Mar. 24th, 2022

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Questo capitolo partecipa al Cow-t 12 – Quinta Settimana M2 – “e alla fine, niente lieto fine”

 

 


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Al suo ritorno come sempre Ango e Murray erano lì. Non c’era bisogno di sprecare parole, già il fatto che Dazai fosse riapparso davanti a loro era un segnale abbastanza eloquente del suo ennesimo fallimento. Ango fu il primo a notare come lo sguardo del ex dirigente fosse diverso quella volta. Doveva essere successo qualcosa ma come sempre non riusciva ad andare oltre la superficie, vedere al di là di quella maschera fredda e inespressiva che l’ormai ex più giovane dirigente della storia della Port Mafia aveva scelto di indossare. Aveva conosciuto solo una persona in grado di farlo. Ed era stata la sua scomparsa a condurli fino a quel punto.

«Dazai-kun» tentò quasi impacciato l’impiegato, allungando un braccio verso di lui quasi volesse sfiorarlo ma avesse allo stesso tempo paura di ustionarsi. Non poteva evitare di preoccuparsi per l’amico, era più forte di lui, si sentiva in qualche modo responsabile per quello che gli stava accadendo. Non importava che lo avesse perdonato o meno, Sakaguchi Ango voleva espiare le proprie colpe.

 

In quel momento, Dazai aveva bisogno d’aiuto anche se era troppo orgoglioso o testardo per chiederlo o ammetterlo. Non sarebbe rimasto impassibile di fronte a quell’assurda e insensata auto distruzione. Dazai era un masochista, non era certo una novità, Ango aveva assistito ad un paio di suoi tentativi di suicidio, ma questa volta la situazione era completamente diversa. Chiunque avesse mai avuto a che fare con il giovane dirigente avrebbe potuto notarlo. Mai Dazai gli era parso tanto umano e per questo vulnerabile.

Conosceva quel ragazzo da un paio d’anni. Aveva visto di cosa potesse essere capace il Demone Prodigio della Port Mafia. Come aveva assistito da mero spettatore all’evoluzione del suo rapporto con Odasaku. Ricordava il giorno in cui era stato invitato ad unirsi a loro. Quando quei due bizzarri individui se ne erano usciti con la proposta di andare a bere qualcosa insieme arrivando praticamente ad obbligarlo, distogliendolo dal proprio lavoro. Con un sorriso ripensò a quanto al tempo si fosse lamentato per una cosa stupida come la puzza dei loro vestiti. In realtà non era solo l’odore a turbarlo, quella non era stata altro che una scusa, piuttosto l’aura che entrambi quegli individui sembravano emanare intorno a loro.

Dazai Osamu, il suo nome soprattutto dopo il Conflitto della Testa di Drago era sulla bocca di tutti all’interno della Port Mafia. Non era solo il pupillo del Boss ma una pedina spietata e senza cuore, che era stata in grado, con l’aiuto del proprio partner di distruggere in una sola notte un’intera Organizzazione ponendo fine ad uno degli scontri più sanguinosi che la storia della città di Yokohama avesse mai visto.

Di Oda Sakunosuke al tempo non sapeva nulla, in realtà Ango aveva avuto accesso a molte informazioni su quel misterioso tuttofare solo dopo la sua morte. Era stato allora che aveva iniziato finalmente a comprendere Oda e a stimarlo.

Un mafioso che non uccideva ma si accompagnava ad un giovane dirigente, detto così sembrava quasi una barzelletta.

 

Eppure, ripensandoci in quel momento, riusciva a vedere oltre la semplice apparenza. Odasaku aveva sempre esercitato una sorta di effetto calmante su quella mina vagante che era Dazai. Bastava una parola o un gesto di quell’uomo perché il ragazzino si placasse di colpo, come se Oda avesse saputo quale interruttore premere. All’inizio, Ango ricordava di essersi interrogato sulla natura di quel rapporto. Aveva sempre avvertito come la mancanza di un qualcosa, di un tassello fondamentale per arrivare a comprendere meglio quelli che ormai aveva iniziato a considerare amici.

 

Una sera, spinto da un moto di curiosità aveva domandato al rosso di come fosse finito nella Mafia e della vaga, ma allo stesso tempo assurda risposta avesse ricevuto;

 

«Ho semplicemente trovato Dazai sul portico di casa mia. Era ferito. Il mio primo pensiero era stato di andarmene e non farmi coinvolgere, ovviamente non ne sono stato in grado quindi eccoci qui. Sono entrato nella Port Mafia dopo aver raccolto un gatto randagio»

 

Ango ricordava di averlo guardato con curiosità, aspettandosi forse una battuta. Oda però era rimasto serio ed enigmatico come sempre.

Solo qualche giorno prima, quando gli era stato accordato il permesso dai propri superiori, Sakaguchi Ango aveva avuto modo di leggere tutti i file su Oda Sakunosuke.

 

Aveva ricostruito il suo passato, scoprendo una persona diversa da quella che aveva conosciuto, eppure ancora, avvertiva la mancanza di qualcosa, c’era un tassello di quel puzzle che non ne voleva sapere di andare al proprio posto. Odasaku aveva deciso di cambiare la propria vita ma ovviamente nessuno ne conosceva il motivo. Un sicario tra i migliori al mondo che entrava a far parte della Port Mafia come semplice tuttofare. Poi la decisione di non uccidere. Sembravano cose completamente senza senso. A cui l’impiegato non riusciva a venirne a capo o a dare una logica.

 

Per questo aveva cercato l’aiuto di Dazai, forse in qualche modo il dirigente conosceva la causa dietro quel cambiamento o ne era stato parte. In realtà c’era un’altra ragione ad aver mosso Ango in quella direzione e a contattare il pupillo del Boss. Voleva aiutarlo, se non addirittura salvarlo dalla spirale di auto distruzione in cui Dazai sembrava essere piombato dopo la morte di Odasaku. Il quattrocchi sapeva chi avrebbe potuto compiere quel miracolo, riportare Dazai ad essere quello di un tempo ma si sarebbe riservato quella carta solo alla fine. Era il suo asso nella manica. Contattare Murray era stato un disperato tentativo di fare ammenda ad un errore. Come aveva temuto, Dazai continuava a fallire nel proprio intento, e forse era giunto il momento di interrompere anche quella serie di eventi, soprattutto dopo aver visto il volto dell’amico. Il moro stava crollando a pezzi davanti ai suoi occhi e non poteva permetterlo. Era solo il riflesso del ragazzo che aveva conosciuto, temuto e per che no, pure ammirato.

 

C’era stato un solo, breve istante in cui Ango aveva pensato di essere arrivato troppo tardi. Ed era stato qualche giorno prima, quando dopo essersi accordato con i propri superiori aveva ottenuto il permesso di contattare Dazai.

 

Ad ogni secondo d’attesa con il telefono appoggiato all’orecchio, il suo cuore mancava di un battito. Non avrebbe potuto reggere un altro lutto. C’era un limite ai suoi poveri nervi come alle avventure e ai rischi che era disposto a correre.

Poi Dazai aveva risposto al proprio cellulare e di colpo l’ansia era scemata facendolo tornare a respirare. Pensava di essere pronto a tutto Ango, ma nulla lo avrebbe mai preparato a quella versione di Dazai. Del diciottenne il cui nome incuteva solo paura e rispetto restava solo un ragazzino distrutto dalla morte di un amico. Anche se non era del tutto certo che quella definizione fosse corretta.

Odasaku era qualcosa di più per Dazai. Ora si sentiva in colpa per aver voltato lo sguardo e finto di non accorgersi di quel legame che li univa.

Ango non aveva mai condiviso nulla di simile con nessuno. Dazai e Oda erano stati i suoi primi veri amici, e li aveva traditi. Era stato sincero durante il loro ultimo incontro al Lupin, se fosse stato possibile avrebbe tanto voluto poter tornare a bere qualcosa insieme, a quei giorni spensierati. Il destino però aveva voluto diversamente, decidendo per un altro finale.

 

Sapeva di non essere responsabile per ciò che era capitato Oda ma sentiva il suo sangue sulle proprie mani. Dopo aver condotto Dazai al sicuro ed essersi sincerato delle sue condizioni, in seguito al suo ritorno dalla prima realtà, si era fatto coraggio e recato al cimitero dove sapeva avevano traslato il corpo dell’amico. Avrebbe voluto ricevere prima il perdono di Dazai, ma vederlo in quello stato lo aveva toccato più di quanto avesse mai potuto pensare. Mai come in quel momento aveva bisogno di parlare con Oda, chiedergli un consiglio.

 

Non era mai stato in quel posto. In lontananza si vedeva il mare, era perfetto come ultima dimora terrena. Trovò subito ciò che stava cercando.

Era una lapide semplice con inciso un nome e poche parole.

 

«Oda-kun scusa per il ritardo» fece una piccola pausa posando il mazzo di fiori che aveva portato. Le nuvole sopra la sua testa lo avvisarono dell’imminente temporale che si sarebbe scatenato ma in quel momento non gli importava.

 

«Mi dispiace per ciò che è successo. La verità è che sono un uomo del Governo. Non volevo mentirvi. Era il mio lavoro ma voi eravate miei amici» prese nuovamente un lungo respiro;

 

«Sto cercando di badare a Dazai-kun la tua perdita l’ha distrutto. Dovresti vederlo è quasi irriconoscibile. Ha lasciato la Port Mafia e qui penso ci sia di mezzo il tuo zampino, dopotutto eri il solo che ascoltava. Vuole salvarti, sta cercando disperatamente di non arrendersi» appoggiò una mano sulla fredda e umida pietra.

 

«Vorrei dirgli di fermarsi. Che i suoi sforzi sono inutili, non si può cambiare il destino. Eppure non ci riesco. Vedo quello sguardo, la sua determinazione. Come posso dirgli che non tornerai mai da lui Oda-kun? Dazai è forte, intelligente e sta soffrendo. Non so davvero come aiutarlo»

 

Sei qui per aiutare lui o te stesso?

Gli sembrò quasi di udire la voce di Odasaku.

