mains beaucoup des notes du Faune, selon nos informateurs ils essaient de reproduire l’expérience de Black» répondit en essayant d’être le plus synthétique et détaché possible, trahissant leur nervosité à ce sujet. 

«En êtes-vous sûr?»

«Il y a déjà eu des victimes» faisait référence aux animaux qui n’avaient pas survécu aux tests, dont la plupart étaient des enfants. L’histoire se répétait mais ce n’était pas seulement cela, cette opération n’était rien d’autre qu’un énième jeu entre puissances, une course pour prouver sa suprématie sur le continent.

«Pourquoi avez-vous choisi Arthur?» Dumas ne pouvait pas vraiment le comprendre. Leur relation n’avait jamais été aussi tendue et à l’heure actuelle, c’était comme souffler sur une poudrière. Victor répondit sans aucune hésitation.

«Đ€ mon meilleur agent» cette chanson commençait à le fatiguer,

«Mais aussi un risque» lui fit remarquer. Ils allaient mettre en place une arme à double tranchant;

Face à ces mots, le chef du renseignement français a détourné son nez. Il le savait très bien mais dans son analyse, il n’avait pas tenu compte de la présence de Black, des sentiments qu’ils avaient l’un pour l’autre. Ce n’était pas son genre de commettre une erreur aussi grossière. À l’époque, Lex l’avait averti mais il ne voulait pas l’écouter.

Surveiller Black le distrairait... ou il pourrait tomber amoureux 

Rimbaud était différent de lui et de Dumas, il l’avait toujours été. Pendant toutes ces années, il n’avait pas réussi à refouler ses émotions, et il restait encore ce petit rebelle que par hasard Stendhal et ses hommes avaient trouvé dans les Ardennes.

«Quels sont les ordres d’Arthur?» reprit Dumas, le détournant lentement de ses pensées;

«Détruire ce laboratoire. Récupérer les données de la recherche. Nous assurer qu’il n’y aura pas d’autres fuites»

«Pas de prisonnier»

«C’est évident. Je pensais que nous avions vaincu ce groupe de fanatiques révolutionnaires. Nous ne pouvons pas permettre à d’autres pays européens de posséder une telle technologie. Créer et augmenter artificiellement des capacités spéciales, il est absurde d’y penser»

«Celui qui possédera une telle connaissance gagnera n’importe quelle guerre» Hugo acquiesça cependant ne put empêcher à un frisson de le percer.

Tous deux connaissaient la douleur de vivre un conflit. La peur, la souffrance étaient gravées dans leur esprit. Il restait une page douloureuse de leur passé qu’ils voulaient juste oublier.

«J’ai choisi Arthur parce que je lui fais confiance. Il a plus d’une fois fait ses preuves» est vraiment notre meilleur agent Lex.

«Pourtant tu crains le noir»

Vous avez tort, j’ai peur de ce que cela représente.

«Ce monstre obéira à Arthur» était la seule certitude dont il disposait.

Rimbaud était le seul que Verlaine écoutait. Ensemble, ils pouvaient se révéler être un duo gagnant, leur atout pour gagner tout conflit futur. Il sourit à lui-même presque sans s’en rendre compte.

«Je sais ce que tu penses Victor» oh, il n’a jamais eu le moindre doute.

«Black peut être un pion précieux, il suffit de savoir l’utiliser au mieux»

«Et s’ils devaient rencontrer Johann?» Hugo avait déjà pensé à cela; sa stratégie était beaucoup plus complexe que ce que Dumas croyait.

«J’en doute. Notre cher Goethe est un lâche qui aime déléguer son travail. Leur organisation est beaucoup plus structurée que la nôtre ou celle des écuyers anglais. Il ne se battra jamais en première ligne et ne se salira pas les mains» Lex leva un sourcil, sceptique; il y avait trop de variantes et d’inconnues à prendre en compte.

«Il pourrait toujours participer aux expériences ou visiter l’installation de recherche», a-t-il souligné.

«Avec soi et avec les autres, on n’irait nulle part. Notre travail comporte des risques, je pense que tu le sais mieux que moi» acquiesça Dumas. Les décisions d’un espion ne sont jamais simples, même si ce plan était trop imprudent pour ses goûts.

«Alors tu acceptes d’envoyer aussi Black?» Victor lui sourit de nouveau ;

«Jusqu’à présent, il a obtenu de très bons résultats. Arthur saura comment le contrôler au mieux » cette réponse ne l’a pas convaincu ;

«Vous voulez tester sa capacité?»

«Je veux juste savoir si leur partenariat peut fonctionner»

«Tu as quelque chose en tête» et voilà que le visage du chef de l’intelligence se met à sourire.

«Comme toujours. Dans ces temps incertains mieux être préparé au pire» 

La mémoire est la tourmenteuse des jaloux.

Victor Hugo n’aurait jamais oublié les erreurs passées. Les Poètes seraient sortis indemnes de toute tempête. L’Angleterre et l’Allemagne ne devaient pas être sous-estimées, elles étaient des nations amies prêtes à se retourner à la première occasion. Il aurait réorganisé l’échiquier européen selon ses propres désirs et ramené la France à son ancienne splendeur.

Alexandre Dumas ne pouvait que secouer la tête.

La haine est aveugle, la colère étourdie, et celui qui se verse la vengeance risque de boire un breuvage amer.

Cette fois-ci, c’était à lui de se souvenir des paroles de son père, des enseignements sur l’art de la guerre et du commandement. Malgré ses doutes, il resterait aux côtés d’Hugo, comme toujours. Il le soutiendrait jusqu’au bout, pour le meilleur et pour le pire. 

Envoyer Rimbaud et Verlaine en Allemagne était certainement un pari dont ils auraient pu sortir victorieux. La nation allemande était après les Anglais la plus redoutable mais rien ne semblait effrayer le leader des Poètes. Le plus grand talent d’Hugo résidait dans son intellect.

«Le pire serait de ne pas les voir revenir» au fond même Stendhal avait échoué, et il ne s’agissait pas d’un novice mais du chef de la section interrogateurs;

« Arthur est le meilleur, tu ne veux pas le comparer à ce morveux de Baudelaire »

«J’ai l’intention de faire des recherches sur lui. Sur sa mort» cette histoire ne l’avait jamais convaincu.

«Lex, tu crois vraiment qu’il a simulé sa propre disparition?»

«Nous avons déjà parlé de cela et je sais que vous avez les mêmes doutes que moi»

«Avec la différence que je m’en fiche»

«Et dis-moi, que ferais-tu si Baudelaire revenait? Et si Arthur le rencontrait?» Hugo sourit,

«Je crois que c’est mieux de partir pour l’Allemagne» fut alors qu’il a compris;

«Tu as toujours une contre-mesure pour tout eh» se sont échangé un regard plein de complicité, avant qu’Hugo commence à l’expliquer;

«Baudelaire n’est rien d’autre qu’un enfant. Un campagnard prévisible et rebelle que Stendhal n’a pas su apprivoiser»

«Faire semblant de mourir n’est pas une mince affaire» lui fit remarquer Dumas,

«Mais il le devient en recevant la bonne aide»

C’est alors que le numéro deux du renseignement français a compris le plan du camarade et les sous-entendus cachés dans ce discours;

«Pensez-vous que quelqu’un en Allemagne aurait pu aider Baudelaire? Dans quel but?»

«Charles Baudelaire nous a toujours détestés. Nous l’avons recruté par ruse et séparé d’Arthur. Maintenant, réfléchis, si quelqu’un lui avait offert en plus d’une voie de fuite la possibilité de se venger?»

«Je pense que c’est tellement absurde qu’il pourrait être vrai»

«Baudelaire est un simplet impulsif, il suffit de nommer Arthur pour obtenir son attention»

«Tu crois que Johann l’a enrôlé parmi les siens?»

«Ce ne serait pas la première fois qu’il essaie de mettre la main sur quelque chose qui m’appartient»

Dumas secoua la tête;

«Il semble que la guerre soit inévitable» fut son seul commentaire.

