Cowt-14 Sesta Settimana - M4 Viaggio
Fandom: Jujutsu Kaisen
Numero parole: 9096
Note: Viaggio inteso come viaggio di Satoru nella consapevolezza di non poter salvare Suguru, ma anche viaggio nel tempo visto che ritorna nel passato con la speranza di poter cambiare le cose.
Il tempo non ha odore.
Non ha sapore, né forma.
Eppure, mentre tutto dentro di lui si sgretolava, Satoru Gojo avvertiva su di sé il peso di ogni secondo, come se gli fosse stato cucito addosso. Aveva il vago retrogusto di un viaggio, un’escursione verso l’ignoto.
La Prigione Astrale nella quale era riunchiuso appariva silenziosa. Non il silenzio pieno della quiete, ma quello vuoto dell’assenza. Nessuna voce, nessun suono. Solo lui, e il ricordo di tutto ciò che aveva perso.
Suguru.
Quel nome gli si formò sulle labbra senza che ne fosse consapevole. Un riflesso involontario, come il battito del proprio cuore.
Ogni volta che lo pronunciava nella mente, qualcosa dentro di lui si tendeva, come una corda sull’orlo dello strappo. Era il peso del proprio rimpianto, il rimorso per non averlo salvato.
«Se potessi tornare indietro…»
Lo aveva pensato tante volte. Troppe. E ora che il suo corpo era imprigionato in un guscio senza tempo, quel pensiero si era fatto più reale di qualsiasi altra cosa.
Il tempo non si piega, non si può modificare né alterare. O almeno, così aveva sempre creduto.
Poi venne la luce. Un lampo accecante, come se l’universo stesso avesse deciso di rispondere a un desiderio mai detto ad alta voce. Il suo potere, unito alla maledizione di Kenjaku, si ribaltò su sé stesso e quando riaprì gli occhi, il mondo era ancora lì. Ma qualcosa era diverso.
I capelli non gli cadevano più sulle spalle. Le mani erano più piccole. Il corpo più leggero.
La voce che gli rispose allo specchio era quella di un ragazzo.
«Bentornato, Satoru.»
Si trovava nell’antico dormitorio dell’Istituto.
E poco più in là, nel corridoio, una voce familiare rideva, ignara del tempo, ignara di tutto.
Era Suguru Geto.
Passi. Quell’andatura l’avrebbe riconosciuta ovunque. Suguru non camminava: scivolava, come se il mondo intero fosse stato fatto per lasciargli spazio. La sua risata risuonava contro le pareti del dormitorio, così giovane, così viva. Così lontana dall’eco cavernosa e spezzata che Satoru aveva udito l’ultima volta. Sembrava un sogno, doveva per forza esserelo. La stanza girò appena. Non per effetto della tecnica. Era il proprio cuore. Il rimorso. La memoria.
Satoru si appoggiò alla parete, chiudendo gli occhi. Inspirò a fondo, come se potesse trattenere quel momento dentro di sé, imprigionarlo prima che svanisse. Era lì. Era veramente lì. Ogni suo senso glielo confermava. Mentre Suguru…
Suguru era ancora se stesso. Non aveva ancora guardato un bambino e visto un errore. Non aveva ancora pronunciato quelle parole.
“Gli umani deboli non meritano salvezza.”
Eppure Gojo le sentiva già, sospese nel tempo come un ronzio ossessivo. Gli rimbalzavano nel petto, tra le costole, come spine. Aveva avuto il potere per fermarlo. Il potere per salvarlo e invece aveva voltato le spalle, convinto che ci sarebbe stato tempo, modo di rimediare, che Suguru sarebbe tornato indietro da solo.
Che sarebbe bastato aspettare.
Aveva sbagliato. Aveva fallito. Era quel peso a consumarlo, a guidare ogni sua azione.
«Se ti parlo adesso… rovino tutto?»
La domanda gli uscì in un sussurro, non era diretto a nessuno in particolare. A se stesso, forse. O alla versione del tempo che aveva osato sfidare.
Sapeva di camminare su un filo sottile. Il solo parlare troppo, svelare troppo, sentire troppo… poteva frantumare quel presente come vetro.
Ma come si faceva a restare in silenzio, quando tutto dentro di lui urlava?
Quando ogni risata di Suguru gli tagliava la pelle come una lama, perché sapeva che da lì a poco quelle risate sarebbero sparite?
Gojo si voltò lentamente, il cuore tamburellante nel petto. Finalmente lo vide. Suguru, in piedi, un panino in mano, la divisa un po’ stropicciata, l’aria scanzonata.
«Satoru?»
Lo sguardo si accese. Come sempre. Il cuore fece un paio di capriole spezzandogli il respiro.
«Hai una faccia… strana. Tutto ok?»
Gojo cercò di rispondere. Di sorridere. Di essere lui, il sé di quel tempo, anche se il dolore era troppo vicino alla superficie. Sapeva che si sarebbe tradito, prima o poi.
«Sai, Suguru…» La voce gli tremò, come ogni volta che si trovava a sussurrare quel nome.
«Se avessi solo un’altra possibilità…» si lasciò scappare.
Geto lo guardò, inclinando la testa, incuriosito.
«Eh? Di fare cosa?» Gojo abbassò gli occhi.
«Di non perderti.» ammise con sincerità non riuscendo a trattenersi.
«Di non perdermi?» Suguru smise di sorridere. Il panino restò sospeso a metà strada tra la mano e la bocca, come se quelle parole avessero interrotto il tempo anche per lui. Lo guardò con un’espressione che Gojo non vedeva da anni — attenta, silenziosa, piena di quella percezione acuta che aveva sempre nascosto dietro un’aria tranquilla.
«Satoru, che ti prende? Hai fatto un sogno brutto o qualcosa del genere?» indagò.
Gojo abbassò lo sguardo. Non poteva dirglielo. Non doveva dirglielo. Ogni sua parola rischiava di creare una frattura, ogni confessione un effetto domino di eventi imprevedibili.
Eppure, stargli di fronte e fingere che tutto fosse normale… era come soffocare a ogni respiro.
«Scusa,» mormorò. «Sono solo… stanco, tutto qui.»
Suguru non rispose subito. Lasciò il panino sul davanzale e si avvicinò. Gli occhi scuri lo scrutavano come se volessero leggere qualcosa che non veniva detto, qualcosa che si muoveva sotto pelle.
«Ti conosco, Satoru. Sei strano, ma non così strano.»Gojo sorrise, amaramente. Geto era l’unico a conoscerlo così intimamente.
«E allora cosa sono oggi? Uno strano più uno?»
Suguru lo guardò ancora, poi si mise a ridere. Una risata vera, piena, che per un istante cancellò ogni cosa. Gojo la assorbì come una medicina, come ossigeno e allo stesso tempo, gli fece male.
Era la risata di un uomo che non sapeva ancora quanti morti avrebbe sulle spalle. Quanta oscurità lo avrebbe divorato. Era come trovarsi in un sogno, un deja-vu. Un viaggio senza ritorno del quale conosceva ogni tappa, compreso l’amaro finale.
«Qualunque cosa tu abbia sognato, non succederà. E anche se dovesse accadere..beh tu non mi perderai mai, Satoru.»
Geto si avvicinò e gli diede un colpetto sulla spalla. Anche quel tocco era così vero, familiare, nostalgico.
«Siamo troppo forti per perderci, no?»
Quelle parole lo colpirono più di qualsiasi maledizione.
Erano vere.
Nel passato, nel presente, in quel momento.
Quello che gli fece più male era che Suguru lo credeva davvero.