«Sono qui per espiare una colpa e chiedere il tuo perdono. Egoisticamente speravo di salvare Dazai da se stesso. Ancora una volta sono stato troppo ingenuo. Non ha bisogno del mio aiuto. Per certi versi è ancora un ragazzino, non riesce ad elaborare la tua perdita. Cosa era per te Dazai? Chi eri Oda-kun? Sono queste le domande a cui vorrei tanto trovare una risposta» in quel momento la pioggia iniziò a cedere incessantemente sopra la sua testa. Aprì l’ombrello che previdentemente si era portato appresso.

 

«Mi dispiace. Farò il possibile per aiutare Dazai ti do la mia parola. Lo proteggerò al meglio delle mie capacità» gli venne un’idea, avrebbe iniziato con l’insabbiare il passato del ex mafioso. Se Dazai era intenzionato a cambiare la propria vita quello lo avrebbe di sicuro aiutato.

 

«Oda-kun» disse dopo essersi allontanato di un paio di passi «eri davvero una brava persona»



 

***



 

Dopo quel giorno Ango si era impegnato come sempre nel proprio lavoro continuando a monitorare Dazai e le sue intenzioni. Così erano arrivati alla situazione attuale con l’ex dirigente di ritorno dal suo terzo fallimento.

 

«Dazai-kun» tentò afferrandolo per un braccio ed obbligandolo a fermarsi. Murray a qualche metro da loro trattenne il fiato. Era terrorizzato dal Demone Prodigio della Port Mafia e tremava come una foglia.

 

«Cosa vuoi Ango?» il tono di voce con cui pronunciò il suo nome era lo stesso di quel giorno al Lupin. Quando gli aveva rivelato di aver sempre saputo la verità sul suo doppio gioco. L’impiegato lasciò la presa, andando a sistemarsi meglio gli occhiali sul naso;

 

«Voglio parlare» l’occhiata che Dazai gli rivolse avrebbe fatto desistere chiunque ma non lui,

 

«Ti stai auto distruggendo non posso permetterlo»

 

«Ho fallito. La prossima volta andrà meglio. Non è vero Murray-san?» l’uomo chiamato in causa annuì;

 

«Vieni con me. Subito» Dazai storse il naso;

 

«Io non prendo ordini da un traditore»

«Tu stesso hai tradito la Port Mafia siamo colleghi di tradimento ora» Dazai sbuffò.

Provocare Ango non avrebbe portato a nulla lo sapeva bene ma era ancora frustrato e arrabbiato con se stesso. Aveva bisogno di sfogarsi in qualche modo.

 

Lo seguì in silenzio tra i corridoi di quell’edificio tutti uguali, piatti, monotoni come l’individuo che aveva davanti agli occhi. Dal canto suo Ango stava cercando di trovare le parole giuste ma con Dazai era impossibile fare strategie, doveva solo sperare nella buona sorte.

 

Arrivarono a quello che l’ex dirigente dedusse essere l’ufficio del quattrocchi. Era piccolo e abbastanza spoglio. Gli ricordò molto il nascondiglio dove si erano incontrati la prima volta, almeno in questo aveva una finestra dalla quale entrava una fioca luce. Dazai si rese conto di non sapere nemmeno che giorno fosse. Stava perdendo il senso della realtà. Ango lo fece accomodare.

 

«Non mi dirai vero che è successo?» tentò. Il moro abbassò il capo;

 

«Dammi carta e penna, ti scriverò un rapporto dettagliato» lo sfidò.

«Dazai-kun voglio solo aiutarti»

 

«Ora vuoi aiutarmi? Riporta indietro il tempo, ridammi Odasaku» L’impiegato si lasciò cadere sulla poltrona alle proprie spalle. Aveva sbagliato approccio. Non sarebbe riuscito a risolvere nulla in quel modo. L’ex dirigente sapeva essere testardo e capriccioso come un bambino. Colpa di Oda che lo aveva sempre viziato. Aprì un cassetto della propria scrivania prendendo l’istantanea che avevano scattato in quella sera al Lupin. La sua copia. Se la rigirò fra le mani per poi porgerla a Dazai.

 

«Era stata una buona idea quella di scattare delle fotografie. Abbiamo immortalato quel qualcosa che condividevamo» il ragazzino annuì

 

«Mi era sembrata una buona idea. Avevo avuto il presentimento che non sarebbe durata. A volte odio avere sempre ragione» Ango scosse il capo;

 

«Nessuno avrebbe potuto prevedere cosa sarebbe successo» Dazai scattò in piedi;

«Io si avrei potuto. Non ho saputo guardare oltre le bugie di Mori, sono caduto nella sua trappola. È colpa mia se Odasaku è morto»

 

Allora era questo. Dazai si stava incolpando per la morte di Oda. No, doveva esserci dell’altro.

«Cosa è successo in questo mondo?» Dazai attese qualche istante prima di parlare e tornare a sedersi sulla propria poltrona.

 

«In questa realtà l’ho ucciso»

 

«Prego?» Ango fu certo di aver capito male;

 

«Ero diventato il Boss della Port Mafia. Ho dato io l’ordine. Odasaku è morto per causa mia» l’impiegato non riusciva a crederlo;

«Sono un mostro. L’oscurità dentro di me non sparirà mai. Odasaku mi ha chiesto di diventare un essere umano migliore, non ci riesco. L’ho deluso»

 

«Dazai-kun»

 

«Sai perché ho lasciato la Port Mafia? Per esaudire l’ultimo desiderio di Odasaku. Mi ha chiesto di diventare una persona buona, che salva gli orfani e non uccide. Mi disse che il vuoto che sento non sarebbe mai scomparso ma sarei comunque migliorato un pochino. Era certo di questo perché era mio amico» Ango rimase in silenzio per poi aggiungere;

 

«Se vuoi fermarti Dazai ti capisco. Deve essere terribile continuare a rivivere la morte di Odasaku» lo sguardo che ricevette in risposta fu abbastanza eloquente;


 

«Non posso Ango. Io devo salvarlo. Sono il solo che possa farlo»


 

E se Odasaku non dovesse essere salvato?


 

Avrebbe voluto rispondere in quel modo ma non ce la fece. Dazai stava già pagando abbastanza.


 

«Cosa provavi per lui?» Era una domanda che aveva rimandato fin troppo. Una parte di Ango era certa di aver sempre saputo la risposta, eppure in quel momento desiderava ricevere una conferma anche da Dazai;


«Era mio amico» l’impiegato sorrise. Lui c’era sempre stato. Aveva visto quegli sguardi, i comportamenti che assumevano l’uno dei confronti dell’altro. Oda era l’unico in grado di calmare Dazai ma anche il giovane dirigente aveva un particolare ascendente sul rosso. Potevano definirsi amici ma Ango sapeva che era una definizione che non avrebbe mai potuto descrivere quel legame. Chiamarlo amore forse era eccessivo. Soprattutto accostare quella parola a Dazai, eppure non gli veniva in mente altro.


 

«Oda-kun non vorrebbe vederti in questo stato» fu la sola cosa che riuscì a dire.


 

«Lo so. Ogni tanto sento la sua voce nella mia testa, è come se fosse diventato la mia coscienza» Ango abbozzò un sorriso, era capitato anche a lui.


 

«Dazai-kun. Hai pensato seriamente a cosa fare?» il ragazzo scosse la testa confuso;


 

«Hai lasciato la Port Mafia. Sei un traditore»


 

«Se verranno per uccidermi mi farebbero solo un favore. Mori lo sa per questo non manderà nessuno. Sa che vivere per me è una condanna peggiore della morte»


 

«Per il momento voglio solo salvare Odasaku. Perché non hai fiducia che il mio piano possa funzionare? Mi nascondi forse qualcosa Ango?»


 

«Mettiamo il caso che tu riesca nel tuo intento. Tu e Oda cosa fareste?» anche se pure di quella domanda conosceva già la risposta;


 

«Non tornerei indietro» e per la prima volta si guardarono negli occhi. Ango prese l’ennesimo respiro togliendosi gli occhiali per poi massaggiarsi le tempie;


 

«Lo so. Era un’eventualità che avevo sempre sospettato. In fondo se trovassi un mondo in cui vivere felice con Oda perché tornare?»


 

«Se lo sapevi allora perché me l’hai chiesto?» indagò,


 

«Perchè dovresti essere comunque preparato ad un piano B»


 

«Salverò Odasaku. Troverò il modo. Sai che posso farcela»


 

«Già sei l’unico che potrebbe, sei sempre stato il più intelligente e pericoloso fra noi. Per questo dovresti sapere anche meglio del sottoscritto che bisogna sempre avere un piano di riserva» Dazai incrociò le braccia al petto, come un bambino capriccioso;


 

«Mi stai forse offrendo un posto alla Divisione? Vuoi forse che lavori per il Governo?» Ango aveva seriamente preso in considerazione anche quella possibilità. In fondo l’Abilità di Dazai avrebbe potuto essere utile e sarebbe stato un buon modo per riabilitare il suo nome. Un’amnistia per i propri crimini. L’ex dirigente scoppiò a ridere di gusto rischiando di cadere dalla poltrona;


 

«Devo rifiutare. Non mi sono mai piaciuti i posti con troppe regole mi sentirei soffocare. Per non parlare delle scartoffie»


 

«Ero serio Dazai»


 

«Anche io. Non puoi chiedere a uno come me di entrare nella divisione del Governo. Inoltre penso che questa sia stata una tua iniziativa, sarei curioso di sapere cosa ne penserebbero i tuoi superiori»


 

«Porterei la tua candidatura direttamente al direttore Taneda, sono certo che non potrà rifiutarsi»


 

«Ango forse non sono stato abbastanza chiaro. Sono io che mi rifiuto»


 

«Mi sto solo preparando in caso di tuo fallimento. Se, come sostieni, riuscirai a salvare Oda-kun quest’eventualità non dovrebbe preoccuparti. Posso organizzarti con incontro con Taneda. A dispetto di quanto tu creda è un brav’uomo»


 

«È lo stesso uomo che ha consegnato a Mori-san la licenza per l’utilizzo delle Abilità Speciali»


 

«Sai meglio di me che il Governo non ha colpe, le azioni di Gide sono state quelle di un folle»


 

«Vallo a dire a quei bambini o a Odasaku» Ango strinse i pugni. La morte di quei cinque orfani era stata un duro colpo, anche il suo superiore ne era rimasto affranto. Stavano combattendo una guerra, per un bene superiore non bisognava fermarsi ai sacrifici del singolo. Erano parole che sulla carta funzionavano benissimo ma la realtà era ben diversa.