«Agatha, Johann, tout le monde se prépare»

«Nous ne pouvons pas être moins»

«J’espère qu’Arthur et Black sont à la hauteur»

«Oh ils le seront, croyez-moi»


***


Paris - Quelques jours plus tard


Alexandre Dumas se promenait dans les couloirs du quartier général quand son attention fut attirée par les figures de Verlaine et Rimbaud, prêtes à partir pour la mission. Les deux agents secrets recevaient les dernières dispositions à ce sujet et il se contenta de les observer en silence, appuyé contre le montant d’un mur.

Hugo avait accepté la présence de Black. En échange, Arthur aurait juste dû faire un rapport de son comportement, notant dans l’affaire toutes les attitudes du partenaire considérées comme suspectes ou dangereuses. 

Dumas n’avait rien contre Verlaine, il aimait ce garçon. Il avait réussi à se construire une vie malgré son passé et personne ne pouvait mieux que lui imaginer combien cela pouvait être difficile. Pendant le dîner, son opinion n’avait pas changé. Le blond avait défendu Arthur contre les provocations de Victor, l’avait ouvertement défié et avait ainsi réussi à gagner encore plus son respect.

Paul Verlaine n’était clairement pas Charles Baudelaire, et c’est peut-être ce qui a inquiété Hugo. Le chef du renseignement français avait vu dans ces garçons le reflet de son passé, ce qu’il était avec Lex. Peut-être était-ce la raison pour laquelle il s’opposait tant à une relation possible.

«Victor t’a envoyé ici pour les espionner?» la voix rauque de Stendhal l’a ramené à la réalité. 

Le chef de la section interrogatoire se trouvait à quelques mètres de lui prêt à s’allumer une cigarette.

«Tu sais que tu ne peux pas fumer dans le bâtiment» lui fit remarquer le diable noir avec un sourire ;

«Je sais, j’allais justement vers la terrasse mais dès que je t’ai vu je n’ai pas su me retenir»

«Demain, Arthur partira pour l’Allemagne», avoua-t-il en essayant de rencontrer son regard. S’il y avait quelqu’un capable de comprendre son état d’esprit actuel, c’était bien Stendhal.

«Je sais, on lui a confié notre ancienne mission. J’espère seulement que cette fois les choses iront dans le bon sens» Dumas resta quelques instants en silence, cherchant les mots justes avec lesquels répliquer. Il comprenait les raisons d’Hugo, son plan et pourtant il sentait que quelque chose lui échappait encore, avait un mauvais pressentiment. Le front allemand ne devait pas être sous-estimé comme Goethe.

«Au fait, le corps de Baudelaire?» manquait peut-être de tact, mais c’était une occasion rare d’enquêter sur sa disparition. Il avait beaucoup trop de soupçons sur cette affaire. Même dans ce cas, il y avait quelque chose qui n’allait pas.

Stendhal baissa la tête mais décida de répondre;

«Le laboratoire a fini de rassembler ses restes il y a environ une semaine. Il a été enterré dans l’un de nos cimetières» la énième pierre tombale sans nom, destinée à finir dans l’oubli. Après tout, c’était le destin qui attendait un espion.

Plusieurs secondes de silence suivirent. Dumas pensa à sa propre disparition, comme si on lui avait aussi donné une plaque commémorative. À ce moment-là, il pensait que la meilleure solution était de simuler sa mort. Il l’avait fait pour protéger Victor et tous les autres. Peut-être que Baudelaire avait aussi été menacé, ou plus simplement, comme le disait Hugo, il n’était pas ému par autre chose que sa rancune.

«Je suis désolé pour ton subordonné» murmura-t-il enfin. Stendhal remit la cigarette encore éteinte qu’il tenait dans ses mains dans sa poche.

«Ce sont les risques du métier, quand nous acceptons cette vie, nous savons à quoi nous allons faire face»

«Il le savait? Nous ne lui avons pas laissé beaucoup de choix»

«Charles était impulsif, téméraire, jeune. Plus que tout, désireux de montrer sa valeur, surtout à Rimbaud» Dumas s’est fait pensif ;

«Je continue à penser qu’il y a autre chose. Tu crois vraiment que Henry est mort?» A cette question, Stendhal fut bouleversé, la conversation avait pris une tournure tout à fait inattendue.

«J’étais là. J’ai vu l’explosion qui l’a renversé, ses restes éparpillés partout. Comment pouvez-vous même penser qu’il ait pu survivre?» C’est impossible.

«Il y a plusieurs façons de simuler sa propre mort», lui fit remarquer.

«J’avais oublié ton expérience en la matière. Charles, mais Alexandre est mort» si il était encore vivant je le saurais.

«Réfléchis. Il suffit d’un cadavre, de l’explosif et d’une Capacité ad hoc»

«Quel jeu joues-tu?» commençait à changer. Dumas avait touché un point sensible et il s’amusait à lui instiller le doute.

«Personne, je partageais juste mes doutes à ce sujet»

«Je sais que Victor ne fait pas confiance à Goethe» n’était pas un secret.

«Vic ne fait confiance à personne»

«Sauf toi. Et si l’ennemi se cachait parmi nous? Si son homme le plus fidèle était en fait un traître?» étaient de lourdes accusations.

«Henry» cette fois c’était Stendhal qui jouait avec le feu et il ne semblait pas avoir peur de se brûler

«Tu t’es amusé à simuler ta mort et tu en es sorti vainqueur. Sache que tous ne sont pas prêts à pardonner tes péchés»

Dumas accepta ces paroles, la haine que l’homme nourrissait à son égard était manifeste et justifiée. Quand il est parti, beaucoup d’agents des renseignements étaient morts. Certains étaient de proches collaborateurs de Stendhal. Un effet secondaire de son propre plan. 

Quand il avait choisi de revenir parmi les Poètes Maudits, il ne s’attendait pas à obtenir une absolution complète. Il avait trahi sa nation et ses compagnons. Seul Victor avait fait preuve de clémence, l’accueillant sans hésitation.

«Charles est mort. Je n’ai aucune raison d’en douter» à ces mots Dumas revint immédiatement à la réalité. Une fois de plus, il se noyait dans les souvenirs de son passé, des souvenirs qui n’avaient jamais semblé si lointains.

«Si je ne me trompe, il possédait une capacité de contrôle mental»

«Qu’est-ce que tu insinues?» 

«Rien, sauf que votre cher Baudelaire aurait pu manipuler aussi votre esprit» Dumas était de retour à la charge et ne semblait pas vouloir épargner;

«Quelle absurdité»

«Tu étais distrait, effrayé, en un mot: vulnérable»

«Que veux-tu prouver, Alexandre?»

En fait, il ne le savait même pas lui. Peut-être qu’il était simplement inquiet pour Rimbaud et par extension pour Victor. Dumas avait déjà vécu un tel sentiment et avait été confronté à la mort de son père. Il avait alors juré de se venger et de consacrer sa vie à trouver et punir les coupables. 

«Je fais juste mon travail» et ne faire confiance à personne est l’une des premières exigences pour un espion;

«Charles est différent de toi. Tu as peut-être raison, il avait du ressentiment envers les Poètes pour l’avoir éloigné de Rimbaud mais il n’en serait jamais arrivé là. Il n’avait pas non plus de connaissances ou d’contacts internationaux qui auraient pu l’aider» était un garçon normal à qui nous avons arraché son avenir.

«T’es sûr?» Stendhal acquiesça.

«Hugo l’a confié à ma supervision. Je suis toujours resté à ses côtés» sauf une nuit, en Allemagne;

Dumas se déclara également satisfait. Une ombre d’incertitude avait traversé le regard du chef de la section des interrogateurs. Il commençait à douter du sujet, lui donnant une preuve supplémentaire pour soutenir sa thèse.

«Vous savez, je n’ai pas eu l’occasion de le connaître personnellement, mais il tenait beaucoup à Arthur»

«Il ne passait pas un jour sans qu’il me le mentionne»

Dumas le savait. Comme Victor avait suivi Rimbaud, contrôlant ses mouvements en dehors du renseignement. C’est à ce moment-là qu’il aperçut pour la première fois Charles Baudelaire.