Gojo chiuse gli occhi e, in silenzio, giurò che avrebbe riscritto tutto.
Avrebbe protetto quella luce, anche a costo di spegnere la propria. Stava iniziando a comprendere lo scopo di quel viaggio, il senso della propria missione.
***
La sera calò in fretta sull’Istituto.
Dalla finestra del dormitorio, Satoru Gojo osservava i tetti annerirsi nel cielo di Kyoto, mentre le luci delle stanze si accendevano una a una come stelle artificiali.
Dietro di lui, la stanza era silenziosa. Nessuna voce, nessun rumore. Solo il battito del proprio cuore e il peso dei pensieri.
“Non mi perderai mai.”
Quelle parole gli tornavano alla mente come un’eco ossessiva. Eppure, ogni fibra del suo corpo sapeva già che era una bugia.
Non perché Suguru stesse mentendo, ma perché il futuro esisteva già nella sua memoria — scolpito, definito, inevitabile.
A meno che non lo cambiasse.
Gojo si lasciò cadere sul letto, le braccia spalancate, lo sguardo fisso sul soffitto.
Sentiva il peso del suo stesso corpo come se fosse fatto di piombo. Ma non era il fisico a pesargli. Era la propria mente.
Pensieri ricorrenti sul passato. Il futuro. Il fatto che adesso si trovasse nel mezzo, e che ogni sua azione potesse riscrivere tutto. Modellare la storia, i destini di tutti loro.
“Da dove si comincia a salvare una persona?”
Geto Suguru non era crollato in un solo giorno.Non c’era stato un unico errore, una sola crepa.
Era stato un lento e progressivo sgretolarsi. Missione dopo missione, perdita dopo perdita. Il primo era stato Haibara. Solo a pensare a quel nome, qualcosa si strinse nel petto di Satoru.
Gojo ricordava perfettamente quella missione, così come la telefonata che ne era seguita. Rammentava la faccia di Nanami, così giovane e distrutta, e quella di Suguru, già distante, già sull’orlo, pronto a gettarsi in quel precipizio.
Fu uno dei primi passi. Uno dei chiodi nella bara.
“Se salvo Haibara, cambia qualcosa?” Fu il suo primo pensiero.
“Oppure…”
Si voltò, affondando il viso nel cuscino.
“…rischio solo di accelerare la fine?”
La consapevolezza che quell’ipotesi fosse troppo fragile lo paralizzava.
Avrebbe potuto distruggere tutto.
Creare un futuro ancora peggiore ma non agire significava lasciare che Suguru cadesse di nuovo.
E lui non lo avrebbe sopportato.
Non una seconda volta. Non che avvenisse davanti ai suoi occhi.
Fu in quel momento che decise.
Avrebbe osservato. Studiato ogni variabile per poi agire solo al momento giusto, nel punto esatto in cui l’equilibrio poteva essere spezzato senza collassare.
Era una partita a scacchi con il destino e Gojo, per la prima volta, non era sicuro di vincere.
***
La porta dell’infermeria era socchiusa.
La luce al neon crepitava piano, come se anche lei stesse cercando di non svegliare nessuno.
Shoko Ieiri sedeva su uno sgabello, una sigaretta accesa tra le dita e lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Non si voltò quando lo sentì entrare.
«Non sapevo che fossi ancora sveglia,» disse Gojo, cercando di tenere la voce leggera e assumere un tono vago, quasi distaccato.
«Non sapevo che tu sapessi bussare,» ribatté lei, senza alzare lo sguardo.
Un silenzio familiare calò tra loro. Non era disagio. Era solo il modo in cui comunicavano: attraverso pause, mezze parole e tutto ciò che restava non detto.
Satoru si sedette di fronte a lei. Guardò la sigaretta consumarsi lentamente. Gli sembrò una perfetta metafora di quello che sentiva dentro: qualcosa che bruciava piano, ma inesorabilmente. La ragazza se la riportò alle labbra e tutto finì così come era iniziato.
«Shoko…» La voce gli uscì più bassa del previsto.
«Tu credi che si possa davvero salvare qualcuno, se… se sta già cadendo?» Lei lo guardò finalmente. Niente ironia, niente cinismo. Solo stanchezza. Comprensione.
«Dipende da quanto sei disposto a farti male per provarci.» Satoru abbassò lo sguardo. Colpito e affondato.
«E se lo avessi già perso una volta?» la donna inspirò lentamente, come se quella domanda fosse un bisturi da maneggiare con cura prima di un’operazione.
«Allora sai già quanto fa male. Ma ci riproveresti lo stesso, vero?» Gojo scelse di non rispondere subito.
«Non posso restare a guardare,» mormorò. «Non di nuovo. E se anche cambiasse tutto, se mi costasse ogni cosa… non importa.»
Shoko spense la sigaretta.
«Non parli di qualcuno qualsiasi. Parli di Suguru.» decreto con serata. Gojo alzò lo sguardo di scatto, sorpreso. Shoko lo conosceva troppo bene, era sempre stato un libro aperto per lei.
«Non so cosa stai cercando di fare, Satoru. Ma se stai tentando di riscrivere qualcosa… stai attento. A volte, per salvare qualcuno, rischi di perderti tu.»
Gojo si passò una mano tra i capelli, poi rise piano. Una risata amara, vuota.
«Shoko… io mi sono già perso.» e quel viaggio nel era la prova.
***
La pioggia cadeva fine, quasi invisibile, ma c’era nell’aria quella sensazione sottile di elettricità che Gojo aveva ormai imparato a riconoscere.
Lui la chiamava banalmente “l’istante prima che tutto andasse a puttane”
E in quella notte, ne sentiva il sapore.
Dall’alto dell’edificio abbandonato, il possessore del Minimo infinito osservava la scena sotto di sé con attenzione chirurgica.
Haibara, vivace come sempre, parlava a raffica.
Nanami, al suo fianco, lo ignorava con stoica rassegnazione.
«Dài, Kento, non sei un po’ emozionato? È la nostra prima missione davvero da soli!»
«È solo una classe due,» rispose Nanami, senza voltarsi. «Non c’è nulla di emozionante nella possibilità di morire.» Gojo li fissò in silenzio.Quelle parole le ricordava bene. Fin troppo.
In passato, erano diventate un presagio. Un’oscura previsione di morte.
Si strinse nel proprio giaccone. Il vento gli pungeva il volto, ma il freddo vero era dentro. Ciò che provava nel proprio animo. Era la consapevolezza di essere lì, così impotente di fronte al destino
Non poteva intervenire apertamente, non ancora. Doveva capire come cambiare le cose senza far crollare l’intero castello di carte che si era formato intorno a lui.
“È qui che succede. È questa la missione.”
Un’informazione sbagliata. Una maledizione più potente del previsto.
Nanami che si salverà per miracolo mentre il povero Haibara no.
Gojo chiuse gli occhi. Prese un lungo respiro. Per un istante, fu di nuovo lì. In quel obitorio. Ricordò il lenzuolo sporco di sangue e la voce spezzata di Suguru.
La furia. Il dolore.
E poi, il silenzio. Quel vuoto che non se n’era mai andato.
Aprì gli occhi di scatto.
“No. Questa volta no.”
Non lo avrebbe lasciato accadere.
***
Mentre Nanami e Haibara si inoltravano nel complesso, Gojo scese dal tetto utilizzando la propria abilità. Nessuno lo notò. Si mosse tra le ombre come un guardiano invisibile, pronto a intervenire.