 

Ango non aveva mai visto quei bambini. Ma aveva imparato a conoscerli attraverso le parole di Dazai e Odasaku. Aveva pure aiutato il rosso ad incartare i loro regali di Natale. Non aveva riflettuto su questo. Si era concentrato sulla perdita di Oda dimenticandosi delle altre vittime del caso Mimic.


 

«Hai ragione. Perdonami»


«Sai che non posso farlo» era serio Dazai, aveva assunto lo stesso tono che utilizzava quando impartiva un ordine. Anche se in fondo Ango se l’era aspettato sentirsi dire quelle parole ad alta voce faceva male.


 

«Un giorno verrò ancora a domandare il tuo perdono e spero potrai concedermelo»


 

«Non è stato il tradimento in sé Ango. Non ce l’ho con te per questo, te l’ho detto, l’ho sempre saputo e mi sono pure divertito a reggere il tuo gioco. Volevo vedere fin dove ti saresti spinto. Non posso perdonarti per la morte di Odasaku. Era anche tuo amico»


 

«Mi sono recato sulla sua tomba» Dazai lo fissò sorpreso; ma prima che potesse dire qualsiasi cosa l’impiegato riprese;


 

«È stato il giorno in cui sei tornato dal primo mondo. Mi ero ripromesso di andare da lui dopo aver ricevuto il tuo perdono ma non ce l’ho fatta. Avevo bisogno di chiedergli scusa. Di dirgli cosa stavamo facendo»


 

«I morti non possono risponderci» Ango non si lasciò scoraggiare


 

«Dovresti andare da lui»


 

«E parlare con una tomba?»


 

«Prendilo come il consiglio di un amico, puoi seguirlo o meno. Ho lasciato a Murray il giorno libero, se vorrai potrai partire per una nuova realtà domani. Oggi prenditi del tempo per te. Fatti una doccia datti una sistemata hai un aspetto orrendo» Dazai sorrise;


 

«Ora parli esattamente come Chuuya» Ango non si lasciò sfuggere l’occasione, c’era un altro discorso che avrebbe voluto intavolare con l’ex dirigente e che aveva rimandato il più possibile. Proprio sul vessillo di Arahabaki.


 

«Hai abbandonato la Port Mafia, te ne sei andato in punta di piedi. Non hai detto una parola, non hai lasciato un messaggio. Che mi dici di Nakahara-san?» Dazai cercò di dissimulare il fastidio che quella domanda gli aveva provocato.


Le parole del Chuuya dell’ultima realtà erano ancora troppo vivide nella propria mente. Sapeva che la colpa era solo sua, era stato lui a nominare il proprio ex partner e Ango ne aveva approfittato.


 

«Quella Lumaca non ha niente a che fare con questa storia. Non so nemmeno dove sia»


 

Ango aprì l’ennesimo cassetto della scrivania ed estrasse una pila di documenti; si mise a leggere, dopo essersi schiarti la voce;


 

«Soggetto numero A5158. Una settimana fa è rientrato da..»


 

«Aspetta» lo interruppe Dazai «Cosa hai appena detto, una settimana? Che giorno è?»


 

Ango sbloccò lo schermo del proprio cellulare per mostraglierlo.


 

«Sono passati undici giorni dalla morte di Oda-kun»


Dazai aprì e richiuse le labbra. Undici giorni. Solo undici giorni.


 

«Va tutto bene?» il moro annuì col capo;


 

«Mi stavi parlando di Chuuya. Avrà trovato il mio regalo d’addio» abbozzò ad un sorriso


 

«Non scherzare. Sai meglio di me quanto Nakahara-san possa diventare un soggetto pericoloso»


 

«È un cane fedele. Non farà nulla senza avere l’approvazione di Mori-san e la sola cosa di cui al momento ho l’assoluta certezza è che il Boss non mi voglia morto» Ango gli schioccò un’occhiata perplessa;


 

«Avrebbe potuto uccidermi quel pomeriggio. Nel suo ufficio» iniziò a spiegare. «Invece mi ha lasciato andare. Così ho potuto assistere agli ultimi istanti di Odasaku. Forse anche quello faceva parte di una qualche strategia. Nell’ultima realtà che ho visitato credevo di averlo ucciso. Insomma sedevo sul trono della Port Mafia. Invece era stato tutto un piano. In quel mondo ero finito con il diventare come lui. Non voglio che succeda, non lo permetterò mai»


 

«Quando hai detto che hai ucciso Oda» tentò l’impiegato;


 

«Ho ricevuto una telefonata e dato un ordine. Non potevo sapere che fosse una condanna. Se non si fosse trattato di Odasaku avrei ucciso un’altra persona. Chi è marcio non può cambiare, forse io non posso cambiare. In fondo ho sempre pensato che la rettitudine mi odiasse»


 

«Non potevi saperlo. Non era il tuo mondo.»


 

«Questa volta l’ordine è partito da me. Non ho fisicamente sparato ma sono stato lo stesso il suo carnefice. Il destino ha uno strano senso dell’ironia. Ho pensato anche io di rinunciare ma non posso farlo Ango. Devo salvarlo. Solo quando avrò la certezza di aver fatto tutto il possibile potrò gettare la spugna. Ma non puoi chiedermelo ora, non dopo quello che ho fatto.» Ango annuì riconoscendo la propria sconfitta,


 

«Il Chuuya di quel mondo ha detto che Odasaku mi amava» l’impiegato rimase in silenzio;


 

«Mori era solito ripetere che in me rivedeva se stesso. Sono davvero così Ango?»


 

«Sei Osamu Dazai. E questo Oda lo sapeva. Ha sempre saputo chi sei, cosa sei. Ha visto tutta la tua oscurità e l’ha accettata» Dazai annuì fissando ancora la fotografia che non aveva mai smesso di rigirarsi tra le mani.


 

«Va da lui» Era il consiglio migliore che potesse offrirgli. Forse ci sarebbe voluto del tempo per ottenere il perdono del moro ma non si sarebbe arreso. Anche Ango aveva fatto la sua promessa a Oda, avrebbe vegliato sul loro comune amico, a qualunque costo.



***


Giunse in quel cimitero scortato da una delle auto che Ango aveva messo a sua disposizione. Aveva avuto il tempo di farsi una doccia prima di decidersi ad andare. Il sole stava tramontando e in lontananza si poteva vedere l’oceano, Dazai prese un lungo respiro. Quel luogo trasmetteva uno strano senso di quiete, a Odasaku sarebbe piaciuto. La lapide dell’amico non fu difficile da trovare, era una delle più recenti e il terreno ai propri piedi era ancora smusso.


«Scusa il ritardo Odasaku»


 

Si appoggiò con la schiena contro quella lapide. Sentendo improvvisamente bisogno di azzerare qualsiasi distanza tra di loro.


 

«Non mi arrenderò mai. So che tu saresti contrario a tutto questo, mi diresti di lasciar perdere, di accettarlo. Non posso. Te ne sei andato troppo presto. Ero io quello che sarebbe dovuto morire. Come hai potuto andartene prima di me? Ti odio davvero»


 

Accarezzò la fredda pietra.


 

«Se tu non mi avessi detto nulla quel giorno avrei preso una delle tue pistole e ti avrei seguito. Ma l’hai fatto anche per quello vero? Perché sapevi che eri tu la ragione che mi teneva ancorato alla vita. Così ora devo diventare un uomo migliore. Dannazione Odasaku.»


 

Diede un leggero pugno contro la lapide. «Hai sempre cercato di proteggermi. Ma io non sono uno dei tuoi orfani. Non lo sono mai stato. Non avevo bisogno della salvezza, mi bastava averti accanto. Sei stato un vero idiota Odasaku»


 

Solo allora notò i fiori ormai appassiti che doveva aver lasciato Ango. Si asciugò il volto con la manica del cappotto;


 

«Ango sta provando ad aiutarmi. Un giorno lo perdonerò ma ora è ancora troppo presto. Mi mancano le nostre serate, i nostri discorsi. Ora devo andare, se il mio piano funzionerà troverò una realtà dove possiamo vivere felici, altrimenti tornerò a trovarti»



 

***



 

«Dazai-kun sei sicuro di ciò che stai facendo?» domandò Ango sistemandosi gli occhiali;


«Se me lo domandi ancora potrei ammazzarti. Murray-san io sono pronto» e detto questo si mise ad urlare e gesticolare per attirare l’attenzione del altro impiegato governativo presente in quella stanza.


 

«Dazai» ritentò cercando di mantenere la calma che da sempre lo contraddistingueva;


«Se tutto va bene potrebbero essere i nostri ultimi momenti insieme potresti trattarmi meglio»


 

«Scusa, allora ti auguro buon viaggio» rispose dandogli una leggera pacca sulla spalla;


 

«Ora non sei sincero»


 

«Ho sempre avuto fiducia nelle tue capacità e lo sai» ma nemmeno tu puoi vincere contro il destino.


Sakaguchi Ango era stato messo in guardia dal proprio superiore. Nonostante l’Abilità di Murray era impossibile per Dazai salvare Oda Sakunosuke. L’ex dirigente sarebbe stato costretto a perderlo in ogni realtà. Ango aveva accettato quel compromesso, con la speranza, una volta concluso il tutto, di accogliere l’ex amico. Sapeva di aver giocato sporco e in un certo senso tradito nuovamente la sua fiducia.


Dazai doveva rassegnarsi alla perdita di Oda. Se non fosse intervenuto sarebbe stato capace di togliersi la vita. Ango lo sapeva, chiunque conoscesse il Demone Oscuro sarebbe arrivato alla sua stessa conclusione.