Contemporain d’Arthur, il s’illuminait devant sa seule présence. Il souriait, se moquait de lui. Comme tout ami d’enfance. Le maure avait mis du temps pour réagir, répondre à ces manifestations d’affection sincère. Les règles d’Hugo devaient avoir conditionné sa psyché en le rendant prudent dans la relation avec son prochain.

Baudelaire ne convenait pas à Rimbaud, il le savait dès le début.

«Demain, tu veux venir pique-niquer au bord de la rivière?» Dans ce souvenir, Charles souriait radieux alors qu’il tendait une main vers Arthur. Le jeune espion se hâta de secouer la tête, attitude que Dumas connaissait très bien, elle était la même que celle de Victor. Rimbaud avait hérité d’une partie de son arrogance.

«Je ne peux pas» à ces mots le compagnon grogna,

«Tu ne peux pas ou tu ne veux pas?»

«Je dirais les deux. Je suis un espion, je ne peux pas me faire voir le long de la Seine comme un citoyen ordinaire» sourit Baudelaire;

«Je me demandais quand tu aurais joué ta meilleure carte» le maure l’a regardé un peu confus

«Qu’est-ce que tu veux dire?»

«Quand vous êtes au pied du mur, c’est bien de jouer à l’espion»

«Ce n’est pas un jeu»

«Bien sûr»

«Je pensais t’avoir déjà dit Charles, j’ai tué des gens» et autant veulent ma tête

«Je m’en fiche. On s’est retrouvés après toutes ces années»

«Tu sais que les choses ne pourront jamais être comme avant»

Nous avons changé. J’ai changé.

«Pourquoi? Il suffit de le vouloir»

Non, c’est impossible

Rimbaud n’avait pas répondu. Il était simplement parti. Dumas était resté à l’écart pour profiter de la scène. Arthur n’avait jamais lutté pour Baudelaire, c’était comme s’il savait dès le début que cette histoire était destinée à ne pas avoir de futur.

Son attitude envers Verlaine était différente. Pendant le dîner, il n’avait pas hésité à présenter le blond aux deux. Il était fier de lui. Il avait continué à le défendre et à louer ses progrès. 

Arthur était facile à lire parce qu’il était incapable de cacher ses émotions. Avec Baudelaire, il avait confondu l’affection et l’amour. Sa disparition et le mensonge d’Hugo n’avaient fait qu’alimenter son remords. Avec Black, il avait trouvé une nouvelle sérénité, aussi éphémère soit-elle.

«Que pensez-vous de cette histoire?» il retourna demander à Stendhal ;

«Je veux dire?»

« Rimbaud et Baudelaire. Combien de temps penses-tu que ça aurait duré ?»

«Je n’en ai pas la moindre idée»

«Tu connais les deux » lui fit remarquer;

«Charles était têtu mais jamais autant qu’Arthur. Il pouvait durer une semaine, un mois, un an, même si je crois que l’amour n’est pas une affaire de notre compétence»

Dumas ne put s’empêcher de sourire. C’était une insulte à Victor, à ses règles.

«Pourquoi cela vous intéresse-t-il tant?» Stendhal revint à l’improviste;

«Baudelaire était obsédé par Arthur. C’est tout»

«Est-ce le mieux que tu puisses faire? Inventer des histoires absurdes? Charles est mort et Rimbaud partira bientôt pour l’Allemagne»

Il avait raison et pourtant une partie de Dumas était inquiète. Cette affaire avait beaucoup de zones d’ombre, trop.

Il n’était pas seulement préoccupé par Arthur, mais aussi par les implications possibles de sa théorie. Si Goethe et ses hommes avaient vraiment aidé Baudelaire, ce petit morveux aurait pu révéler les secrets du renseignement.

Heureusement, il était un agent de bas niveau, ne possédait pas de codes ou d’informations trop dangereuses. C’était son ressentiment envers les Poètes qui le dérangeait.

Là le danger est partout, et se compose de mille dangers différents; mais on n'a pas le temps d'avoir peur, tant ces dangers sont sublimes.

Baudelaire détestait Hugo. C’était l’homme qui l’avait séparé de Rimbaud et forcé à rejoindre les rangs des Poètes.

J’espérais vraiment que tous ces doutes ne se révéleraient que de stupides fantasmes. Avec une guerre à venir, Charles Baudelaire était le cadet de leurs soucis.

«Peut-être ai-je exagéré » admit-il en esquissant un sourire;

Stendhal a repris sa cigarette de la poche de son manteau, visiblement plus serein.

«Il est facile de nourrir des doutes, surtout au vu de la situation européenne. J’imagine que Victor sera un paquet de nerfs» répondit Dumas en haussant les épaules.


«Comme toujours. J’envie parfois son sang froid» la capacité de rester rationnel devant tout et tous.

«Et le partenaire de Rimbaud? Ils semblent très proches », murmura-t-il en les désignant d’un signe de tête.

«De manière inattendue, Black s’est avéré être un excellent agent. Il a fait des progrès considérables et en peu de temps»

«Oui, j’espère vraiment que leur mission se terminera par un succès»

«Arthur est notre meilleur agent»

«L’enfant prodige de l’intelligence» il n’y avait pas de mal dans ces mots. Stendhal savait que Rimbaud était destiné à diriger les Poètes. Il n’avait jamais été un mystère pour personne et le nombre d’opérations réussies par le moro parlait de lui-même. 

«Ils s’en sortiront»

Stendhal a finalement allumé cette cigarette. 


***


Cette nuit là


«Avez-vous parlé à Henry aujourd’hui?» demanda Hugo avant d’enlever sa chemise de lin égyptien, la posant sur le lit. Dumas observa ce mouvement lent sans murmure, enchanté par les mouvements que Victor avait étudiés spécialement pour lui.

«Si tu m’as posé cette question, c’est parce que tu connais déjà la réponse», murmura-t-il en essayant en vain de détourner le regard de sa figure.

«Je sais juste que vous avez beaucoup discuté en dehors du bureau opérationnel»

Justement.

«Nous parlions d’Arthur», avoua-t-il quelques secondes plus tard, en se mettant à enlever sa cravate

«Et de Charles Baudelaire...» Il a conclu le chef du renseignement pour lui avec le même ton amusant et un sourire malicieux qui ne promettait rien de bon.

«J’ai l’intention d’enquêter sur sa mort», avoua Dumas, trop fatigué pour jouer avec son compagnon.

«Dans quel but? Ce ne sera qu’une perte de temps et de ressources»

«Si Baudelaire était vivant, il serait une menace pour votre plan» face à ces mots Victor leva un sourcil ;

«Même si c’est vrai, ce gosse n’a qu’une capacité de contrôle mental. Je sais très bien comment le combattre» Hugo était sans aucun doute le plus puissant des Poètes, cependant;

«Avez-vous envisagé l’hypothèse qu’il n’agit pas seul? Si c’était vraiment Goethe qui tirait les ficelles de cette histoire», peut-être rêvait-il trop mais ne pouvait pas se débarrasser de cette possibilité. Dumas savait de quoi il parlait, lui-même avait vécu une expérience similaire dans sa propre peau.

Il y a des êtres qui ont tant souffert, et non seulement ils ne sont pas morts, mais ils ont bâti une nouvelle fortune sur la ruine de toutes les promesses de bonheur que le ciel leur avait faites.

«C’est pour cela que j’ai envoyé Arthur et Black en Allemagne, pour arrêter Johann» devait s’y attendre, Victor Hugo était toujours un pas en avant, prêt à devancer ses adversaires.

«Tu ne fais confiance à aucun de tes alliés» n’était pas une critique, juste un simple constat.

«Désormais les Transcendantaux se sont divisés. Chacun poursuit l’intérêt de sa propre Organisation et je ne peux pas lui en vouloir. On n’est plus des gamins, Lex»

«Mais en frappant directement l’Allemagne, c’est toi qui déclencheras un nouveau conflit» Hugo secoua la tête,

«Je vais mettre les Allemands en position d’attaquer. La France ne sera qu’une victime de l’agression et se verra contrainte de réagir»

«Si vous n’avez pas un espion allemand qui anticipe vos mouvements»

«Vous avez ma permission d’enquêter sur Charles Baudelaire, si c’est ce que vous voulez» ce jeu de hasard était allé trop loin.