Non doveva solo salvare Haibara. Doveva capire il punto esatto in cui tutto cominciava a rompersi, sgretolarsi. Perché solo allora, in quel preciso istante, avrebbe potuto provare a ricostruirlo. Un nuovo futuro, un avvenire diverso per tutti loro.
***
Il giorno dopo
La mattina era grigia. Non pioveva, ma il cielo sembrava trattenere le lacrime.
Suguru Geto era seduto sulla panchina, fuori dall’aula di addestramento, con lo sguardo perso nel vuoto.
Le mani giacevano inattive sulle ginocchia.
Non leggeva, non scriveva, non parlava.
Solo… restava. Immobile, schiavo dei propri pensieri
Gojo lo osservava da lontano, appoggiato contro una colonna.
Una parte di lui avrebbe voluto correre lì, strattonarlo, urlargli addosso che era ancora tutto intero. Che Haibara era vivo. Che non era ancora troppo tardi.
Ma un’altra parte, quella che aveva imparato troppo presto il linguaggio del tempo, dell’imprevisto, sapeva che non funzionava così. Sarebbe stato troppo bello. Un sogno, un’utopia.
La frattura però non era visibile. Era sotto pelle. Nel modo in cui Suguru teneva le spalle un po’ più curve. In quel suo respiro che sembrava trattenuto, come se non volesse più espandersi del tutto. Gojo si mosse piano, avvicinandosi. Si sedette accanto a lui senza dire una parola. Per un po’, rimasero solo così.Due ragazzi in silenzio. Due amici con un futuro spezzato che forse, solo forse, poteva ancora essere ricucito.
«Haibara sta bene,» sussurrò Satoru.
Suguru annuì ma senza guardarlo.
«Lo so. Nanami me l’ha detto.»
Seguì un’altra pausa. Poi, come se le parole fossero scivolate fuori da sole:
«Ma non è questo.» Gojo lo fissò.
«Cosa intendi?»
Suguru si voltò verso di lui. Il suo sguardo era limpido. Dolorosamente trasparente.
«È tutto il resto.»
Gojo non rispose.
Si limitò a restargli accanto, sentendo il peso di ogni secondo che passava. Perché forse, in quel momento, quello che Suguru cercava non erano soluzioni ma qualcuno che restasse, anche quando tutto iniziava a tremare.
Geto abbassò lo sguardo.
Le dita giocherellavano con il bordo della manica, un gesto così piccolo, così umano, che Gojo ne fu trafitto.
Era come vedere la maschera iniziare a scivolare.
«Satoru…» disse piano.
«Non ti è mai sembrato tutto sbagliato?»
Gojo trattenne il respiro.
Quel tono. Quella domanda.
L’aveva già sentita.
Nel futuro.
Nel momento in cui tutto era ormai perduto.
«Ti riferisci agli incarichi?» provò a chiedere, cercando di mantenere la voce neutra.
Ma Suguru scosse la testa.
«Mi riferisco a noi. A quello che ci chiedono di essere. Di fare. Di sopportare.»
Si voltò lentamente verso di lui.
Lo sguardo era serio, ma non ancora rotto.
C’era passione, frustrazione. Un fuoco che non bruciava per distruggere, ma per cercare senso.
«Noi salviamo le persone… anche quelle che non fanno altro che generare maledizioni. Quelle che odiano gli stregoni. Quelle che ci userebbero come cani da combattimento, se potessero.»
Gojo non disse nulla. Il ricordo di Amanai Riko impresso a fuoco nella propria memoria. Il suo sorriso, la sua voglia di vivere.
Suguru continuò, come se la diga fosse stata appena scalfita.
«Ogni giorno mettiamo a rischio la nostra vita per proteggere chi non ci capisce. Chi non sa. Chi non vuole sapere.
E quando perdiamo qualcuno, non c’è nessuno che venga a chiederci come stiamo. Nessuno che ci dica: avete fatto abbastanza.»
Le parole si conficcarono come lame.
Gojo si ritrovò a stringere i pugni, senza accorgersene.
Perché aveva ragione.
Aveva così dannatamente ragione.
Ma non era quella la strada.
Doveva trovare il modo di dirglielo. Di farglielo sentire.
«Suguru,» disse con voce roca.
«Tu non sei solo. Qualsiasi cosa pensi… io ci sono. Sempre.»
Geto gli sorrise ma fu un sorriso triste, stanco. Non cinico. Solo… rassegnato.
«Lo so. Ma non basta, Satoru. Tu da solo non puoi salvare il mondo. E io… io sto iniziando a non volerlo più salvare.»
Sei il più forte perchè sei Gojo Satoru o sei Gojo Satoru perchè sei il più forte?
Bastava un niente per ricadere nell’abisso.
***
L’aria era immobile, come sospesa in una bolla di vetro.
Gojo sedeva sul tetto dell’Istituto, le gambe penzoloni nel vuoto e gli occhiali appoggiati accanto a lui. La notte gli si stendeva addosso come un manto pesante, trapunta di stelle che non bastavano a fare luce sul caos che aveva dentro.
“Non voler più salvare il mondo.”
Le parole di Suguru gli risuonavano nelle ossa. Satoru si passò una mano sul viso, di riflesso. Era stanco. Non fisicamente, quello non succedeva quasi mai, ma in un modo che non sapeva descrivere e che non aveva ancora sperimentato.
Come se ogni secondo trascorso in questo passato lo allontanasse un po’ di più da se stesso. Come se fosse un’eco di qualcosa che non poteva più essere.
Satoru aveva sempre pensato che, tornando indietro, sarebbe stato tutto chiaro. Che avrebbe trovato il momento esatto in cui salvare Suguru. Che avrebbe cambiato il corso degli eventi con la stessa facilità con cui apriva una barriera.
Ma non era così.
Era tornato con la consapevolezza del futuro, quello sì.
Con il dolore inciso a fuoco nelle proprie viscere.
Ma ogni parola, ogni sguardo, ogni silenzio… erano pieni di sfumature che non aveva mai visto prima.
E lui, beh semplicemente lui non era più lo stesso ragazzo.
Si era trasformato in un uomo che aveva perso troppo. Uno stregone che aveva guardato la fine in faccia. Un uomo che aveva ucciso il suo migliore amico con le proprie mani, e che adesso sedeva accanto a un Suguru ancora intatto, ancora pieno di crepe non ancora esplose. Come voleva salvarlo da quel baratro ma non sapeva davvero come allontanare tutte quelle ombre che, all’improvviso stavano ricadendo su di loro.
«Perché mi hai dato questa possibilità?» sussurrò nel vuoto, senza sapere bene a chi stesse parlando.
A Tengen? A Dio? A se stesso? O forse a quel folle di Kenjaku che aveva sfruttato la propria debolezza per imprigionarlo.
«E cosa succederebbe… se anche questa volta fallissi?» ripensò al sorriso di Suguru, a quell’estate del loro primo anno, alla propria giovinezza ormai sfiorita.
Il vento non rispose ma Gojo sentì qualcosa muoversi dentro.
Una determinazione silenziosa. Una ferita che bruciava, sì, ma che pulsava ancora di vita. Non era ancora finita; non poteva assolutamente permettersi di cadere.
Non questa volta.
«Non salverò solo Suguru,» mormorò, serrando le mani.
«Salverò anche me stesso» non vivrò nel rimorso, col peso di non aver fatto nulla per impedire il disastro.
Quando scese dal tetto, l’aria era ancora carica di silenzio.
I corridoi dell’Istituto erano deserti. La notte si era fatta più cupa, ma Gojo sentiva una chiarezza diversa nel petto.
Non era speranza quanto più un bisogno.