 

Lanciò un’ultima occhiata al moro intento a gesticolare a un terrorizzato Murray.


 

Quella sarebbe stata l’ultima volta si ripromise, in un modo o nell’altro Dazai avrebbe finito con il rinunciare. Avrebbe accettato il posto offerto da Taneda o comunque sarebbero riusciti a trovare un accordo soddisfacente per tutti.


 

Ango non riusciva a non sentirsi in colpa. Dazai si era affidato a lui e gli stava nuovamente piantando un pugnale nella schiena. Poteva ripetersi quanto voleva che lo stesse facendo per il bene del moro ma in realtà era solo l’egoismo a muovere i suoi passi.


 

Vedere Dazai sorridere in quel modo non fece altro che ricordargli chi in realtà fosse il proprio amico. Si era lasciato abbindolare dal suo dolore, che era certo fosse reale, nemmeno Dazai avrebbe potuto fingere così bene. Quel demone però possedeva molte facce, se il solo modo per proteggerlo sarebbe stato mentigli non si sarebbe certo tirato indietro. Ango aveva scoperto di avere quel talento, aveva fatto il triplo gioco tra pericolose Organizzazioni criminali, gestire Dazai non sarebbe stato meno complicato.


 

«Noi siamo pronti Ango-san» lo avvisò la voce di Murray strappandolo dai propri pensieri. Vide Dazai salutarlo con la mano, era chiaro che lo stesse solo prendendo in giro. Fece il possibile per ignorarlo;


«Procedete» e Dazai sparì di nuovo dalla sua vista.



 

***



Ormai si era abituato alla sensazione che l’Abilità di Murray gli provocava. Eppure ogni salto in una nuova realtà aveva qualche cosa di diverso dal precedente.


Quando riaprì gli occhi l’ex mafioso non si stupì di trovarsi in un posto sconosciuto. Anzi, aveva già dormito su un divano simile, ma al momento non riusciva a collegare nulla. Si sentiva stranamente stanco nonostante avesse goduto di una notte di riposo, che per lui equivaleva a poco più di cinque ore. Si striracchiò come un gatto pronto ad affrontare qualsiasi imprevisto quando il suo stomaco prese a brontolare. Si era completamente dimenticato di fare colazione.


Addocchiò un frigorifero ed una macchina per il caffè. Si versò un tazza fumante ma fece solo in tempo a prendere un sorso perché poi la bevanda finì con l’andargli di traverso. Distrattamente Dazai aveva notato il calendario attaccato al mobile della piccola cucina.

Doveva esserci un errore.

Recuperò dalla tasca dei propri pantaloni il cellulare, almeno quello non era cambiato, era lo stesso modello che ricordava. Lesse la data sullo schermo.


 

Ora non aveva alcun dubbio.


Si trovava quattro anni nel futuro.


Cosa voleva dire? Ma soprattutto Odasaku sarebbe stato ancora vivo da lì a quattro anni?

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Cow-t 12 – Quinta settimana – M2

 

Prompt: “E alla fine, niente lieto fine”

Fandom: Bungou Stray Dogs

 

Rating: SAFE (angst sempre)

 

Numero Parole: 3814

Note: Verlaine con la complicità di Baudelaire vuole utilizzare un’Abilità per riportare in vita Rimbaud. Ovviamente non è possibile. Storia di un incubo.



Era da poco sorta l’alba dopo una notte in cui era letteralmente successo di tutto. I tre uomini erano appena arrivati ad una base sicura. Quello però non era stato altro che l’inizio.

«È impossibile salvarlo» le parole pronunciate da Lewis furono come una doccia fredda. Nemmeno una frazione di secondo dopo, Verlaine aveva allungato entrambe le braccia con il chiaro intento di soffocare quel ciarlatano e successivamente anche il proprio complice.

Il Re degli Assassini aveva appena fatto evadere dalla prigione di massima sicurezza di Meursault l’unico dotato con l’Abilità di salvare Arthur che ora gli veniva a raccontare come non fosse possibile. Baudelaire avrebbe pagato con la vita la propria menzogna. Il biondo aveva odiato quel moccioso francese sin dal loro primo incontro, ma aveva deciso di fare buon viso a cattivo gioco. Charles Baudelaire sembrava intenzionato a salvare Rimbaud tanto quanto lui, questo era l’unico motivo che lo aveva tenuto in vita fino a quel momento. Continuò a fissare la figura del uomo che aveva liberato, si stava godendo una sigaretta mentre fissava il mare.

«Je suis désolé» aveva risposto con un orrendo accento inglese, storpiando ogni parola;

«La mia Ability non mi permette di riportare in vita i morti. Niente può farlo» aveva spiegato alzando le braccia. Verlaine aveva serrato i pugni cercando di fare il possibile per contenere la propria ira per non uccidere l’uomo all’istante. Inaspettatamente fu Baudelaire a parlare;

«Lo so benissimo Lewis ma puoi sempre aggirare il problema giusto?» entrambi i presenti si voltarono verso di lui.

«Spiegati meglio» gli intimò l’ex spia. Charles sorrise divertito. Aveva Verlaine in pugno, la possibilità di riportare indietro il compagno lo aveva reso debole, e lui non si sarebbe lasciato sfuggire una tale possibilità. Avrebbe potuto consegnare il famoso assassino al proprio Governo e finalmente riavere Arthur nella sua vita. Doveva giocare bene le proprie carte per assicurarsi il successo del proprio piano. Era diventato suo malgrado un Poète Maudit, una spia, stava solo facendo ciò che gli riusciva meglio, ingannare. La morte di Arthur Rimbaud aveva scosso più di una persona, Charles stava semplicemente cercando un modo per sopravvivere a quel dolore. Non aveva mai dimenticato il tempo trascorso insieme, per lui quel ragazzino dai capelli corvini sarebbe sempre stato Paul. Non l’assassino che aveva davanti agli occhi e al quale era stato proprio l’amico a dare un nome.

«L’Abilità di Carroll si chiama Wonderland. Grazie a questa può realizzare un desiderio, creando una sorta di realtà fittizia» iniziò a spiegare; Verlaine come sempre storse il naso.

«E quanto durerebbe l’effetto di questa Abilità?» domandò sempre più scettico.

Questa volta fu direttamente Lewis a rispondere;

«Posso impostare la durata a mio piacimento. Ho ancora parecchia gente a Londra abbandonata nelle proprie fantasie. Uno spettacolo meraviglioso» ammise divertito;

«Hai un potere pericoloso» l’uomo alzò le spalle con noncuranza;

«Un tempo lavoravo per la Torre dell’Orologio. So che hai ucciso un paio di miei ex colleghi. Tranquillo non sono tipo da portare rancore. Quegli idioti credevano che questa Abilità mi avesse dato alla testa e che vivessi io stesso in una delle mie fantasie, solo perché avevo proposto durante il tè delle cinque di tagliare la testa alla regina» Verlaine osservò Baudelaire che gli fece segno di tacere.

«L’Inghilterra non ha bisogno di un sovrano. Tutto qua. Ho tentato un regicidio e mi hanno fermato. È stata quella dannata donna. Se mai un giorno tornerò a Londra sarà per la sua di testa»

«Agatha Cristie» spiegò Baudelaire. Non che ve ne fosse bisogno, Verlaine conosceva bene la fama dell’unica donna ai vertici dell’Organizzazione inglese, quanto della sua pericolosità. Non si era mai scontrato direttamente con lei ma qualcosa gli suggeriva come fosse meglio evitare qualsiasi coinvolgimento.

«Quindi» iniziò il biondo dopo qualche secondo speso in silenzio «Potresti condurmi in un mondo dove Arthur sia ancora vivo?» l’uomo annuì sorridendo;

«Posso creare il tuo mondo ideale sì»

C’era qualcosa che però ancora non convinceva l’ex spia francese;

«Come potrei fare ritorno alla realtà. Nel caso qualcosa vada storto» Fu il turno di Baudelaire di storcere il naso. Non sarebbe stato facile sbarazzarsi di quel dannato mostro. Lewis però non sembrò preoccuparsi di nulla. Probabilmente non si rendeva nemmeno conto di quanto la sua stessa vita potesse essere in pericolo in quel momento.

«Per rompere l’incanto basta che ti svegli» spiegò semplicemente;

«La mia Abilità ti farà cadere in un sonno profondo. Quando vorrai tornare in questo mondo basterà solo che tu apra gli occhi»

«Non è facile uscire dai propri sogni» ammise Verlaine. Lewis sorrise come un un predatore intento ad osservare la propria vittima. Al biondo quell’atteggiamento non piacque per nulla, era un’espressione che conosceva fin troppo bene.

«Finire in una realtà dove anche il più assurdo desiderio possa essere realizzato e desiderare di andarsene. Non mi è mai successo. Gli esseri umani sono soliti fuggire da questo mondo, ed è ciò che io offro loro, una via di fuga. Un posto sicuro dove scappare. Chi mai vorrebbe continuare a vivere nella sofferenza, nel dolore, quando posso regalare loro dei bellissimi sogni»

Verlaine era combattuto. Aveva la possibilità di riavere Arthur. Anche se si trattava di un semplice sogno avrebbe potuto rivedere il compagno, scusarsi con lui. Riprendere da dove si erano lasciati.

«Attento a ciò che desideri» furono le successive parole di Carroll che lo strapparono nuovamente dai propri pensieri;

«Gli uomini spesso finiscono con il diventare schiavi dei propri desideri» fu il turno di Verlaine di sorridere;

«Io non sono un uomo, e non sono un essere umano»

Baudelaire trasalì. A volte si dimenticava della bestia che aveva davanti agli occhi, del pericoloso Black No.12 un mostro creato in laboratorio per seminare morte e distruzione.

Come aveva potuto un simile essere arrivare a possedere il cuore di Arthur?


***


Delle volte gli era capitato di sognare. All’inizio era stata una sensazione strana, Verlaine non sapeva nemmeno di esserne in grado. Ricordava di essersi svegliato nel cuore della notte ed aver urlato, spaventando il compagno che dormiva nella stanza a fianco e che si era subito precipitato in suo aiuto.