«Ne pas utiliser ce ton condescendant Vic»

«Je suis fatigué, c’était une journée intense», s’ouvre-t-il en se glissant sous les couvertures. Dumas le suivit.

«Je veux juste te protéger toi et notre organisation. Je ne veux pas que ton plan échoue à cause d’un enfant» murmura-t-il avant de le serrer dans mes bras. Hugo resta immobile, savourant pendant quelques secondes cette chaleur familière.

«Tu sembles si sûr de toi-même», se borna à constater

«J’ai un très mauvais pressentiment à propos de cette histoire»

«Stendhal n’aura pas hésité à défendre son protégé » murmura brusquement le chef du renseignement peu avant de se tourner vers lui

«Qu’est-ce que tu veux dire?»

«Rien, je pense qu’Henry avait le béguin pour lui»

«Arrête de plaisanter» n’était pas drôle.

«Il y a des années, j’ai trouvé son dossier et je l’ai lu, exactement comme je l’ai fait avec ceux de tous nos collaborateurs. Saviez-vous qu’avant l’intelligentece avait une petite amie?» Dumas secoua la tête.

«Je sais seulement qu’il a choisi de s’enrôler. Pas recruté» Stendhal avait consciemment embrassé cette vie, mettant sa Capacité au service des Poètes.

«Il y avait une photo de lui dans ces documents, elle était vraiment très jolie. Cheveux bouclés et yeux bleus profonds, ça te rappelle quelqu’un?»

«Je ne pense pas que ce soit suffisant pour soutenir votre thèse»

«J’ai vu Stendhal et Baudelaire ensemble, avant la mission en Allemagne»

«Quel imbécile» se moqua de lui.

«Je suis toujours un agent secret»

«Et alors?» Hugo éclata de rire,

«Je vois que ça t’intéresse»

«Tu ne peux pas commencer par raconter quelque chose et ensuite t’interrompre sur le plus beau»

«Stendhal était très protecteur envers Baudelaire, si vous voyez ce que je veux dire»

«Il serait mort pour le sauver»

«Oui. Je pense que ta théorie est valable, Lex. Henry se serait sacrifié pour sauver ce petit morveux» avait déjà perdu quelqu’un d’important.

Le comportement humain était facile à comprendre et à prévoir

«Pensez-vous qu’il pourrait être impliqué?»

«Je ne crois pas. Stendhal est un homme d’une seule pièce. Il ne trahirait jamais l’Organisation et en tout cas, il savait que Baudelaire n’aurait jamais ses sentiments »

«Tu es vraiment impitoyable» Hugo portait la meilleure de ses expressions offensives,

«Je pense que c’est drôle qu’en dépit de mes préceptes, mes hommes les plus fidèles s’amusent à faire le contraire»

Pourquoi l’amour doit-il être si important? À eux, il n’avait apporté que souffrance et douleur.

«Tu es le premier à avoir enfreint ces règles» il lui suffisait de croiser le regard de Dumas pour le comprendre. Ces yeux ont toujours été son point faible.

«Je le sais, mais j’avais mes raisons» murmura-t-il avant de l’embrasser.

Alexandre Dumas ne put que se rendre devant ce démon tentateur.


***


Paris

Ce même moment - Appartement d’Arthur Rimbaud


"Jour XX de l’année XX.

Journal d’un agent de la DGSS de l’unité anti-terroriste. 

Beau temps. Quelques minutes avant minuit. Lune décroissante.

Ma note d’aujourd’hui sera plus courte que d’habitude car demain nous attend une mission secrète dans un pays étranger. Mon partenaire et moi ne bénéficierons d’aucun soutien logistique ou personnel interne..."

« Tu devrais venir au lit » la voix endormie de Paul Verlaine a ramené Rimbaud à la réalité. Il mettait à jour son carnet de notes en notant les dernières informations concernant la mission imminente en Allemagne. 

C’était une habitude établie qu’il avait inaugurée avec l’arrivée de Paul dans sa vie. Les premières notes remontent en effet à la mission sur le Faune, le jour où ils s’étaient rencontrés. Rimbaud avait poursuivi en énumérant les progrès du blond et les différentes opérations conclues ensemble. Deux ans résumés en quelques pages.

Il posa son stylo sur son bureau, éclairé par la lueur d’une bougie.

Il avait proposé à Verlaine de passer la nuit chez lui. Pour une question de confort, il avait tenu à préciser. Le lendemain ils partiraient à l’aube, il ne leur restait pas beaucoup d’heures pour se reposer. La chose qui l’a le plus pressé était d’avoir interrompu le sommeil de Paul.

«Désolé je t’ai réveillé» murmura-t-il. Le visage du blond surgit sous une couverture de couvertures. 

«Qu’est-ce que tu fais?» demanda-t-il avec curiosité en s’asseyant.

«Je mets à jour mon carnet avec les données de la prochaine mission»

«Je me suis toujours demandé, pourquoi tu le fais?» Rimbaud a fait semblant d’y penser,

«Peut-être pour laisser un témoignage»

«Je ne crois pas comprendre» Arthur sourit patiemment avant de se tourner vers lui,

«Comme vous le savez bien, le travail d’un espion est très risqué. Aucun sentiment, aucun lien, c’est une vie faite de sacrifices et de renoncements. À notre mort, il ne nous attend plus qu’une pierre froide sans nom. La première personne que j’ai perdue a été Dumas. J’étais un enfant alors et Lex avait simulé sa propre mort. Je me souviens que Victor n’a pas versé une larme à ses funérailles et n’est jamais allé visiter la plaque en son honneur»

«Absurde» plus il connaissait les détails de ces deux-là et plus il avait du mal à les comprendre.

«C’est tout simplement ce que l’on attend du leader du renseignement. Pour le monde nous n’existons pas, nous ne sommes que des ombres qui se déplacent dans les coulisses de l’histoire. Tu te souviens du jour où je t’ai donné ce nom?»

Verlaine acquiesça, ravi par ce discours.


« Le vrai Paul Marie Verlaine est mort à l’âge de huit ans. Dans un petit village des Ardennes, il y a une pierre tombale qui porte son nom. Sa mère et ses frères vous apportent des fleurs fraîches chaque semaine »

«Tu es revenu à cet endroit» Rimbaud hocha la tête en essuyant une larme avant qu’il ne puisse lui faire couler une joue,

«Il y a quelques années, après avoir perdu Charles. Rien n’avait changé depuis le jour où je me suis enrôlé dans les Poètes. Ce village était encore petit et arriéré comme je m’en souvenais»

«Cette vie te manque?» le maure secoua la tête,

«J’étais un enfant ambitieux, plein de rêves et d’espoirs pour l’avenir. Je n’aurais jamais pu mener une existence pareille, en plus si je l’avais fait je ne t’aurais jamais rencontré » lui sourit Verlaine ;

«Tu ne m’as jamais parlé de ta vie avant d’être un Poètes»

Parfois, j’ai tendance à oublier comment c’était. Autant que ça me dérange de l’admettre peut-être Victor a raison, je suis né pour être un espion » le petit Paul Verlaine n’était qu’un énième fantôme de son passé, un souvenir aux contours flous, destiné à se perdre dans le temps.

«Selon ton raisonnement alors je ne serais qu’une arme»

«Tu es un être humain Paul» était un peu qu’ils ne revenaient pas sur le sujet. Au début, Black avait eu du mal à accepter sa propre nature, se décrivant comme un monstre, une abomination.

«Je l’oublie souvent»

Rimbaud a éteint la bougie sur son bureau avant de rejoindre son compagnon sous les couvertures. La pièce n’était pas froide mais la chaleur du corps du blond était brûlante, comme toujours. A ses côtés toute sensation de froid cessait.

«Tu es mon partenaire»  murmura-t-il à une frange de ses lèvres ; 

«Êtes-vous sûr que c’est juste ça?» le sourire apparu sur le visage de Verlaine a été détruit par un baiser.