“Se lo lascio solo anche ora… se faccio finta di non vedere…” le cose torneranno come prima, Suguru passerà all’oscurità e sarò costretto a separarmi da lui.
Non poteva. Non avrebbe rinunciato al proprio migliore amico.
Non dopo tutto quello che sapeva.
Si fermò davanti alla stanza di Suguru. La porta era socchiusa.
Un dettaglio piccolo, ma per lui importante. Suguru non lasciava mai le cose a metà per caso.
Satoru bussò appena con le nocche.
Non ottenne nessuna risposta. Solo il fruscio lieve di un libro sfogliato.
«Posso entrare?» La sua voce era bassa, quasi esitante. Diversa dal solito, carica di una nuova preoccupazione data dalla consapevolezza di conoscere ciò che stava per accadere.
«Sei già qui, no?» Il tono di Suguru era pacato. Ma non freddo.
Era come se lo stesse aspettando. Gojo si fece coraggio e spinse la porta.
La stanza era illuminata da una luce fioca. Geto era seduto per terra, la schiena appoggiata al letto, un libro aperto sulle ginocchia.
«Non dormi?»
«Nemmeno tu.» Suguru chiuse il libro, senza guardarlo.
«Che vuoi, Satoru?» Gojo esitò. C’erano mille parole che gli bruciavano sulla lingua, ma nessuna sembrava adatta. Alla fine rispose solo;
«Voglio esserci.» Suguru lo guardò per la prima volta quella notte per poi chinare il capo.
«Sei sempre stato lì. Non è questo il problema.»
Gojo scosse energicamente la testa. Geto aveva frainteso le sue intenzioni. Si avvicinò, si sedette accanto a lui sul pavimento, come facevano da ragazzi. Come se il tempo non fosse passato. Solo lui sapeva quanto tempo fosse trascorso da quei giorni felici, spensierati.
«No. Non c’ero. O non nel modo giusto. Ti ho guardato spegnerti, giorno dopo giorno, e ho fatto finta che fosse colpa tua. La verità però è un’altra Suguru, era anche colpa mia.»
Geto non disse nulla.
Il silenzio tra loro era denso, ma non ostile. Gojo continuò, più piano;
«Sono tornato indietro, ho iniziato questo viaggio pensando di salvarti. Ma forse… forse devo prima imparare ad ascoltarti.»
Suguru chiuse gli occhi.
Inspirò.
Poi si lasciò andare contro il bordo del letto, le spalle che sembravano cedere per un momento.
«È la prima cosa sensata che dici da giorni, inoltre sei finalmente tornato a parlarmi» grazie ne avevo bisogno
Un accenno di sorriso, seppur stanco, sfiorò le sue labbra.
E in quel frammento sospeso nel tempo, Gojo sentì che forse qualcosa stava cambiando, c’era uno spiraglio, un barlume di speranza che avrebbe continuato ad alimentare con tutte le proprie forze.
«Sai qual è la cosa che odio di più?» La voce di Suguru era un filo, ma tagliente.
Gojo lo guardò, aspettando. Voleva comprendere Geto, le ragioni che lo avevano spinto in quell’oblio.
«Che la gente muore… e tutto continua uguale. Come se niente fosse. Come se non fossero mai esistiti.» Gli occhi di Suguru in quel momento erano fissi sul vuoto anche se Gojo capiva benissimo dove stava guardando.
Il volto di Haibara, il suo sorriso. La risata che ancora gli riecheggiava nella memoria. Il pensiero di perdere un amico, una persona cara, così, da un giorno all’altro avrebbe scosso chiunque.
«E allora mi chiedo,» continuò Suguru, «a cosa serve salvare le persone, se poi ci dimenticano? Se ci usano? Se diventiamo solo numeri in un registro?»
Gojo si passò una mano tra i capelli. Non aveva risposte.
Ma forse… forse non era quello che Suguru voleva.
Forse, in quel momento, l’amico desiderava solo essere visto, ascoltato.
«Io non ti ho dimenticato» Le parole uscirono quasi a bassa voce, un sussurro che sembrava fragile ma aveva il peso di anni fatti di silenzio, solitudine, colpa.
Suguru si voltò verso di lui.
Non disse nulla, mentre Gojo, per la prima volta da quando era tornato indietro, decise di non riempire quel silenzio.
Lasciò che restasse. Che li avvolgesse. Che parlasse per loro.
Per qualche minuto, rimasero così.
Due ragazzi che avevano visto troppo, sentito troppo, perso troppo. che, nonostante tutto, erano ancora lì.
Poi, all’improvviso si udì un suono secco.
Un ronzio. Un sibilo. Una vibrazione nell’aria. Gojo si alzò di scatto. Suguru lo seguì con lo sguardo, la stanchezza che lasciava il posto all’istinto.
«Che succede?» domandò
«Non lo so ancora, ma non è niente di buono»
Gojo indossò i propri occhiali con un gesto rapido. Sentiva una maledizione avvicinarsi.
Forte. Insolita. Si voltò istintivamente verso Suguru.
Lo sguardo fermo.
Non da stregone. Da amico.
«Andiamo gli propose con un cenno del capo.
Suguru annuì. Una sola volta. Ma fu abbastanza. Erano i due studenti più forti. Insieme nessuno avrebbe mai potuto competere con loro.
***
Il silenzio nel cortile divenne opprimente. L’aria vibrava di una tensione che andava oltre ogni maledizione che Gojo avesse mai incontrato. Non c’era nessun suono, nessuna energia. La distorsione era appena percettibile, come una presenza che stava al di là di ogni forma di maledizione conosciuta.
Gojo respirò profondamente, le sue mani si stringevano a pugno. Era consapevole di quanto fosse pericoloso tornare indietro nel tempo, di come ogni mossa potesse alterare il fragile equilibrio che aveva cercato di mantenere. Eppure, era lì. In quel momento. Di fronte ad un qualcosa che non avrebbe mai potuto prevedere.
Un’ombra più profonda si staccò dalla nebbia, avvolgendo tutto intorno a loro. Gojo non la vide, ma la percepì. Una frustrazione che si mescolava alla paura. La paura di aver cambiato qualcosa che non avrebbe dovuto essere toccato.
“Se il passato è una ferita che non guarisce mai, cos’è che sto cercando di fare?”
La domanda rimbombava nella sua mente. Tornare indietro nel tempo per salvare Suguru. Aveva intrapreso quel folle viaggio per impedire la sua caduta nel buio. Eppure, cosa significava davvero tutto ciò?
Geto si mosse accanto a lui, ma Gojo non lo guardò. Il suo sguardo era fisso nell’oscurità, in quel vuoto che sembrava inghiottire ogni cosa.
L’ombra davanti a loro iniziò a prendere forma. Non era una maledizione che conoscevano. Non c’era il classico, malvagio sfogo di potere. Era una presenza che sembrava appartenere a una dimensione parallela, come se il tempo stesso, la realtà fossero state lacerate e ciò che ne restava solo un riflesso distorto.
Gojo sentiva che questa non era una battaglia come le altre. La sua energia pulsava in modo diverso, la sua stessa forza gli sembrava distante, come se l’universo non fosse più d’accordo con la sua presenza. Eppure doveva combattere. Doveva fermare ciò che minacciava di distruggere tutto, a qualunque costo.
“E se fossi io l’errore?”
Questa volta la voce era sua, ma sembrava provenire da un altro posto. Un angolo oscuro della sua mente che non aveva mai voluto esplorare. Un pensiero che rifiutava, come un seme che sin dal primo istante si era impiantato dentro di lui ed ora stava germogliando, alimentando i suoi dubbi e insicurezze.