«Hai semplicemente fatto un brutto sogno Paul» Era stata la semplice spiegazione di Arthur mentre con una mano gli massaggiava la schiena cercando di calmarlo;

«Un incubo» il biondo lo aveva guardato spaesato per una frazione di secondo interrogandosi su quelle parole. Lui era un’anima artificiale, come poteva sognare? Era una cosa propria degli esseri umani.

Arthur gli aveva sorriso, come sempre, e lo aveva guardato come un genitore fa con il proprio figlio. Aveva odiato questo suo atteggiamento, eppure, gli mancava. Dopo aver provato sulla propria pelle la sensazione data dalla perdita di una persona cara aveva dovuto rivedere molte delle proprie convinzioni. Quanto avrebbe desiderato in quei giorni avere la presenza del moro accanto. Rivedere quello sguardo paziente, sentire le sue parole, i suoi incoraggiamenti.

I mostri non sognano. Non hanno incubi.

Non sapeva se fossero i suoi pensieri o il risultato dato dal codice scritto nella propria coscienza a parlare.

Dopo la morte di Rimbaud però questi episodi erano aumentati. Per questo l’Abilità di Carroll non gli piaceva. Una parte di Verlaine sospettava che il proprio inconscio avrebbe finito per tramutare anche quel mondo ideale in un incubo.

Ma esattamente, quale sarebbe stato il suo mondo ideale? Ovviamente uno nel quale Arthur sopravviveva ma a che prezzo? Non era importante, avrebbe sacrificato ogni cosa per riavere il proprio compagno.


***


Paris est toujours Paris

La capitale francese era bellissima in qualsiasi periodo dell’anno e in qualsiasi stagione. Verlaine ricordava come ad Arthur piacesse in particolare l’estate. Il proprio compagno non aveva mai amato il gelo e il grigiore portati dalle giornate invernali. Paul non avrebbe saputo dire quale fosse la propria stagione preferita. Ogni mese portava in sé grandi e piccoli cambiamenti che gli facevano apprezzare questo o quel dettaglio della città. Aver passato i primi anni della propria esistenza in un laboratorio gli aveva permesso di apprezzare ogni più piccolo aspetto della vita all’aria aperta. Dal semplice passeggiare per gli Champs Elysées al sorseggiare un bicchiere di vino in uno dei numerosi Café.

Aveva scoperto quel mondo grazie ad Arthur, era stato lui a mostrarglielo. Rimbaud aveva tentato con tutte le sue forze di renderlo umano, di fargli apprezzare quell’esistenza che non credeva di meritare.

C’era il sole quella mattina. L’aria era primaverile. I primi fiori avevano iniziato a sbocciare colorando la collina di Montmartre. Gli artisti erano tornati a popolare le strade regalando ai turisti lo spettacolo dei propri disegni.

Parigi era il cuore della Francia e Paul Verlaine ne era assolutamente d’accordo.

Non ricordava perché stesse camminando per le vie della capitale, forse aveva un appuntamento con Arthur. Si, ora ricordava. Dovevano vedersi e parlare dell’ennesimo incarico che i loro superiori gli avrebbero affidato.

Si sedette al tavolo del solito Cafè. In quei mesi trascorsi nella capitale era diventato un cliente abituale tanto che i camerieri si ricordavano di lui. Aveva ricevuto pure un tovagliolo profumato con un numero di cellulare. Quel giorno Arthur aveva sorriso, spiegandogli come fosse un modo della cameriera per provarci con lui.

«Io non sono umano. Perché dovrei piacerle?»

Rimbaud aveva scosso la testa prima di regalargli l’ennesima occhiata comprensiva; un leggero velo di malinconia ad attraversagli lo sguardo.

«Perché sei bellissimo» poi aveva chinato il capo, « Il Fauno ti ha reso un bellissimo demone tentatore. Per gli standard umani sei molto attraente»

«Anche tu» aveva risposto immediatamente e il moro si era quasi strozzato con il vino;

«Paul» aveva iniziato con il solito tono pacato «Non sei ancora in grado di capire queste cose» e lui come sempre lo aveva odiato. Aveva sempre trovato Arthur bello o comunque diverso dal resto degli umani con i quali aveva avuto a che fare da quando era stato liberato. Perché il compagno non lo capiva? Era inutile, per quanto Rimbaud avesse cercato di occuparsi di lui non avrebbe mai compreso la solitudine che si celava nel proprio animo. Arthur era un essere umano, lui no. Quella realtà non sarebbe mai cambiata.

Nel frattempo era arrivato al Cafè dove la cameriera invaghita di lui lo aveva fatto accomodare. Ogni cosa lo riportava con la mente ad Arthur. Attese un paio di minuti prima di riconoscere la sua figura comparire all’orizzonte.

La spia non disse nulla accomodandosi nella sedia accanto ed ordinando a sua volta del vino;

«Allora come è andata la riunione?» Arthur si era levato sciarpa e cappotto, massaggiandosi le tempie;

«L’Europa è sull’orlo di una guerra» ammise incrociando le braccia al petto, osservando il bicchiere davanti a lui.

«Quale sarà il nostro compito?»

«Servire il nostro Paese» Paul aveva arricciato il naso;

«Io sono un’arma creata per situazioni come questa. Dimmi cosa mi chiedono di fare»

«Non dovrai fare nulla. Non possono permettersi che un dotato potente come te scenda sul campo di battaglia»

«Mi state proteggendo o forse nascondendo?»

«Entrambi. Qualcuno ti aveva proposto per la prima linea ma mi sono fermamente opposto. Siamo spie, agiamo nell’ombra»

«Hai paura che non sappia controllare la bestia dentro di me?»

Arthur aveva preso un lungo respiro, prima di prendere il bicchiere tra le proprie mani. Aveva osservato a lungo la figura del proprio partner prima di rispondere; quel profilo perfetto, come il volto leggermente imbronciato.

«Ho la massima fiducia in te Paul. Sono i miei superiori a preoccuparmi. Per non parlare del fatto che non sappiamo ancora il numero delle nazioni coinvolte»

«Possiamo vincere?» Arthur aveva scosso la testa;

«Dopo questo scontro niente sarà più come prima»

«Che altro c’è?» Perché non poteva esserci solo quello, l’espressione sul viso di Rimbaud parlava per lui. Gli stava nascondendo qualcosa e Verlaine era diventato troppo abile nel smascherarlo.

«Parto domani mattina per la Germania» il biondo non comprese subito il significato di quelle parole. Fissò l’uomo davanti a lui prendere l’ennesimo sorso di vino.

«Io» iniziò a dire ma venne subito fermato,

«Tu devi restare qui. Parigi è ancora una città sicura»

«Come puoi andare in guerra e lasciarmi qui?»

«Da quando ho bisogno del tuo permesso per fare qualcosa? È una missione Paul non fare il bambino. Siamo uomini del Governo, eseguiamo gli ordini che ci vengono dati che ci piaccia o meno»

«Come quando hai rinunciato al tuo nome o a Charles?» era un colpo basso ma le parole di Arthur lo avevano ferito. Quello era il solo modo che conosceva per vendicarsi.

Rimbaud non si scompose rimase in silenzio. Verlaine però non aveva nessuna intenzione di arrendersi;

«Portami con te. Sono una tua responsabilità»

«Hai un incarico da svolgere» gli fece notare, allungando un braccio per sistemargli meglio una ciocca ribelle di capelli intorno all’orecchio.

Verlaine si scostò da quel tocco infastidito. Era inutile, Arthur non poteva comprenderlo. Nessuno avrebbe mai potuto. Era solo al mondo.

Finirono di consumare le proprie bevande e lasciarono il Café.

Rimbaud partì la mattina seguente per Berlino. Lui rimase nella capitale francese.

Inaspettatamente però la guerra arrivò a Parigi. I bombardamenti si facevano di giorno in giorno più frequenti. Della città che Paul tanto aveva amato restava solo un pallido ricordo.

Erano mesi che non riceveva notizie da parte di Arthur. Non sapeva nemmeno se fosse ancora vivo. Una parte del suo animo si rifiutava fermamente di credere il contrario. Era una spia in gamba, l’uomo che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva. Era impensabile che fosse morto così, su un anonimo campo di battaglia.

Si rividero nel bel mezzo dell’ennesimo bombardamento, come se si fosse trattato di un film. Rimbaud stava cercando di utilizzare la propria Abilità per riparare dei civili. Verlaine occupato a fare altrettanto aveva notato in lontananza dei raggi rossi. Li avrebbe riconosciuti fra mille, come il loro possessore.

Arthur era esattamente come ricordava, i capelli corvini sempre più lunghi e mossi da una leggera brezza, l’immancabile cappotto sulle spalle. Gli era mancato. Fra tutti gli esseri umani che Paul avrebbe volentieri ucciso ne avrebbe salvato solo uno ed era l’uomo a qualche metro da lui. Non seppe che fare.

«Invece di startene lì impalato potresti anche aiutarmi» il biondo aveva sorriso per poi fare quanto detto rianimandosi da quel torpore che la visione di Arthur gli aveva lasciato. Finalmente erano di nuovo insieme. Parigi poteva anche bruciare, non gli sarebbe importato.

«Perché sei tornato? Anzi quando?» gli chiese non appena furono soli e la situazione si fosse tranquillizzata;

«Da un paio di giorni» ammise Arthur pulendosi la camicia dalla polvere che ormai la ricopriva;

«Perché non hai risposto ai miei messaggi?»

«Siamo in guerra, potevano trovarmi. Non ti ho insegnato nulla?» Verlaine però non voleva sentire ragioni. Era arrabbiato.

«Pensavo fossi morto»

«Credi che basti così poco ad uccidermi? Mi ferisci» e gli accarezzò il capo; l’altro non si scostò restando in silenzio

«Ti sono cresciuti i capelli» gli fece notare passandosi quei fili biondi tra le dita;

«Non ho avuto modo di tagliarli» rispose cercando di evitare di incrociare quello sguardo. Di colpo ogni cosa aveva smesso di avere importanza. Arthur era tornato. Era vivo.