«Vous voulez continuer?» Le maure lui demanda en caressant une joue, ils n’avaient pas parlé ouvertement de leur relation, ils s’étaient tous deux laissés emporter par les événements.

«Ça pourrait être notre dernière nuit» ce commentaire l’a fait sourire,

«Ne soyez pas mélodramatique»

«Quelqu’un me l’a appris»

Un autre baiser mit fin à cette discussion.

Tant qu’il y a un Dieu dans le ciel et un lien dans nos cœurs, l’avenir nous tend les mains.











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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


C’era un tempo in cui bastava uno sguardo.

Un cenno, una scusa per restare da soli nella biblioteca del seminario, tra scaffali polverosi e pagine in odore di santità che sapevano solo coprire ciò che davvero ardeva dentro.

Ora quel tempo sembrava appartenere a un’altra vita. Una stagione passata, che mai più sarebbe tornata.

Il Cardinale  Aldo Bellini sedeva nella penombra della propria stanza, il cappuccio leggermente calato, come se volesse nascondersi da tutti ma soprattutto da se stesso. Sulla scrivania, un foglio non scritto. Doveva preparare un discorso, forse una dichiarazione. Ma ogni parola gli pareva vuota. Priva di ogni significato. 

Qualcuno bussò. Un colpo secco.

“Entra,” disse, riconoscendo già il tocco di quella mano contro il legno.

Goffredo Tedesco varcò la soglia come una memoria tornata in carne e ossa. Un fantasma appartenente al passato che Dio aveva riportato sulla sua strada. I capelli più grigi, gli occhi identici a quelli del ragazzo che lo aveva baciato, per la prima volta, tra i banchi di una cappella deserta.

“Hai cercato il mio voto, o me?” chiese Aldo, pacato. Non voleva illudersi. Certe cose non sarebbero mai cambiate, non potevano. 

Tedesco non rispose. Il silenzio parlava per lui.

“Ricordi quando pensavamo che bastasse aspettare? Che un giorno, lontano, ci saremmo concessi il lusso di essere veri?” Vivi.

“Il tempo ci ha traditi,” mormorò Bellini.

Goffredo si avvicinò, senza sorridere.

“No. Siamo stati noi a lasciarlo andare. A perderlo.”

Un gesto. Una mano sulla spalla. Calore sotto la stoffa sacra.

In quell’istante, tutto ciò che non era mai stato detto si fece chiaro.

Non avrebbero mai più avuto vent’anni, né quel coraggio ingenuo. Ma forse, anche in mezzo ai voti e alle omelie, potevano ancora salvare qualcosa.

Non tutto era perduto per loro.

Solo il tempo.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


L’altare era pronto, l’incenso aleggiava nell’aria, e i seminaristi intonavano i canti con voce limpida, quasi innocente.

Quasi.

Aldo Bellini era rigido nel proprio posto, le mani giunte, lo sguardo fisso sul messale che teneva sulle gambe. Ma ogni volta che alzava appena gli occhi, li trovava: quelli di GoffredoTedesco, fermi su di lui. Fissi. Brucianti, come le fiamme dell’inferno.

Non erano più bambini, non lo erano da un pezzo. Non dopo quelle sere passate svegli, a pochi letti di distanza, con il cuore che batteva troppo forte per il silenzio del dormitorio.

Il canto finì. Don Paolo li chiamò a sistemare i paramenti. E fu lì che accadde.

La sagrestia era vuota. L’eco dei passi lontana.

Bellini vi entrò per primo. Poco dopo, la porta si richiuse alle sue spalle.

Goffredo.

Lo sguardo era lo stesso che aveva durante la messa: feroce, affamato, incredulo. Le mani tremavano appena quando si avvicinò.

“Non dovremmo,” sussurrò Aldo contro il suo orecchio.

“Ma lo faremo.” Ovviamente. Tedesco sapeva come ottenere sempre ciò che voleva e in quel momento il suo desiderio era tutto per Aldo Bellini.

Si baciarono come se il tempo fosse un’illusione, come se il peccato fosse un pensiero lontano. Le dita si stringevano sul colletto delle tonache, i respiri spezzati si confondevano con il fruscio del lino.

Fu un attimo.

Un sacrilegio.

Un miracolo.

Una blasfemia.

La promessa della dannazione eterna.

Quando si separarono, le guance arrossate e i cuori in tumulto, la campanella della messa risuonò oltre la porta.

“Torniamo,” propose Aldo, il volto incredulo, quasi scioccato da tanto ardore.

“Dopo,” rispose Bellini, il sorriso appena accennato. “Solo un istante ancora”.

Un istante solo per loro. Prima di tornare ad essere santi, puri. Prima di abbracciare nuovamente il sentiero che avevano scelto.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


Il portone della Domus Sanctae Marthae si richiuse alle loro spalle con un tonfo sordo, come un sigillo.

Cardinale Aldo Bellini si tolse il cappotto con la lentezza di chi cerca di prendere tempo. Il conclave incombeva, e con esso, l’obbligo di scegliere un nuovo papa. Per Goffredo Tedesco invece, il vero peso era un altro.

Aldo era lì.

Dopo anni di silenzi, di viaggi diplomatici in terre lontane, di lettere formali mai spedite — eccolo. Il volto forse più scavato, ma gli occhi gli stessi. Quelli che un tempo lo avevano guardato come si guarda qualcosa di sacro, unico, prezioso.

Si incrociarono nel corridoio centrale, diretti entrambi verso la cappella. Per un attimo, il tempo sembrò piegarsi. Stagioni dimenticate, preghiere sussurrate, baci e carezze rubati.

“Eminenza,” lo salutò Aldo, con un cenno del capo. Troppo composto, troppo distante. Troppo dannatamente se stesso.

“Bellini” rispose Goffredo, stringendo le labbra. Non “Aldo”. Non ancora. Non poteva permettersi tanta confidenza.

Percorsero insieme alcuni passi. Il silenzio tra loro parlava più delle parole.

“Allora, per chi voterai?” chiese infine Tedesco, non per curiosità politica, ma per sentire la sua voce. Semplicemente gli mancava.

Bellini scosse appena il capo.

“Non ho ancora deciso. Ci sono troppi nomi… e nessun volto”

Un sorriso amaro sfiorò le labbra di Tedesco

“Già. Nessun volto”

Ma i loro sguardi si cercarono, come se il passato bussasse piano alle porte del presente. L’odore dell’incenso non riusciva a coprire quello dei ricordi: le notti nei dormitori, le mani sfiorate per sbaglio, il desiderio nascosto tra le pieghe della tonaca.

“Non è più tempo di giochi”lo sai

mormorò Aldo.

“No,” rispose Goffredo. “Ma forse… è ancora tempo di verità”

E in quel conclave, tra voti e preghiere, tra silenzi e segreti, si sarebbero trovati di nuovo.

Uomini, prima che cardinali.



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Il bianco della veste in quel momento pesava più dell’oro, più delle mani che gliel’avevano imposta. Vincent Benitez sorrideva, con la compostezza che il proprio ruolo richiedeva, ma dentro di sé sentiva solo un silenzio vasto e immobile. Era quasi assordante e non gli lasciava un attimo di respiro. 

Lo avevano chiamato Santo Padre. Aveva scelto il nome di Innocenzo XIV. Ma quel titolo aveva solo l’amaro sapore di un addio.

Lawrence fu tra i primi ad avvicinarsi, dopo l’elezione. Lo sguardo fiero, impassibile come sempre. Nessun tremito. Nessuna parola oltre il protocollo. Era bellissimo nel proprio ruolo, esprimeva una sicurezza che nessun altro cardinale avrebbe mai potuto vantare.

Vincent avrebbe tanto voluto sfiorargli la mano in quell’occasione. Dire tutto quello che non era mai stato detto. Ma ora era troppo tardi. O forse, più banalmente lo era sempre stato e quei giorni erano stati solo un sogno vissuto ad occhi aperti.

“Eminenza,” disse, con la voce ferma, anche se sentiva cuore e ogni fibra del proprio corpo bruciare.

Lawrence chinò appena il capo. Mite, accondiscendente. 