Suguru lo guardò, percependo la sua lotta interiore. «Satoru, che sta succedendo?»
Gojo non rispose. Non c’era più tempo per le parole. Lo avvertiva.
Il vuoto davanti a loro si fece più profondo. La figura oscura si manifestò completamente, ma non era mai stata una minaccia fisica. Era solo… presenza. Un’entità senza forma, che trascendeva ogni logica o comprensione. Ogni passo che faceva sembrava smuovere il flusso del tempo e la realtà stessa, e Gojo sentiva un brivido di pericolo che non riusciva a catalogare.
Quella presenza gli stava parlando, non con le parole, ma con il suo stesso essere.
Un messaggio che non poteva decifrare, ma che avvertiva nel profondo.
Il filo tra lui e il passato si stava spezzando, e quella entità ne era consapevole. Il proprio viaggio stava forse giungendo al termine?
Gojo si mise in posizione, pronto a combattere, ma i suoi occhi erano distanti, persi nei propri pensieri.
“Se davvero avessi il potere di fermare tutto questo… potrei davvero cambiare la storia? O solo accelerare la sua fine?”
Il pensiero lo assaliva, mentre una sensazione di nausea lo prendeva. Una paura, un dubbio che non era mai stato abituato a provare. Ma ora c’era, era presente, ogni fibra del suo corpo lo avvertiva con una forza travolgente.
Suguru gli stava accanto. La sua presenza era solida, come sempre.
Era il suo punto di riferimento. La sua ancora morale e fisica.
«Satoru,» disse Geto, fermandosi al suo fianco. «Non dimenticare che non siamo soli. Se c’è una via d’uscita, la troveremo insieme.»
Gojo chiuse gli occhi per un attimo. La sua mano si staccò dalla sua fronte, pronta a scatenare il Limitless, ma il peso dell’incertezza lo fermò. L’unica certezza che aveva mai avuto era il suo potere. Ma adesso?
La maledizione davanti a loro iniziò a muoversi, e con essa il tempo stesso sembrava piegarsi. Gojo sentiva un dolore acuto nella testa, come se stesse scontrandosi con qualcosa di più grande della sua stessa forza. Ogni passo che faceva era una lacerazione nel tessuto del passato.
«Non posso più scappare,» pensò.
Eppure, in quel momento, il peso della sua responsabilità si fece più chiaro. Forse non avrebbe mai trovato la risposta, forse il suo viaggio nel passato non avrebbe mai potuto annullare tutto. Ma aveva scelto di essere qui. E ora doveva affrontare il futuro, qualsiasi esso fosse, con quella consapevolezza.
Gojo fissò la figura che si stava avvicinando e, per la prima volta, accettò la propria vulnerabilità.
E il suo potere, una volta incontrato il vuoto, esplose.
Satoru alzò la mano, il Minimo Infinito esplose con una potenza che avrebbe schiacciato chiunque. Ma qualcosa non andò come previsto. Non vi fu la reazione immediata che si aspettava, la solita distorsione dello spazio che lo avrebbe messo al sicuro. Il suo potere sembrava dissolversi nell’aria come polvere. La maledizione davanti a lui non era una semplice manifestazione di energia negativa, ma un’entità che sfidava le leggi stesse della fisica e della realtà.
L’oscurità che si stagliava davanti a lui non si mosse, non tremò nemmeno. La distorsione non si dissipò. Solo il silenzio. E un’ombra che sembrava allungarsi, come se il tempo stesso stesse venendo inghiottito dalla sua forma indefinita.
Gojo sentì un brivido lungo la schiena, come se qualcosa stesse stringendo la sua stessa anima. Il potere che aveva sempre usato con facilità non funzionava. Un malessere gli pervase la mente, ma la sua concentrazione rimase ferma. Non era solo il suo potere fisico a essere messo alla prova, ma la sua stessa esistenza. Era come se la maledizione stesse cercando di manipolare il suo concetto di essere.
Il tempo… Forse lo stava distruggendo. La voce sembrava sussurrare in ogni angolo della sua mente. Ogni parola si faceva più opprimente, ogni pensiero si dissolveva. Lui era un intruso in quel mondo, aveva salvato Haibara, provando a modificare il corso degli eventi. Quella doveva essere la sua punizione.
Suguru, al suo fianco, percepiva lo stesso peso. «Satoru! Devi farlo ora, non possiamo permetterci di perdere il controllo!»
Gojo scosse la testa. La sua mente era in tumulto, ma ora doveva rispondere. Non poteva lasciarsi sopraffare. Non poteva permettere che il suo stesso essere venisse annientato da un’ombra, che fosse una maledizione o meno.
“Non posso essere debole. Non posso. Non posso permettere a me stesso di perdere questa battaglia… Non posso permettere a lui di avere la meglio.”
Il pensiero di Suguru lo spingeva. La sua presenza, lì accanto, lo riportava alla realtà. Un legame che era sempre stato più forte della distanza o del tempo. Il suo amico, il suo compagno, la persona che aveva sempre creduto nel suo potere. Suguru….
Gojo fece un passo in avanti, il suo respiro profondo. Si concentrò. Il Limitless non era solo il suo potere, non era solo una barriera. Era la sua essenza, la sua volontà di esistere oltre le leggi che imprigionavano il mondo. Alzò le mani con determinazione.
La maledizione, percependo l’intensità dell’energia che stava liberando, sembrò reagire. La figura nera cominciò a contorcersi, l’oscurità intorno a loro pulsava, ma non abbastanza da fermare Gojo. Non abbastanza da annientare la sua presenza.
“E se fosse troppo tardi?”
Il pensiero tornò a tormentarlo. Un fremito di paura lo attraversò. Ma poi si fermò. Non c’era tempo per i dubbi. Non ora. Non mai.
“Dai… dobbiamo farcela,” mormorò, con gli occhi brillanti di determinazione.
Un’esplosione di energia avvolse il cortile. Le mani di Gojo si alzarono come un faro in mezzo all’oscurità, e il bagliore scaturito dal Minimo Infinito si espanse, non più come una barriera, ma come un’ondata devastante che attraversava il tempo stesso. Ogni angolo del cortile, ogni centimetro, venne invaso dalla sua energia.
L’ombra urlò, non in un linguaggio comprensibile, ma come un’eco che risuonava nel cuore di Gojo. La maledizione cercava di resistere, ma più provava a spingersi oltre, più sembrava lacerarsi.
Satoru sentiva la propria mente annebbiata dalla potenza del suo stesso potere, ma non si fermò. Era come un fiume in piena, una forza che non poteva essere contenuta né trattenuta.
«Suguru!» gridò, mentre il suo potere si scatenava. «Ti ho detto che non possiamo fermarci. Questo è il nostro momento!»
Geto, che si era allontanato per evitare l’esplosione della potenza, ora si fece avanti con calma. Il suo sguardo fisso su Gojo, consapevole che la battaglia non era ancora finita.
In un attimo, la maledizione emise un ultimo strido, lacerando l’aria e scomparendo, come se il tempo stesso avesse deciso di inghiottirla. Il cortile tornò al silenzio. Gojo, ansimante, abbassò lentamente le mani, ma la tensione non svanì. Guardò Suguru negli occhi, l’incertezza ancora presente nei suoi.
«L’abbiamo fatto,» disse, ma le sue parole non erano di vittoria. C’era troppo dentro di lui per sentirsi davvero libero.
Suguru si avvicinò e, con un sorriso sottile, rispose: «Sì, ma tu lo sai, Satoru. Non è mai finita.»