«Ti stanno bene» disse prima di iniziare a intrecciare tra loro quelle ciocche dorate.

«Che stai facendo?»

«Zitto e vieni più vicino». Il biondo fece come detto.

«Voilà» disse poco dopo Arthur portando il proprio partner davanti ad uno specchio perché ammirasse il risultato del proprio operato. Gli aveva semplicemente spostato i capelli dal volto acconciandoli in una treccia che ricadeva di lato, legando il tutto in una coda bassa.

«Così quando combatti non avrai nulla davanti agli occhi» rispose mettendogli entrambe le mani sulle spalle. Paul stava per dire qualcosa quando l’ennesima esplosione spezzò quell’idillo.

La scena cambiò nuovamente prima che Verlaine potesse rendersene conto.

Era di colpo calata la notte o era semplicemente l’ambiente intorno a lui a essere privo di qualsiasi forma di luce. Mosse una mano a tentoni cercando di capire dove fosse e cosa stesse accadendo. Era forse finito in una trappola del nemico? Lo avevano drogato? Non se lo ricordava. Sentiva che c’era qualcosa di sbagliato ma non riusciva a comprendere cosa. Dove era finito Arthur?

«Così questo è il famoso Black No. 12» una voce sconosciuta lo aveva obbligato ad alzare il capo. Non conosceva l’uomo davanti a lui, aveva il viso semi nascosto da quell’oscurità che permaneva attorno a loro, oltre che possedere un accento difficile da collocare.

«Ho un’offerta da proporti» il biondo non aveva fiatato, rimanendo in attesa della prossima mossa;

L’uomo misterioso schioccò le dita prima di mostragli il corpo di Arthur trapassato da molti fori di proiettile.

Non era possibile. Doveva trattarsi di un’illusione.

«E’ ancora vivo» confermò l’uomo come se avesse letto nei suoi pensieri; Paul provò a fare un passo in avanti.

«Non così in fretta. Abbiamo bisogno di una cosa da te, Black. Il tuo codice. Vogliamo sapere come replicare la bestia del Fauno. Purtroppo i suoi appunti sono andati perduti. Gira voce che siano finiti da qualche parte in Asia, forse Cina o Giappone ma non abbiamo tempo per indagare. È più facile trovare il soggetto originale.»

«E come vorreste ottenere questo codice?» l’uomo sorrise;

«Semplice, ti smonteremo pezzo per pezzo»

«Bastardo»

«Scappa Paul. Non puoi batterlo» la voce di Arthur ora ridotta ad un sussurro lo aveva raggiunto, bloccando ogni suo movimento.

«Certo che posso. Sconfiggerò questo essere che non merita di definirsi umano e poi torneremo insieme a Parigi. Lì ti cureranno»

Il moro si sforzò di regalargli l’ennesimo sorriso.

«Non puoi più salvarmi»

Non puoi salvarlo. Non importa cosa tu faccia. Arthur Rimbaud è già morto.

No. Non poteva essere vero. Ma la voce nella sua testa non la smetteva di rimbombare.

Abbassò il capo. Le sue mani erano sporche di sangue. Come lo era il pavimento ai suoi piedi. Stava impazzendo. Era un incubo.

Arthur è morto in Giappone. Ha tradito la Port Mafia.

No. Si trovavano in Europa, erano ancora in guerra. Non erano mai partiti per quella missione che aveva finito con il dividerli. Verlaine non aveva tradito il proprio partner.

Lanciò un urlo prima di prendersi il volto tra le mani. Era nel suo letto. Era stato tutto un sogno. La porta della stanza si spalancò di colpo e le figure di Carroll e Baudelaire fecero la loro comparsa sulla soglia.

«Che succede?» indagò il francese,

«Nulla» si affrettò a rispondere, spostando la frangia di lato. Non avrebbe mai permesso a quel idiota di godere di quel suo momento di debolezza.

«Avete forse avuto un incubo Mr Verlaine?» si intromise l’altro inglese irritante.

«I mostri non hanno mai incubi. La loro semplice esistenza lo è, un lungo tormento senza fine» e regalò loro l’ennesimo sguardo di ghiaccio.

Dopo qualche istante ed essersi scambiati occhiate perplesse i due decisero di tornare nelle proprie stanze lasciando il Re degli Assassini da solo con i propri pensieri.

Verlaine si passò una mano sul volto, dopo aver giocato distrattamente con i propri capelli. Quella parte del sogno era vera, come quella conversazione al Café. Era stato qualche anno prima di partire per il Giappone, quando lo spettro della guerra aveva invaso il vecchio continente. Aveva preso ad intrecciarsi i capelli dopo quel giorno. Era un’altra delle cose che Arthur gli aveva insegnato.

Ricordava anche quell’uomo tedesco che aveva provato a fare del male al proprio compagno. In quell’occasione Paul aveva perso il controllo, ammazzandolo prima che Rimbaud potesse intervenire per fermarlo.

Erano tornati nella capitale per curare le ferite del moro che erano meno gravi di quanto inizialmente avesse previsto. Quella era stata la prima volta in cui il pensiero di perdere Arthur gli aveva attraversato la mente. Fino ad allora Verlaine non ci aveva mai pensato. In fondo il compagno era umano e in quanto tale prima o poi sarebbe inevitabilmente andato incontro alla propria morte. La cosa che maggiormente gli aveva dato pensiero però era stata la sensazione che aveva sentito nascere nel proprio petto. Si era sentito mancare, come se all’improvviso gli avessero levato l’aria dai polmoni.

Era successo di nuovo il giorno in cui aveva scoperto della morte di Arthur. Il partner che aveva tradito, che aveva creduto di aver ucciso era morto. Solo. In un continente così lontano.

Verlaine non era là e la cosa lo aveva turbato. Aveva passato anni nella convinzione di aver ucciso il proprio partner per poi scoprire che non solo era sopravvissuto ma in quegli anni, in cui era stato privato della propria memoria, aveva condotto una vita diversa. Una dalla quale lui era stato escluso.

Non lo accettava. Non avrebbe mai accettato la morte di Arthur. Lo avrebbe salvato o comunque riportato indietro.

Non puoi salvarlo.

La voce nella sua testa, quella macabra melodia che faceva da sfondo ai suoi pensieri non sembrava volesse dargli tregua.

Non importa quante volte tu ci possa provare il destino è ineluttabile. Non puoi vincere contro di lui.

No. Paul Verlaine non credeva nel destino, era l’ennesima creazione umana. Chiuse nuovamente gli occhi. Le immagini del corpo senza vita del partner gli tornarono alla mente. Chissà come doveva essere stata la sua esecuzione. Il corpo di Arthur sarebbe stato coperto di sangue come continuava a rivederlo nei propri incubi?

Qualcosa gli suggeriva di come Rimbaud sarebbe stato perfetto anche nella morte. Provò a riaddormentarsi cullato dai ricordi di un passato che mai come in quel momento gli sembrava lontano, distante.

Sapeva che i morti non potevano tornare in vita. Non era un bambino, non era un pazzo e non era un ingenuo. Rivoleva solo l’unica persona importante della sua vita e per questo sarebbe stato disposto ad attraversare anche l’inferno, o a scatenarlo.

Avrei voluto farti un altro regalo di compleanno, il primo mi dispiace che non ti sia piaciuto

In quel momento, Verlaine finalmente riconobbe la voce nella propria testa. Era Arthur, era lui che continuava ad affollare i suoi pensieri.

Di riflesso osservò la propria bombetta abbandonata accanto al cappotto. Non lo aveva mai ringraziato per quel regalo. C’erano tante, troppe cose che non era mai riuscito a dire ad Arthur. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per rimediare.

 

Io sono morto. Non sono altro che un fantasma. Mi dispiace Paul ma dovrai imparare a vivere senza di me.

 

L’essere artificiale scoppiò a ridere. Non sarebbe certo stata la prima volta in cui avrebbe disobbedito ad un ordine del proprio compagno.

 

Come aveva detto qualche istante prima, i mostri non hanno mai incubi.

 

Non possiamo avere un lieto fine Paul, accettalo

 

Cullato dal suono di quella voce, Verlaine finì con l’addormentarsi di nuovo.

 

Quella volta non sognò nulla ad attenderlo c’era solo oscurità.

 







europa91: (Default)
 

 

Cow-t 12 – Quinta settimana – M2

 

Prompt: “E alla fine, niente lieto fine”

 

Fandom: Case Study of Vanitas

 

Rating: SAFE (con angst)

 

Numero Parole: 3635

Note: Primo tentativo in assoluto su questo fandom!! Un what if in cui immagino che Louis De Sade sia ancora vivo e che la sua morte sia stata una farsa ma qualcosa di orchestrato.




 



Ricordi, a Noè non resta nient’altro che questo, solo un pugno di ricordi. Un’alba su Parigi, il suono della voce di Vanitas, il suo sguardo, quegli occhi talmente blu in cui specchiarsi e vedervi riflesso molto più di quanto avesse mai immaginato. Il vampiro china il proprio capo, attendendo qualche secondo prima di intingere di nuovo la penna nel calamaio. Avverte il bisogno di concedersi qualche istante, per separare i ricordi che come un fiume in piena gli attraversavano la mente, non lasciandogli via di scampo. Ormai Noè non riesce a discernere cosa sia stato reale e cosa frutto della propria mente. Sono troppi i pensieri che affollano il suo animo, un nome su tutti, Vanitas. Chiude gli occhi, rivedendo se stesso arrivare tardi, la mano del ragazzo scivolare lentamente dalla sua. Sente il bisogno di mettere nero su bianco quei pensieri, non deve dimenticare, non può farlo. Non vuole. Dimenticare è un lusso che non gli deve essere concesso.

Vanitas

Poggia la penna dopo aver completato l’ennesima pagina e si prende di nuovo qualche istante per osservare il cielo fuori dalla finestra.

C’è la stessa luna di quella sera, del giorno in cui si sono visti per l’ultima volta. In cui si sono detti addio.