“Santità”

Una sola parola. Come una lama.

Il tempo per i sentimenti era finito.

Non ci sarebbero più state confidenze sussurrate nei corridoi, né risate trattenute nei giardini, né quegli sguardi rubati che avevano detto più di mille preghiere.

Vincent ora era diventato Papa.

E il Papa non ama.

Non così. Non può farlo nemmeno in segreto, non in vaticano, non più. 

Si voltò, il manto bianco che si apriva come le ali di un angelo condannato.

E mentre avanzava verso la folla adorante, pensò solo a Lawrence. Il suo fidato cardinale.

Al tempo che non avevano più.

A ciò che non poteva più essere.

E al fatto che, in cuor suo, Vincent non avrebbe mai smesso di amarlo.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


Il silenzio del giardino interno era rotto solo dal lento frusciare delle foglie e dal suono ovattato dei passi di Lawrence sulla ghiaia. Il conclave era alle porte, e con esso la responsabilità di scegliere un nome, un volto, un futuro. Un nuovo Papa, una guida per la Chiesa di Roma. Un faro che li avrebbe guidati atttaverso le tenebre.

Aveva ascoltato discorsi, valutato alleanze, pesato ambizioni travestite da zelo. Tutti sembravano avere una visione chiara, beh tutti tranne lui. In cuor suo Lawrence non avrebbe mai pensato di avere la possibilità di accedere al soglio pontificio, era un onore che malgrado tutto non sentiva di meritare.

Fu allora che lo vide.

Vincent Benitez, inginocchiato accanto a un’aiuola, con la veste sollevata appena per non sporcarla. Davanti a lui, una piccola tartaruga si muoveva lentamente tra l’erba.

“Che state facendo?” Domandò Lawrence, con un sorriso appena accennato.

Vincent sollevò lo sguardo, sorpreso.

“Sapete, vengo qui ogni mattina. Mi ricorda che la pazienza non è immobilità. È fiducia.”

Lawrence rimase in silenzio. Guardò quell’uomo semplice, chino con dolcezza su una creatura indifesa. Non il più potente, non il più astuto, non il più ambizioso.

Ma il più umano.

Fu allora che comprese.

Non servivano grandi miracoli o promesse altisonanti. Bastava quel gesto. Quel rispetto per la vita più lenta, più fragile, più vera.

Il conclave avrebbe eletto un pontefice.

Lawrence, in cuor suo, aveva già scelto.

Vincent non era il più forte.

Era il più giusto. Ci sarebbe stato tempo per tutto il resto, ambizioni, alleanze, potere. 

Osservare il cardinale Benitez divertirsi con gli animali del vecchio Pontefice lo riempi di una gioia inaspettata. Un sentimento che da tempo aveva cessato di provare.

Ogni ansia o paura per l’avvenire era cessata.

“Avete bisogno di altro?” 

No era in pace.


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Cowt-14 Quinta Settimana  - M3

Fandom: Conclave

Numero parole: 300 parole 


La veste bianca scivolava silenziosa lungo il corridoio privato. Vincent, anzi Sua Santità papa Innocenzo XIV camminava piano, quasi esitante, come se ogni passo lo allontanasse da qualcosa che non avrebbe più potuto avere. Il solo pensarlo equivaleva ad un peccato mortale che il capo della Chiesa di Roma avrebbe scelto ancora ed ancora.

Lawrence lo attendeva nel proprio ufficio, le mani giunte dietro la schiena, lo sguardo fisso sul crocifisso appeso alla parete. Lo conosceva troppo bene: sapeva che quel silenzio pesava più di mille parole. Era sempre stato così fra loro, sin dal giorno del primo incontro.

“Dovrei andare,” mormorò Vincent, con poca convinzione chiudendo la porta alle proprie spalle. Il cardinale chinò il capo.

“Lo so,” rispose Lawrence senza voltarsi.

“Ma non l’hai ancora fatto” colpito ed affondato.

Vinse il silenzio un battito d’orologio. Poi un altro. E infine le dita di Vincent trovarono quelle di Lawrence, intrecciandole con una naturalezza che solo gli anni — e le rinunce — potevano concedere.

“Non ci sarà un dopo, vero?” Domandò Vincent, piano. La voce ridotta ad un sussurro.

Lawrence scosse la testa.

“Il dopo non esiste per noi. Solo adesso. Il presente. È questo che conta, solo questo effimero istante” che abbiamo rubato allo

scorrere incessante del tempo, alla storia: 

Ciò che ne seguì fu un bacio leggero, quasi casto, quasi fosse una preghiera sussurrata contro l’inesorabile scorrere del tempo. Lawrence si sentiva in quel modo, come bloccato dentro ad una clessidra, ad osservare la sabbia che lentamente lo conduceva verso la fine, l’oblio.

Vincent chiuse gli occhi.

Chi ha tempo non aspetti tempo.

E quel giorno, almeno per un istante, scelse di essere solo un uomo. Non papa Innocenzo. Non la nuova speranza della

chiesa, un uomo in compagnia dell’unica persona che avesse mai amato.


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Numero parole: 200 parole 


Lawrence li vide. Un attimo appena,  il tempo di un istante, attraverso la porta socchiusa di una cappella laterale. Aldo Bellini, con le mani intrecciate a quelle di Goffredo Tedesco. Un bacio svelto, furtivo, ma carico di tutto ciò che il Vaticano non avrebbe mai perdonato.

Avrebbe potuto parlare. Avrebbe potuto denunciarli, invocare lo scandalo, il peccato, la disciplina.

Invece, si limitò a chiudere la porta, lentamente, senza fare rumore.

Nel silenzio del corridoio, si concesse un respiro lungo. Le dita sfiorarono la piccola croce che portava sempre al collo, non per fede, ma per Vincent.

Anche loro avevano vissuto così. Attimi rubati dietro le ombre dei paramenti, parole sussurrate durante le vestizioni, mani che si sfioravano con la scusa di sistemare una veste. Nessuno li aveva mai colti, ma il rischio era sempre stato lì — parte integrante del desiderio.

Lawrence tornò sui propri passi. Non c’era bisogno di dire nulla.

Sapeva quanto potesse valere un singolo istante, quando tutto il resto ti è negato.

E se Aldo Bellini e  GoffredoTedesco avevano trovato il coraggio di viverlo, allora meritavano almeno il silenzio.

Un patto tacito tra chi sapeva cosa significasse amare nel posto più sacro — e più crudele — del mondo.


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La folla cresceva. Ogni ora portava con sé nuovi incontri, nuove strette di mano, nuovi occhi puntati su di lui. E Vincent, già Papa, già simbolo, già figura sacra… si sentiva ogni giorno un po’ meno sé stesso.

Lawrence era lì, sempre un passo indietro, sempre presente, sempre silenzioso. Lo sguardo attento, le mani composte, il volto che non tradiva nulla. Nessuno avrebbe potuto indovinare quante parole non dette erano rimaste in sospeso tra loro dopo il conclave. Come di quel bacio che non sarebbe mai dovuto esistere.

E fu proprio mentre attraversava il cortile vaticano, tra fotografi e monsignori, che Papa Innocenzo capì. Non ci sarebbe più stato un dopo. Nessun momento rubato tra una riunione e l’altra. Nessun sguardo complice dietro le vetrate dell’Arcivescovado.

Non erano più soltanto Lawrence e Vincent.

Erano il Papa e il suo Segretario.

“Avrei voluto dirti così tante cose” sussurrò Vincent, con un sorriso stanco, mentre Lawrence gli porgeva dei documenti.

“Non serve Sua Santità” rispose lui, piano, senza alzare troppo lo sguardo.

Il momento durò l’istante di un respiro. Un battito appena. Ma fu sufficiente.

Perché entrambi sapevano cosa avrebbero voluto dirsi, se solo il tempo gliel’avesse concesso.


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Tra le ombre discrete dei corridoi vaticani, i cardinali Aldo Bellini e Goffredo Tedesco camminavano l’uno di fianco all’altro distaccati quel tanto che bastava per non destare sospetti, vicini abbastanza da sentire l’uno il calore dell’altro.