Gojo annuì, sentendo il peso di quelle parole più che mai. La battaglia era vinta, ma la guerra, quella contro il tempo e le proprie scelte, non era ancora finita.
L’esplosione di energia svanì, lasciando dietro di sé una distesa di silenzio. Il cortile, prima invaso da una nebbia densa, ora era nuovamente illuminato da una luce fredda, che sembrava bagnare ogni angolo di quel mondo. Ma Gojo non riusciva a sentire la liberazione. Non riusciva a gioire della vittoria.
Il suo respiro affannoso lo riavvicinò alla realtà, ma i suoi pensieri restavano distanti, come se il peso di ciò che aveva fatto lo stesse annegando. Guardò la mano che ancora tremava, il corpo sfinito dalle forze che aveva spinto al limite. Ma non era quello il vero fardello che sentiva.
“L’ho fatto.” La voce nella sua testa era un sussurro, ma il peso di quelle parole era imponente. Non si trattava della battaglia che aveva appena vinto. Si trattava di lui, del percorso che aveva intrapreso, del passato che aveva cercato di cambiare.
Il suo sguardo si abbassò. Ogni scelta che aveva fatto, ogni passo che aveva compiuto per arrivare a questo punto, aveva un costo. Nonostante la potenza che possedeva, nonostante il suo controllo assoluto sul mondo che lo circondava, non poteva sfuggire al suo stesso vuoto interiore. La sua mente cercava disperatamente un senso, ma ogni domanda lo spingeva più a fondo, più lontano dalla risposta.
“Perché sono qui?” Pensò, mentre il cortile si riempiva di un silenzio sempre più soffocante. “Ho cercato di cambiare qualcosa che non dovevo. Ho cercato di salvare Suguru, ma a quale prezzo?”
Gojo alzò gli occhi verso il cielo grigio. La sua energia, quella potenza che aveva sempre pensato fosse la risposta a tutto, ora sembrava vuota. “Per cosa l’ho usata? Ho salvato Suguru? O forse ho solo spinto ancora più lontano la sua rovina? Ho solo dato il via a una spirale che non posso fermare. Non posso fermare il mio stesso passato.” e a quanto pare nemmeno combattere contro di esso.
Il suono dei suoi passi gli sembrò lontano, come se stesse camminando in un sogno. La sua figura si stagliava contro il paesaggio distrutto, ma in quel momento non sembrava più essere una persona che stesse andando avanti. Sembrava una ombra del passato che cercava di inseguire se stessa.
Suguru si avvicinò lentamente, notando la gravità che sembrava aver preso il posto della solita sicurezza di Gojo. Il suo amico lo osservò, ma non disse nulla, come se capisse che ora non era il momento delle parole.
Satoru si fermò, guardandolo. C’era una calma triste nei suoi occhi, come se avesse finalmente accettato qualcosa che aveva sempre evitato di vedere. Il suo cammino, per quanto fosse stato deciso, in quel momento gli sembrava incerto.
“Ho fatto un viaggio. Un viaggio per fermare quello che è accaduto. Per cancellare un errore che avevo già commesso, ma…” Si fermò, la voce tremante. “…E se quell’errore fosse la mia condanna? E se il mio stesso desiderio di cambiamento fosse la cosa che mi ha condannato?”
Suguru fece un passo verso di lui, il suo viso imperturbabile come sempre, ma il suo sguardo era profondo. Come se volesse dirgli qualcosa, ma non trovasse le parole giuste. Non c’era bisogno di parlare, però. La tensione che esisteva tra di loro parlava più di mille frasi.
Gojo, tuttavia, non poteva più ignorare il suo tormento. “Suguru, ho cercato di riportarti indietro. Di fermarti prima che fosse troppo tardi. Ma ora…” Fece una pausa. “Ora non so più cosa sto facendo. Ogni mossa che faccio, ogni passo che compio, sembra solo allontanarmi dalla persona che ero. Non sono più certo di nulla.”
Geto lo guardò in silenzio, ma il suo viso non tradiva nessuna emozione. Forse capiva. Forse anche lui sentiva quel vuoto che si stava riempiendo di domande senza risposta.
Gojo riprese a camminare, ma i suoi passi non erano più quelli di un uomo che cercava un nemico. Non stava più cercando di riscrivere il passato. Era come se stesse cercando una via di fuga dal proprio stesso cuore. Il viaggio che aveva intrapreso non era solo attraverso il tempo, ma anche attraverso il proprio io interiore. Aveva pensato che fosse tutto chiaro, che il suo potere lo avrebbe guidato, ma adesso era diverso.
“Ho potuto fermare la maledizione,” disse, la voce quasi un sussurro. “Ma il vero mostro… è sempre stato dentro di me.”
Suguru non rispose. Non aveva bisogno di farlo. Sapeva che Gojo era arrivato a un punto in cui le risposte non venivano dalle azioni, ma dalla propria accettazione. La forza che cercava di controllare il mondo, alla fine, non poteva nemmeno contenere i suoi propri conflitti. La vittoria, in questo caso, non era la fine, ma l’inizio di un nuovo percorso.
Gojo si fermò di nuovo, guardando Suguru, e in quel momento lo vide come lo aveva sempre visto, come un compagno di viaggio, ma anche come un simbolo di ciò che aveva cercato di cambiare. Ogni parola, ogni gesto che avevano condiviso fino a quel momento, lo riportava al punto di partenza: Non poteva cambiare ciò che era successo, né cancellare il passato.
Con una smorfia amara, aggiunse: «Non posso più tornare indietro, vero?»
Suguru lo osservò per un attimo, poi, senza una parola, poggiò una mano sulla sua spalla, come se la risposta fosse già chiara. E con quel gesto, la domanda restò sospesa, insieme alla consapevolezza che non c’era un cammino facile da percorrere. Solo il continuo viaggio verso un futuro incerto.
Gojo si stava perdendo nella nebbia di pensieri che l’avevano tormentato fin dal momento in cui aveva deciso di intervenire nel passato. Il tempo non era più solo un concetto astratto per lui, ma una realtà concreta, un campo di battaglia in cui ogni sua azione si intrecciava con il destino degli altri, creando un effetto a catena di cui non era mai stato davvero consapevole.
Mentre il vento sferzava la sua pelle, Gojo si sentiva intrappolato, non nella battaglia che aveva appena vinto, ma nell’eco delle sue azioni. Ogni passo che aveva compiuto, ogni singola scelta che aveva fatto per cercare di fermare Suguru, sembrava tornargli contro, come se il destino fosse irrimediabilmente legato a quella maledizione che lui stesso aveva cercato di cancellare.
La sua mente correva indietro, ripercorrendo il viaggio che lo aveva portato qui, al confronto tra ciò che aveva pensato di poter cambiare e ciò che invece aveva scoperto essere ineluttabile.
“Mi sono illuso.” Il pensiero gli attraversò la mente come una scarica elettrica. “Ho sempre pensato di poter manipolare il tempo, di poter riscrivere la storia. Ma… non ho mai pensato a quello che avrei lasciato dietro. Non ho pensato al costo.”
Gojo si fermò, come se ogni passo fosse diventato più pesante del precedente. La nebbia lo circondava come un velo, offuscando la vista, ma ciò che gli era più difficile da vedere era ciò che portava dentro di sé. Le sue stesse scelte lo avevano messo di fronte a una verità che aveva sempre cercato di ignorare: il suo potere non era la chiave per salvare gli altri, ma una prigione che lo teneva lontano da chi era davvero.
In quel momento, una fitta di dolore attraversò il suo petto. Non era fisico. Era come se ogni ricordo, ogni frammento di quella lunga solitudine che aveva vissuto, stesse finalmente venendo a galla.