Da bambino, Noè ricordava di aver trascorso molte notti ad ammirare quell’astro trovandolo semplicemente bellissimo. Non gli era mai importato di che colore fosse, rosso o blu per lui non faceva alcuna differenza. Erano passati molti secoli eppure era incredibile come certe cose nonostante tutto fossero rimaste le stesse, immutate, come il corpo del vampiro o quelle zanne maledette. Osservare la luna aveva il potere di calmarlo. Lo riportava indietro nel tempo, a quando era solo un piccolo orfano e il Maestro lo aveva accolto nella propria casa.

Ripensò al giorno in cui aveva conosciuto Domi e Louis.

Louis

Noè intinse nuovamente la penna nel calamaio. Stava piangendo.

Il primo ricordo spesso riporta alla memoria anche l’ultimo.


***


Parigi – Molte notti prima



«Parlami di Louis»

Era iniziato tutto con una semplice frase, una richiesta che aveva abbandonato le labbra di Vanitas di solito piegate da un leggero sorriso di scherno ma in quel momento mosse da qualcosa di diverso che Noè non aveva saputo interpretare. Come sempre il vampiro avrebbe compreso solo in seguito le intenzioni dell’altro. Forse era davvero troppo ingenuo, come Vanitas continuava a ripetergli. Per questo aveva speso diversi secondi prima di rendersi conto del significato nascosto in quelle parole, come di quel nome che il possessore del Libro maledetto non poteva conoscere.

Louis era il suo segreto. Non ne aveva mai parlato in sua presenza. Ne era certo.

Il vampiro si limitò ad aprire per poi richiudere le labbra sgranando gli occhi ed assumendo l’espressione più sorpresa del proprio repertorio.

Era una situazione simile a quel giorno in cui aveva domandato a Vanitas il significato di amore, anche se questa volta i ruoli erano invertiti. Di solito era l’umano che sembrava possedere tutte le risposte ed era il compito di Noè quello di riempirlo di domande. Sapeva di non potersi ancora fidare completamente di Vanitas, aveva imparato suo malgrado a conoscerlo ma allo stesso tempo ad apprezzarlo. L’umano era quello che era. Lo era sempre stato. Sin dal loro primo incontro gli aveva rivelato quali fossero i propri intenti ed era stato lui il solito stolto a non comprenderli.

Ma Louis. Era un argomento che volutamente non avevano mai toccato. Apparteneva ad un passato che Noè vedeva così lontano ma il cui eco continuava ad inseguirlo con forza, senza lasciargli via di scampo. A volte, capitava ancora nel cuore della notte che si svegliasse in preda alle lacrime ricordando di come l’amico fosse spirato davanti ai propri occhi. Le ultime parole del piccolo De Sade, seguite dalla sua disperata richiesta d’aiuto. Noè avvertiva ancora il suo fiato caldo contro il proprio collo, mentre i loro volti si facevano sempre più vicini. La voce dell’amico rotta dai singhiozzi mentre lo pregava di ucciderlo.

Noè non avrebbe mai dimenticato quegli occhi disperati come la sua testa mozzata.

Da quel momento in poi la luna aveva smesso di brillare, la Terra di girare. Il piccolo Archiviste era rimasto immobile mentre il suo Maestro gli tendeva la mano e sorridendo conduceva lui e Domi a casa, al sicuro, si, erano state quelle le parole che aveva utilizzato il vampiro senza volto, mentre gli accarezzava il capo.

A quel punto, il giovane Noè era stato invaso da un’improvvisa sensazione di sollievo, era sopravvissuto. Ricordava di aver alzato il volto cercando di trovare la stessa espressione sul viso del proprio salvatore. Non sapeva nemmeno lui cosa sperasse di vedere, paralizzato come era dalla paura, che ancora guidava i suoi movimenti.

Raccapricciante. Era stato il suo unico pensiero quando era riemerso da quel torpore che non gli aveva lasciato scampo.

Noè si era sentito un mostro. Oltre che un essere inutile. Non era stato in grado di fare nulla quella notte. Non aveva difeso Domi, i suoi amici e non aveva potuto salvare Louis.

Il suo migliore amico. La persona per lui più importante.

Sbatté un paio di volte le palpebre. Vanitas era ancora a qualche metro da lui e lo fissava con quelle iridi troppo azzurre per essere umane.

«Non conosco nessuno con quel nome» rispose cercando di scappare da quello sguardo pericoloso. Noè non riusciva a mentire davanti a Vanitas, a quegli occhi blu come la luna che avrebbe dovuto odiare, come quella stirpe maledetta che gli aveva arrecato tanto dolore. Eppure lui non riusciva ad odiare nessuno. Amava sia umani che vampiri, era convinto che nonostante tutto fossero simili, creature piene sia di pregi che di difetti.

«Vi ho sentiti l’altra sera. Tu e Dominique. Lei ha fatto quel nome» il ragazzo aveva ripreso a parlare e dall’espressione comparsa sul viso del vampiro, capì di aver fatto centro.

Sotto certi aspetti Noè era un completo mistero. Lo era stato sin dal primo momento in cui le loro strade si erano incrociate. Vanitas non aveva mai incontrato nessuno come lui, né tra gli umani né tra i vampiri. Era un pericoloso mix di stupidità, forza e innocenza. Si ripeteva di odiarlo, di non sopportarlo, eppure non riuscivano a stare troppo lontani l’uno dall’altro. Per convenienza si era ripetuto, anche se preferiva non interrogarsi troppo su quella questione. Si preoccupava per lui, era innegabile e Dante si era premurato spesso di farglielo notare.

C’erano delle cose di Noè che gli piacevano, o meglio, aspetti che trovava divertenti. Come il suo sguardo che si illuminava ogni volta che si trovavano per le strade di Parigi. O mentre assaggiava una tarte tatin.

Anche se in realtà, erano di più quelle che trovava fastidiose, come il bisogno costante di doverlo tenere sotto controllo. Bastava una minima distrazione e finiva con il perdere le tracce del vampiro. Un pomeriggio aveva speso mezz’ora a cercarlo per poi scoprire che era semplicemente tornato in albergo. Ricordava come il suo cuore avesse perso un battito quando aveva creduto che fosse in pericolo di viita per poi trovarlo a riposare tranquillamente nel proprio letto abbracciato al solito cuscino.

Nonostante tutto però Vanitas non poteva impedirsi di provare un leggero senso di fastidio ogni volta che il suo sguardo finiva con l’incontrare quello di Dominique. E la donna l’aveva capito. Sapeva come la propria presenza al fianco di Noè non fosse gradita. Aveva tentato sin dal loro primo incontro di separare il suo amico da quel pericoloso umano ma non c’era riuscita, e da quel momento in poi aveva iniziato una crociata silenziosa contro Vanitas. Distratta solo dalla dolcezza di Jeanne.

«Ti ripeto che non conosco nessun Louis» aveva ribadito Noè continuando a distogliere lo sguardo, cercando di accarezzare Murr che continuava a passargli davanti.

«Cosa stai cercando di nascondermi?» aveva insistito l’umano prendendosi gioco di quella reazione, avvicinandosi.

«Non è una storia che ti riguarda» Vanitas sorrise, il vampiro era così ingenuo. Non c’era quasi gusto nel provocarlo. Era troppo facile.

«Allora ammetti che ci sia qualcosa» fu in quel momento che Noè capì di essersi scavato la fossa da solo. Era finito nell’ennesima trappola di quel mascalzone.

«Era il fratello di Domi. Il mio migliore amico» finalmente il vampiro trovò il coraggio di guardarlo negli occhi. L’uomo aveva inclinato leggermente la testa, confuso da quelle parole.

«Era?»

«Louis De Sade è morto. Molti anni fa»

Per una volta, Vanitas si pentì della propria curiosità. In fondo anche lui aveva un passato oscuro che mai avrebbe voluto far trapelare e soprattutto conoscere a Noè. Al laboratorio del Dottor Moreau il vampiro dai capelli argentei aveva finito con lo scoprire degli esperimenti ma era stato solo dopo aver bevuto il sangue di Misha che aveva potuto comprendere la sofferenza di Vanitas o il suo legame con il clan della luna blu. C’erano così tante cose che avrebbe preferito nascondere. Per questo aveva sempre rifiutato a Noè il proprio sangue. Sarebbe stato troppo.

«Io. Ecco» per la prima volta era un difficoltà, non aveva la minima idea di come comportarsi in una situazione simile. Non credeva che un nome avrebbe riesumato ricordi tristi, aveva agito senza riflettere. Noè aveva un’espressione talmente triste che sembrava sul punto di scoppiare a piangere. Fu però lo stesso vampiro a salvarlo da ogni impiccio;

«Non potevi saperlo. In fondo per te era un semplice nome. Per me Louis era molto di più di questo.» Fu come ricevere una pugnalata in pieno petto. Vanitas non aveva mai provato in diciotto anni di vita una sensazione simile. Era come se improvvisamente il proprio cuore avesse smesso di battere. Nemmeno la vicinanza di Jeanne o il suo morso avevano provocato tanto, ma nemmeno gli esperimenti a cui era stato sottoposto. Era un dolore diverso che semplicemente aveva la forza di bloccargli il respiro.

«Louis, il fratello maggiore di Domi. Eravamo sempre insieme. Era tranquillo, colto e a volte dispettoso. È stato decapitato quando eravamo bambini perché maledetto» nel dirlo Noè si protese in avanti portandosi una mano alla bocca, sembrava sul punto di vomitare. Anche se a Vanitas ricordò molto più un attacco di panico. Si avvicinò non sapendo bene da dove iniziare per aiutarlo. Chissà cosa era successo in passato, e del perché vedere il vampiro in quello stato lo avesse scosso tanto profondamente. Non si era mai interrogato su quanto Noè contasse per lui. Non era nemmeno certo di voler conoscere la risposta.