Il conclave era imminente. Le ore si rincorrevano veloci, gravide di decisioni, strategie, sguardi sospettosi. Eppure, nel caos misurato di quei giorni, loro cercavano, ostinati, di ritagliarsi un frammento di eternità.

“Solo dieci minuti,” sussurrò Bellini, con un mezzo sorriso mentre apriva la porta di una delle ennesime sale dimenticate all’interno delle mura vaticane”

“Rubare il tempo non è molto cristiano” rispose Tedesco, ma lo seguì lo stesso, senza esitazione. Faceva sempre così, ribatteva ma poi cedeva. La sua era tutta apparenza, una maschera che aveva scelto di indossare in pubblico per celare il proprio desiderio privato. Il proprio peccato.

La porta si chiuse alle loro spalle con un click ovattato. Il mondo, fuori, smise di esistere. Le loro mani si trovarono, sicure, senza bisogno di parole. Non c’erano promesse né preghiere, solo il silenzio di chi ha imparato a bastarsi. Rubare ogni attimo, ogni secondo.

Bellini sfiorò il volto di Goffredo come si tocca una reliquia: con rispetto e fame. Era invecchiato dal loro ultimo incontro ma aveva mantenuto lo stesso fascino che oltre cinquanta anni prima lo aveva fatto innamorare. 

“Lo so che finirà presto” mormorò tra le sue braccia “Ma lasciami credere che abbiamo ancora tempo” tempo per noi, per amarci, per scendere insieme all’inferno.

Goffredo non rispose. Lo baciò, con la calma di chi non può fermare l’orologio, ma può scegliere come usarne ogni secondo.

E mentre fuori le campane cominciavano a chiamare i cardinali alla Cappella Sistina, loro restavano lì.

A rubare il tempo.

A farne amore. Pienamente consapevoli dei propri peccati.


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Aldo Bellini fissava la volta affrescata della cappella Sistina, ma non riusciva a vedere nulla. Le immagini sacre, i volti dei santi, le scritture dorate… tutto si confondeva in un’unica vertigine sfocata. Non era la preghiera a smuovere il suo cuore, non quel giorno. Era qualcos’altro, anzi qualcuno di cui conosceva perfettamente il nome.

Goffredo Tedesco.

Seduto a pochi banchi di distanza, il cardinale Tedesco sembrava ignaro del tumulto che ribolliva dentro il cardinal Bellini. Schiena dritta, mani giunte, volto composto. Sempre fedele al proprio ruolo, sempre impenetrabile. Eppure Aldo lo conosceva. Sapeva leggere nelle incrinature del suo silenzio, nei fugaci sguardi rubati quando nessuno guardava.

Non era un semplice legame, non più. Si conoscevano da una vita, sin dai tempi del seminario.

“Non posso continuare a mentire a me stesso” pensò Aldo, sentendo il peso di quelle parole dentro il proprio petto. “Non posso continuare a chiamarla amicizia. Né desiderio. Non quando ogni suo sguardo mi accende, ogni suo silenzio mi manca”

Fu allora che finalmente comprese. Non era solo attrazione, non era solo complicità. Era amore. Quello vero, quello che non si spegne con il tempo, quello che resta anche quando il mondo intero cerca di cancellarlo.

Il cuore gli batteva più forte. Una parte di sé avrebbe voluto solo correre verso di lui, prenderlo per mano, dirglielo — lì, in mezzo a tutto e a tutti. L’altra, più prudente, più spaventata, gli ricordava chi erano, cosa rappresentavano.

Ma non poteva più ignorarlo.

Aldo si alzò lentamente, lasciando la panca, senza avvicinarsi troppo a Goffredo. Gli bastò incrociare il suo sguardo per un istante. In quegli occhi severi, vide qualcosa tremare.

Forse, anche Goffredo stava aspettando che lui trovasse il coraggio.

Forse, era tempo.

Tempo di ammettere i propri sentimenti. 

Il giorno dopo il papa spirò.


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Le pareti marmoree della sagrestia sembravano trattenere il respiro. Il brusio dei cardinali, i preparativi, le voci che si rincorrevano lungo i corridoi: tutto sembrava lontano, ovattato. In quella stanza nascosta, un paio di giorni prima dell’inizio del conclave, esistevano solo loro due.

Aldo Bellini aveva le mani premute contro il petto di Goffredo Tedesco, le dita che afferravano il tessuto porpora con una forza disperata, quasi a volerlo trattenere lì per sempre. Il respiro di entrambi era irregolare, spezzato da sussurri che non osavano diventare parole. Era sempre stato così fra loro.

Non era la prima volta. Ma quel giorno entrambi avvertivano l’amaro sentore dell’addio. Come se quello fosse destinato ad essere il loro ultimo amplesso.

Goffredo lo baciò con foga, con la rabbia e la dolcezza di chi non ha più tempo. Le mani si cercarono, si intrecciarono, mentre i corpi si stringevano nell’ombra, uniti in un abbraccio tanto veloce quanto carico di significato.

“Se potessimo fermare il tempo…” pensò Bellini, mentre osservava gli occhi socchiusi di Goffredo che tremavano di desiderio misto a rimpianto.

“Se potessimo restare così… ancora un momento” fu il pensiero speculare che attraversò la mente del cardinale italiano. 

Fu solo un attimo. Ma in quell’istante si consumò tutto: amore, paura, appartenenza, distacco. Un battito. Un sospiro. Una promessa taciuta.

Poi, la realtà reclamò entrambi. Le voci si avvicinavano. Una sola consapevolezza: il conclave li attendeva e loro erano due dei papabili. 

Bellini si ricompose, aggiustandosi la veste con mani tremanti. Goffredo si voltò, senza guardarlo, ma restando abbastanza vicino da sfiorarlo ancora una volta.

“È tempo” mormorò.

Aldo annuì.

Sì.

Era tempo. Ma dentro di loro, per un istante che non avrebbe mai smesso di bruciare, il tempo si era davvero fermato. 

Avrebbero vissuto per sempre con quel ricordo.


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Il chiostro del seminario era avvolto da un silenzio solenne, rotto solo dal fruscio delle pagine sfogliate e dal lieve eco di passi sul pavimento di pietra. Aldo Bellini, giovane seminarista americano, sedeva su una panca di legno, immerso nella lettura delle Sacre Scritture. La luce filtrava attraverso le vetrate colorate, dipingendo sul suo volto giochi di colore che danzavano al ritmo del pallido sole pomeridiano. 

Un’ombra si proiettò sul libro aperto di Aldo. Nemmeno il tempo di alzare lo sguardo e il seminarista incontrò un paio di occhi scuri e penetranti. Davanti a lui stava un altro giovane prelato, la cui presenza emanava un’aura di rigida disciplina. Così a pelle gli suscitò un’instantanea antipatia.

“Sei Bellini, vero? “domandò l’altro, con un accento italiano molto marcato. Doveva essere romano.

“Sì, sono io.” Si limitò ad annuire con fare annoiato.

“Goffredo Tedesco” si presentò tendendogli la mano.

Un silenzio carico di tensione si insinuò tra loro. Aldo percepì una scintilla di sfida nello sguardo di Goffredo, un misto di curiosità ma anche risentimento. Inizialmente non ne comprese il motivo.

“Ho sentito parlare di te, Bellini” proseguí Goffredo, con un sorriso che non raggiungeva gli occhi. 

“Dicono che tu sia brillante” eccola, la vanità. Il peggiore dei peccati.

“Solo voci” rispose Aldo, chiudendo il proprio libro con calma 

“Mentre tu? Sei noto per qualcosa?

Goffredo inclinò leggermente la testa, osservando Aldo con attenzione. Sembrava valutare ogni sua parola, ogni gesto.

“Forse, col tempo, lo scoprirai”

Con un cenno appena accennato, Goffredo Tedesco si allontanò, lasciando Aldo con il cuore che batteva più forte del previsto. Non sapeva se fosse l’inizio di un’amicizia o di una rivalità, ma una cosa era certa: il tempo dei primi amori, con tutte le sue incertezze e turbamenti, era appena iniziato.