“Ho scelto di isolarmi. Ho scelto di non essere vulnerabile.” Pensò, e le parole suonarono strane, come se fossero lontane da lui. Ma erano vere. Aveva costruito un muro intorno a sé, un muro che ora non poteva più ignorare. “E ora il mio viaggio mi ha portato qui, in un luogo dove non posso più nascondermi. Dove non posso più scappare.”
Era la solitudine, la consapevolezza di aver rinunciato a vivere una vita piena per proteggere gli altri, per essere il più forte. Ma, ora che il suo viaggio lo aveva portato di nuovo al punto di partenza, si rendeva conto che aveva pagato un prezzo altissimo. Non aveva mai permesso a nessuno di vedere il suo vero sé. Non aveva mai permesso a nessuno di avvicinarsi davvero. Aveva messo i suoi amici, i suoi compagni, in una distanza che, alla fine, lo aveva consumato.
Gojo si piegò leggermente in avanti, il respiro più pesante mentre cercava di far uscire i pensieri confusi. Non era più sicuro di nulla. Nemmeno di chi fosse.
“Perché ho fatto tutto questo?” La domanda gli rimbombò nella testa, ma non trovò risposta.
Ogni passo che aveva fatto nel suo viaggio, dalla sua ascesa come stregone fino a quel momento di scontro, sembrava portarlo più lontano dalla possibilità di una risposta. La ricerca di controllo, di perfezione, di forza, l’aveva trasformato in qualcuno che non riconosceva più. “Cosa voglio davvero?”
In quella solitudine che lo avvolgeva, Gojo si rese conto che non stava solo affrontando il passato di Suguru. Stava affrontando il suo. Ogni scelta che aveva preso lo aveva condotto verso questa spirale senza fine, una spirale in cui non c’era né il bene né il male assoluti, ma solo una lotta tra ciò che era giusto e ciò che sentiva essere necessario.
“Mi sono rinchiuso nella mia forza.” Si rese conto, una rivelazione che lo colpì come un pugno allo stomaco. “Ho creduto che il potere sarebbe stato la risposta. Ma ora che l’ho ottenuto… cosa mi rimane?”
Nonostante le sue capacità, nonostante il suo dominio assoluto sulla maledizione e sulle forze che lo circondavano, non riusciva a fermare quel tormento che cresceva dentro di lui. Ogni cosa che aveva fatto per il bene degli altri, per proteggere il mondo, lo aveva portato a distaccarsi sempre di più dalla sua umanità.
Ma, in un angolo nascosto della sua mente, sentiva ancora il desiderio di cambiare qualcosa, di fermare la catena di errori che si erano accumulati nel tempo. La battaglia con Suguru non era solo una lotta contro l’amico, ma contro se stesso. Contro la parte di sé che aveva cercato di sopprimere, che non aveva mai voluto vedere.
“Forse…” pensò, il suo cuore colmo di un dolore amaro, “forse non posso cambiare il passato. Forse non posso più essere il Gojo che tutti conoscono.”
Il suo viaggio non era solo quello di un uomo che cercava di rimediare ai propri errori. Era il viaggio di un individuo che stava cercando di capire chi fosse, di accettare ciò che aveva fatto e, infine, di trovare la forza di perdonarsi.
Si alzò in piedi, il volto segnato da un’espressione di determinazione. Non sapeva ancora cosa sarebbe successo dopo, ma era pronto ad affrontarlo. La sua forza non sarebbe più stata la sua prigione. La sua forza, ora, doveva diventare la chiave per liberarsi.
Sospirò, guardando l’orizzonte. Il viaggio che aveva intrapreso non era finito. Ma aveva finalmente trovato una parte di sé che non aveva mai visto prima: il desiderio di rimanere umano, di non essere solo una forza da temere, ma una persona in grado di scegliere il proprio destino.
Il silenzio intorno a lui era irreale. Non c’erano maledizioni. Non c’erano urla. Solo l’eco dei suoi stessi pensieri.
Gojo rimase lì, immobile, mentre l’alba stentava a filtrare tra le nuvole basse. Era come se il mondo stesso avesse trattenuto il respiro. Per un attimo, si concesse di fare lo stesso. Di ascoltare il battito del proprio cuore, sfasato, come se non appartenesse a lui.
“Tornare indietro… non è mai solo un ritorno. È un peso. È la riscrittura di ogni possibilità che ho già vissuto. È guardare in faccia chi ero, sapendo di non poter essere più quel ragazzo.”
Aveva rivisto Suguru. Aveva rivisto Shoko. Aveva rivisto se stesso, giovane, inconsapevole, arrogante. E in quell’immagine così lontana, aveva riconosciuto la fragilità che ora lo consumava. Quello che non si era mai concesso di dire ad alta voce, ora lo avvolgeva come una lama sottile:
“Non sono invincibile.”
Non lo era mai stato. Solo che aveva preferito crederlo.
Ogni volta che salvava qualcuno, ogni volta che proteggeva i suoi studenti, ogni volta che rideva come se nulla potesse scalfirlo… era solo un modo per dimenticare quanto fosse vuoto dentro. Quanto il vuoto lasciato da Suguru fosse ancora lì.
E ora che il tempo gli aveva dato un’altra possibilità, si chiedeva cosa stesse davvero cercando. Redenzione? Perdono? Una versione della storia in cui non doveva perdere tutto?
Oppure… solo un’illusione, pur di non affrontare la verità?
Il terreno tremò leggermente sotto i suoi piedi. Un presagio. Gojo alzò lo sguardo. Qualcosa si stava avvicinando. Qualcosa di familiare, eppure distorto. Forse Kenjaku, forse un’eco del tempo che si ribellava a quella forzatura.
“Non è finita.”
Sapeva che quel viaggio non gli aveva dato risposte facili. Ma, per la prima volta, si sentiva pronto a guardare avanti, non solo per salvare gli altri, ma per salvarsi da se stesso.
Chiuse gli occhi per un momento.
«Non tornerò indietro. Non questa volta. Farò in modo che il me di domani… non abbia più nulla da rimpiangere.»
Poi si voltò, il passo deciso.
Il passato era ancora lì. Ma anche il presente. E, forse, se avesse continuato a lottare, ci sarebbe stato ancora un futuro.
Un rumore, sordo e profondo, si diffuse nell’aria. Come se il cielo stesso si fosse incrinato.
Gojo si voltò di scatto, e per un istante fu come se tutto rallentasse. L’energia maledetta si condensò in un punto lontano dell’orizzonte, crepitando con un’intensità che gli fece accapponare la pelle. Un punto nero si stava espandendo nel cielo, come una cicatrice nel tessuto stesso del tempo.
“Una breccia.”
Capì subito cos’era. Il tempo si stava ribellando. Aveva forzato troppo, aveva riscritto il flusso degli eventi, e ora qualcosa—o qualcuno—stava cercando di correggere quell’anomalia.
Dal cuore di quella frattura si spalancò un varco. E da lì, non emerse Kenjaku. No.
Emerse una versione distorta di lui stesso.
Era Satoru Gojo. Ma più giovane. Più impulsivo. Più letale. Gli occhi carichi di quell’arroganza pura che lui stesso aveva portato per anni. Non c’era saggezza in quello sguardo, solo potere.
E rabbia.
«Interessante…» disse quella figura, con un sorriso quasi divertito. «Sei tu che hai rotto tutto, vero?»
Gojo non rispose. Rimase fermo, studiandolo. Era una proiezione del tempo? Una maledizione nata da lui? O un frammento del sé che aveva provato a cancellare?