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Le candele tremolavano nella penombra della biblioteca del seminario, proiettando ombre danzanti sulle pareti rivestite di libri antichi. Aldo Bellini sedeva a un tavolo appartato, gli occhi fissi sulle pagine di un tomo aperto davanti a lui, ma la sua mente era altrove. Il fruscio discreto di passi familiari lo distolse dai propri pensieri.

“Sempre immerso nei libri, Aldo?” La voce profonda del giovane seminarista Goffredi Tedesco risuonò nell’aria, tradendo una nota di affetto velato.

Bellini alzò lo sguardo, incontrando gli occhi color nocciola dell’altro. Un sorriso involontario sfuggì alle sue labbra.

“E tu sempre a interrompermi, Goffredo”

Tedesco si sedette accanto a lui, la distanza tra loro quasi inesistente. Per un momento, il silenzio fu colmo di parole non dette, di sguardi rubati durante le lezioni, di sfioramenti accidentali nei corridoi. Come in quel momento, quando gli sarebbe bastato allungare la mano per afferrare quella dell’altro.

“Aldo,” iniziò Goffredo, la voce più bassa, quasi esitante. “Sai che il tempo dei giochi è finito” annunciò con tono grave.

Bellini annuì lentamente. Certo che lo sapeva. La loro amicizia aveva superato i confini dell’innocenza, trasformandosi in qualcosa di più profondo, più complesso.

“Ne sono consapevole” rispose, la mano che si posava delicatamente sulla pagina del libro, come a cercare un appiglio di fronte a quella situazione. 

“Ma ciò che sento per te… beh non è un gioco”

Goffredo si avvicinò appena, il calore del suo corpo percepibile nell’aria carica di tensione.

“Nemmeno per me” ammise l’altro.

Un battito di ciglia e le loro labbra si sfiorarono in un bacio casto, ma carico di promesse. Sapevano che il cammino davanti a loro sarebbe stato irto di ostacoli, ma in quel momento, nella quiete della biblioteca, esistevano solo loro due.

Il tempo dei giochi era finito. Svanito per sempre.


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Il crepuscolo si era da poco abbattuto sul Vaticano, ma in una stanza appartata, lontana da occhi indiscreti, l’atmosfera era soffusa e carica di una tensione diversa. Bellini e il cardinale Tedesco erano soli, il peso del conclave che incombeva su di loro, ma per un attimo il mondo intorno a loro sembrava essersi fermato. Il suono dei loro sospiri riempiva l’aria, come non avveniva da tempo.

“Non c’è un minuto da perdere,” sussurrò Bellini, il tono malizioso che tradiva l’urgenza nei suoi occhi. “Il conclave sta per iniziare” sapevano entrambi cosa gli stava chiedendo.

Tedesco lo guardò, un sorriso furtivo comparve sulle sue labbra.

“E allora… perché non ritagliarci un po’ di tempo, prima che tutto vada in pezzi?” Avrebbe voluto aggiungere: prima della mia elezione, ma si trattenne. Non voleva sprecare quell’occasione.

Bellini rise sommessamente, avvicinandosi. La distanza tra di loro si faceva sempre più sottile e il respiro di entrambi più affannato.

“Lo sai. Non possiamo perdere troppo tempo,” ripeté Bellini, ma le sue mani si appoggiarono sul petto dell’altro tirandolo a sé con dolcezza mista a urgenza. Non erano più giovani come una volta. Ogni minuto insieme era prezioso. 

“Dobbiamo essere pronti a tutto, ma non dimenticare che siamo vivi, Aldo” rispose Tedesco, il suo sguardo per un attimo divenne più intenso di qualsiasi sermone o discussione politica. 

“E che, sebbene il conclave possa cambiare tutto, non cambierà questo..”

Le parole furono interrotte dalle labbra di Bellini, che lo baciò con un ardore che non ammetteva esitazioni. Il tempo del dovere sarebbe arrivato presto, ma per ora… erano solo due uomini in un angolo nascosto, dove il mondo non li guardava.

Non era altro che un piccolo respiro, un’ultima boccata di libertà prima che il destino li chiamasse di nuovo.


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La notte era calata sul Vaticano, avvolgendo ogni angolo di mistero e silenzio. Vincent sedeva al suo scrittoio, le mani ferme sopra il papiro bianco. Gli occhi, però, non si fermavano mai sul foglio: sembravano cercare qualcosa nel vuoto della stanza, come se volessero penetrare il futuro, forzare la verità che si celava dietro il suo nuovo destino.

Il conclave era finito. La sua elezione era ormai ufficiale. Papa Innocenzo XIV. Un nome che ancora suonava estraneo alle proprie orecchie. Aveva sempre pensato che non fosse la sua strada, che non sarebbe mai arrivato a quella posizione. Eppure, ora quel titolo era suo, come una veste che non riusciva a togliersi.

Il peso della responsabilità gli gravava sulle spalle come un macigno. La scelta era stata fatta, la decisione definitiva. Il tempo di riflettere era scaduto. Era diventato la massima autorità della Chiesa

Con uno sguardo spento, il neo eletto si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra. Le luci della città si riflettevano sulle pietre antiche del Vaticano, quasi come se il mondo fuori fosse pronto a piegarsi alla sua volontà. Ma lui non lo sentiva. Non avvertiva quel potere che tutti si aspettavano da lui.

“Perché io?” pensò. “Sono davvero pronto per tutto questo?”

Poi, un passo dietro di lui.

“Santità”

Era Lawrence. Il cardinale che da sempre lo aveva accompagnato, il suo sostenitore più fidato.

Vincent si voltò lentamente. Sapeva che la sua risposta non sarebbe arrivata dalle parole, ma dalla forza con cui avrebbe affrontato quel momento. Era il suo destino, e non c’era più tempo per fuggire.

“Sono pronto, Lawrence. Non c’è altro da fare”

In quel momento, Vincent accettò finalmente il peso del pontificato. Il tempo delle decisioni era scaduto. Ora, doveva solo camminare lungo il cammino che gli era stato affidato.


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Il sole filtrava appena tra le tende pesanti del Palazzo Apostolico, dipingendo di luce dorata le ombre della stanza. Lawrence si fermò sulla soglia, lo sguardo fisso sulla esile figura seduta davanti alla finestra. Era ugualmente abbagliante nella sua apparente semplicità.

Vincent, anzi Papa Innocenzo, lo sentì ma scelse di non voltarsi. La sua voce, come sempre, era flebile ma nitida.

“E’ strano, Lawrence. Mi sento come se non avessi più tempo… eppure mi sembra di esserne immerso”

Il cardinale abbassò lo sguardo, le mani strette dietro la schiena.

“Tutto è in attesa, Santità. Il mondo, la Chiesa… noi”

Un imbarazzante silenzio cadde tra loro, carico di parole non dette, segreti che solo i presenti potevano conoscere. Mani sfiorate, sussurri, un’intimità da poco scoperta e alla quale troppo presto avevano dovuto rinunciare. 

“Un tempo ero convinto che la fede fosse fatta di certezze,” esordì Vincent.

“Ora so che è fatta di attese. Di vuoti. Di scelte che non vedranno mai il frutto” pronunciò queste parole abbassando gli occhi e abbandonandosi ad un sospiro stanco pregno di rassegnazione. Sapeva a cosa aveva rinunciato accettando il soglio pontificio. Ad un amore appena sbocciato.

Lawrence fece un passo avanti. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma ogni parola sembrava profanare quell’istante così fragile.

“Non avere fretta,” aggiunse all’improvviso Vincent rivokgendogli il solito sorriso calmo, accomodante.

“Questo è il momento più sacro per avere fede. Il tempo sospeso. La chiesa ha trovato una nuova guida e le novità sono accompagnate della paura” 

Finalmente, Vincent si voltò. I suoi occhi, stanchi e limpidi, si posarono su Lawrence con una dolcezza infinita.

“E tu? Sei pronto a restare immobile, quando tutti correranno?” Resterai al mio fianco come lo sei stato fin ora?

Lawrence non rispose. Solo allora capì che il tempo sospeso non era attesa. Era un giudizio.


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