“Questo è il prezzo. Il tempo non dimentica.”
«Tu sei un errore,» continuò la figura, alzando la mano. L’energia maledetta si distese nell’aria come una ragnatela luminosa. «E io sono qui per correggerti.»
Gojo strinse i pugni. Il suo cuore batteva forte, ma il suo volto rimase calmo.
«Correggermi, eh?» replicò piano, il tono basso, quasi ironico. «Peccato che io non sia mai stato bravo a seguire le regole.»
E in un istante, tutto esplose.
Gojo scattò in avanti, la sua energia vibrante, precisa, incontaminata. I loro attacchi si scontrarono a metà cielo, e fu come vedere due stelle che collidono: luce cieca, forza brutale, un silenzio seguito da un tuono che fece tremare l’aria.
Ogni movimento del suo avversario era familiare. Lo conosceva fin troppo bene. Lo aveva usato lui stesso. Ma ora, in quello scontro, c’era qualcosa di diverso.
Gojo non stava solo combattendo una maledizione.
Stava combattendo contro l’ombra di chi era stato.
Ogni colpo, ogni schivata, era una sfida al passato. Alla sua sicurezza. Alla convinzione di essere invincibile.
Eppure, con ogni secondo che passava, capiva di più. Questa battaglia non era solo una punizione.
Era una prova.
“Se riesco a sconfiggere questa parte di me, allora forse… posso davvero andare avanti.”
Le due figure si sollevarono nel cielo, pronte a colpire di nuovo.
Gojo sorrise, quel sorriso vero, stanco, ma deciso.
«Non sono più quello che eri tu. E non voglio esserlo mai più.»
Il suo prossimo attacco fu carico non solo di potere, ma di intenzione.
Di crescita.
Di verità.
I due Satoru si mossero come specchi impazziti, riflessi uno dell’altro, danzando in uno spazio sospeso tra presente e passato. L’aria bruciava, distorta da raffiche di energia pura. Ogni colpo era una dichiarazione, ogni difesa una negazione.
Ma Gojo lo capiva. A ogni passo, a ogni pugno, a ogni occhiata scambiata con quella versione più giovane e spietata, si faceva sempre più chiaro.
“Non è lui il nemico. Lo è mai stato?”
Quel ragazzo davanti a lui così arrogante, indomito, insensibile, non era solo una proiezione del tempo o una maledizione evocata dall’anomalia. Era un frammento. Un riflesso delle sue scelte. Di ciò che aveva lasciato irrisolto.
“Il tempo non può essere piegato senza conseguenze. Ma forse… non è mai stato questo il punto.”
Un pugno lo colpì al volto, violento, e Gojo atterrò con un tonfo che fece tremare la terra. Si rialzò lentamente, il sangue che scendeva dal sopracciglio non lo infastidiva. Anzi, lo riportava alla realtà.
Davanti a lui, il giovane Gojo si fermò. Lo fissava. Non parlava più.
Ed è in quel silenzio che il Satoru adulto comprese.
“Non posso cambiare quello che è successo. Non posso impedire a Suguru di scegliere il proprio cammino. Non posso salvare tutto e tutti. Ma posso accettarlo. Posso smettere di combattere contro un tempo che non mi appartiene.”
Inspirò a fondo. Lo sentì nelle ossa, nella pelle, nella sua stessa anima: il motivo del viaggio non era il passato.
Era lui.
Cambiare sé stesso.
Saper lasciare andare.
«Sai qual è la vera maledizione?» disse ad alta voce, lo sguardo dritto nell’altro. «Pensare che basti essere forti per sistemare tutto.»
Aprì le braccia, come ad abbracciare quel peso che lo aveva accompagnato per anni.
«Io non voglio più essere invincibile. Voglio solo essere umano.»
E con quell’affermazione, la sua energia cambiò. Si purificò. Non più cieca potenza, ma volontà. Non più dominio, ma equilibrio.
Il giovane Gojo lo attaccò di nuovo, ma questa volta, l’adulto non lo colpì.
Lo accolse.
Lasciò che l’attacco lo attraversasse, scomparendo nell’aria come nebbia svanita al sole.
La figura più giovane vacillò. Si incrinò. Poi, lentamente, svanì.
Non sconfitta.
Accettata.
Gojo rimase solo. Il cielo era tornato silenzioso. Il varco temporale si stava richiudendo.
E lui, per la prima volta, sentì che il viaggio aveva compiuto il suo scopo.
Non aveva cambiato il destino.
Ma si era cambiato.
Il tempo si richiudeva su sé stesso.
Come un nastro riavvolto, la realtà tornava a farsi densa, tangibile, inarrestabile. Gojo sentì l’energia intorno a lui vibrare, contrarsi, poi svanire. Il cielo era tornato limpido. Il mondo era quello che aveva lasciato: il campus, il vento leggero tra i ciliegi, e davanti a lui—
Geto Suguru.
In piedi, le mani nelle tasche della divisa da studente, con lo sguardo rivolto a lui. Ma qualcosa era diverso. Forse Gojo stesso era cambiato, e ora riusciva a vedere con maggiore chiarezza quello che non aveva mai voluto accettare.
Suguru non aveva ancora varcato il confine.
Era ancora lì. Vivo. Intero.
«Sei strano oggi, Satoru.» La voce di Geto era leggera, come se stesse parlando con un vecchio amico e in effetti, era così. Solo che lui non sapeva. Non poteva sapere.
Gojo sorrise piano. Era un sorriso amaro, sincero. Non gli restava molto tempo. Il presente lo stava già reclamando.
«Avrei voluto dirti tante cose,» disse, senza riuscire a guardarlo negli occhi. «Ma credo che alcune parole… non arriverebbero mai nel modo giusto.»
«Wow, sei poetico oggi,» rispose Geto, alzando un sopracciglio. «Shoko ti ha cambiato i medicinali?»
Gojo rise, quasi strozzato.
Poi fece un passo verso di lui. Si fermò. Lo guardò come se volesse imprimere per sempre quel volto nella memoria.
«Qualunque cosa accada, qualunque scelta tu faccia… voglio che tu sappia che io ti ho voluto bene. Davvero.»
Geto restò immobile. Una piega lieve attraversò il suo volto, ma non disse nulla.
Un battito.
Poi il mondo si spaccò.
E il presente lo inghiottì.
***
Buio.
Silenzio. Denso. Liquido. Immobile.
Gojo riaprì gli occhi, e il suo sguardo fu accolto dalle pareti immobili della Prigione di Colore. Ancora lì. Ancora intrappolato. Nessuna via d’uscita.
Ma qualcosa era diverso.
Lui.
Non c’erano lacrime. Non c’era rabbia. Solo un’immensa, silenziosa comprensione.
“Ho cercato di cambiare il destino.”
“Ma il destino… non si lascia cambiare.”
Aveva visto Suguru. Gli aveva parlato. Aveva tentato, in tutti i modi, di salvare ciò che si era rotto. Ma la verità era che alcune ferite non possono essere guarite. Solo accettate.
Eppure quel viaggio non era stato vano.
Aveva scoperto che la sua forza non risiedeva nella tecnica, né nella superiorità. Risiedeva nella capacità di non voltarsi più indietro.
Di andare avanti.
Di essere umano.
Anche nella prigione. Anche nel silenzio.
Perché se mai fosse uscito da lì — e lo sarebbe — avrebbe saputo chi era davvero.
Un uomo che aveva amato. Un uomo che aveva perso. Un uomo che non cercava più di riscrivere la storia.
Ma di onorarla.
Con ogni respiro rimasto.