Ricordare faceva male per l’ultimo degli Archiviste, questa volta era come immergersi in un’oscurità senza fine. Si sentiva trascinare sempre più a fondo, in profondità. In un luogo dove nemmeno la luce della luna poteva raggiungerlo. Era una sensazione non troppo dissimile da quella che provava la prima volta che assaporava il sangue di qualcuno. Noè stava letteralmente affogando nei propri ricordi, nel dolore che la morte di Louis aveva provocato. Troppi sentimenti affollavano il suo animo e la sua mente. Compresa la voce di Naenia, quella poteva distinguerla chiaramente nonostante il caos dei propri pensieri. Furono le braccia di Vanitas a riportarlo alla realtà. Quando il vampiro aprì gli occhi si trovò stretto nell’abbraccio dell’umano. Vanitas era così caldo. Era un tepore piacevole.

«Non sono stato in grado di salvarlo. Non sono riuscito a fare nulla. Avrei tanto voluto avere il potere di proteggerlo» ammise tra i singhiozzi.

Vanitas si trovò ad accarezzargli la schiena, quella era la prima volta che provava a consolare qualcuno e non era sicuro di come muoversi. Tutta quella situazione lo aveva preso in contropiede.

«Hai detto che eri un bambino. Cosa avresti potuto fare?» Noè tirò su col naso facendo attenzione a non sporcare le vesti dell’umano a cui restava saldamente aggrappato.

«Eravamo diventati amici con dei bambini che vivevano al villaggio. Giocavamo sempre insieme ed avevamo persino trovato un nostro rifugio segreto. Ero insieme a Louis quando Domi entrò in camera e ci disse che una di quei bambini, Mina sarebbe stata giustiziata dai Borreau il mattino seguente. Non potevo accettarlo» Vanitas non faticò ad immaginarsi quella scena, come anche il resto del racconto del vampiro. Noè era così prevedibile.

«Avevamo deciso di salvarla. L’avremmo fatta fuggire di nascosto nel cuore della notte»

«Noè» tentò ma il vampiro non lo fece proseguire.

«Eravamo solo dei bambini. A quel tempo non avevo la più pallida idea di cosa volesse dire essere un Maledetto. Lo scoprii quella sera, quando vidi Mina perdere il controllo in preda alla sete ed attaccare Fred. Ero paralizzato dalla paura, non sapevo che fare» il vampiro strinse i pugni e Vanitas in risposta fece lo stesso, stringendo la propria presa su di lui, impedendogli di scappare.

«Che cosa avvenne poi?» perché l’umano era certo, il peggio doveva ancora arrivare.

«Louis attaccò Mina» Noè iniziò a tremare.

«Poi perse il controllo e attaccò anche Gilles e Fanny. Quello non era il mio Louis, non poteva esserlo. I suoi occhi. I suoi occhi » cercò di disfarsi da quell’abbraccio solo per prendersi il volto tra le mani. Ogni volta che riviveva quella scena il dolore diventava insopportabile. La voce di Naenia nella sua mente non gli lasciava scampo, continuando a ricordargli come quel giorno avesse fallito nel proteggere i propri cari. Chiedendogli a gran voce quale fosse il suo più grande desiderio. Come se non fosse ovvio. Riaverlo.

«Louis non era in sé. Doveva essersi contagiato dopo aver ucciso Mina. Mi pregava di ucciderlo, di porre fine alle proprie sofferenze»

«Che hai fatto Noè?» Vanitas aveva quasi timore di ascoltare una risposta;

«Ero completamente paralizzato dalla paura. Non potevo fare nulla. Sono rimasto immobile. Louis era davanti di me, in quel momento gli avrei lasciato bere il mio sangue. Gli avrei concesso ogni cosa perché tornasse ad essere l’amico che ricordavo» qualcosa non tornava in tutta quella storia; più di un sospetto si fece largo nella mente di Vanitas.

«Chi l’ha ucciso?» solo allora Noè sembrò tornare alla realtà. Lo fissò spaesato prima di rispondere;

«Il mio Maestro. Era tornato prima da un viaggio di lavoro. Ha salvato me e Domi. Decapitando Louis»

«Ha decapitato il suo stesso nipote?» la crudeltà di certi vampiri aveva ancora nonostante tutto, il potere di sorprenderlo;

«Non avevano legami di sangue» si sentì in dovere di spiegare Noè.

«Ciò non toglie che l’abbia ucciso» fu la replica di Vanitas «Non so che strani concetti voi vampiri abbiate di amicizia o famiglia. L’uomo che ti ha cresciuto ha ucciso un ragazzino davanti ai tuoi occhi come puoi difenderlo?»

In effetti le parole di Vanitas avevano un senso, allora perché Noè non riusciva a odiare il proprio Maestro? Aveva incolpato in tutti quegli anni solo se stesso. Era colpa sua se Louis era morto. Se solo lo avesse ascoltato, se quel giorno avesse lasciato che fossero i Bourreau ad occuparsi di Mina.

Sentì le proprie palpebre farsi improvvisamente pesanti. Aveva sonno, tanto sonno. A nulla valsero i tentativi di Vanitas, Noè finì con il chiudere gli occhi.


Cosa c’è Mon Chaton? Cosa turba i pensieri del mio gattino?

Il vampiro sentì una mano scompigliargli amorevolmente i capelli

«Maestro perché avete ucciso Louis?» domandò con la voce ancora impastata dal sonno

Per proteggerti. Louis era Maledetto, non avremmo potuto salvarlo.

«Sapevate dell’esistenza del Libro di Vanitas, potevamo fare un tentativo, potevo salvarlo»

Oh Mon Chaton, credi che se ci fosse stato un altro modo non lo avrei trovato?

«Avete ragione. Avete sempre badato a noi» il sorriso del nobile si allargò a quelle parole

Ora riposa e non pensare al passato, concentrati sul compito che ti ho affidato

«Non vi deluderò»

So che non lo farai


Noè si era improvvisamente addormentato tra le sue braccia, le lacrime ancora a bagnargli il volto. Da quando si conoscevano Vanitas non lo aveva mai visto tanto vulnerabile, lo avevano avvelenato, drogato, picchiato ma mai il vampiro gli era sembrato fragile come in quella situazione. Lo mise a letto per poi fuggire come era solito fare dalla finestra. Una volta sul tetto incontrò l’ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere.

Dominique De Sade lo fissava con astio come se fosse un fastidioso insetto da schiacciare.

«Perché gli hai chiesto di Louis» andò dritta al punto senza inutili fronzoli e giri di parole. Era una qualità che Vanitas gli aveva sempre apprezzato. La schiettezza. Dominique era sincera, fin troppo e persone come lei erano rare da trovare, sia tra gli umani che tra i vampiri.

«Non sono affari tuoi» e gli regalò l’ennesimo sorriso di scherno

«Avete parlato con Noè della morte di mio fratello, penso che si, siano affari che mi riguardino»

«Vi ho sentito pronunciare il suo nome l’altra sera» fu la risposta di Vanitas. Non si premurò di celare il fastidio che provava nell’ammetterlo. Una parte di lui odiava assistere alle effusioni tra Noè e quella donna. Poteva sentire nelle proprie orecchie ancora i suoi gemiti di piacere alternati ai suoi: mon cheri. Non era geloso, sia ben chiaro, solo infastidito. Avrebbe potuto anche lui invitare Jeanne, lasciarle bere il proprio sangue. Dovette faticare per non immaginare Noè fare altrettanto. Chissà se i suoi morsi sarebbero stati diversi da quelli della ragazza. Scosse la testa per quell’assurdità e arrossì al solo pensiero.

«Oh oh chi l’avrebbe mai detto che sei un guardone» Vanitas abbassò lo sguardo, colto in fallo.

«Siete voi che non sapete controllarvi. Dannati vampiri. Tu hai fatto quel nome e io ho semplicemente chiesto. Non credevo che avrei finito per lo scatenare una simile reazione e ridurlo in quello stato»

Dominique tornò seria rinfoderando la propria spada, che aveva sguainato solo per fare scena, sistemandosi una ciocca di capelli dietro all’orecchio.

«Louis era mio fratello. È stato giustiziato in quanto Maledetto.»

«Sono le stesse parole che ha usato Noè»

«Allora perché mi sembra ancora di scorgere il dubbio nei tuoi occhi?»

«Semplicemente perché non credo che le cose siano andate in quel modo» la donna si avvicinò e prima che potesse accorgersene Vanitas si ritrovò di nuovo con una spada puntata alla gola;

«Non dire una parola» gli intimò. Il ragazzo alzò le braccia in segno resa

«Ho solo espresso un ragionevole dubbio. La storia di Noè fa acqua da tutte le parti. Prima mi racconta di un rifugio segreto. Se era tale allora come faceva vostro nonno a conoscerlo? E la tempistica con la quale è intervenuto, fin troppo sospetta. Conosciamo entrambi Noè e sappiamo quanto sia ingenuo, facile da ingannare. Non mi stupirebbe se...»

«Ti ho detto di smetterla» Vanitas però continuò;

«Cosa mi stai nascondendo Dominique? Cosa c’è nel passato di Noè?» la donna lo spinse via;

«Attento. Non scavare troppo nella nostra famiglia. Potresti trovare delle risposte spiacevoli. La curiosità si può pagare a caro prezzo» e detto questo gli voltò le spalle lasciando Vanitas solo con i propri pensieri.

Louis De Sade

Non avrebbe dimenticato facilmente quel nome.

La persona più importante per Noè.


***


Poco distante – in una villa nei pressi di Parigi



«Erano mesi che non passavi a trovarmi. Ti sono mancato o devo dedurre sia successo qualcosa, Domi?»

«Vanitas, l’umano a cui si accompagna Noè. Sta iniziando a fare troppe domande, lo stavo per uccidere solo per aver avuto l’ardire di fare il tuo nome» il ragazzo la afferrò per le spalle prima di chinarsi e far collidere le loro fronti. Era un gesto così semplice, intimo, come quando erano piccoli.

«Il nostro Chaton è al sicuro. Se avessi anche solo il minimo dubbio sai che non esiterei a mettermi anche contro nostro nonno per lui»

«Louis» sussurrò a pochi centimetri dalle sue labbra. Il fratello sorrise.

«So quanto sia difficile per te mantenere questo segreto soprattutto con Noè ma sai anche che ho le mie buone ragioni per volerlo»

«Si è addormentato piangendo e sussurrando il tuo nome» confessò la ragazza allontanandosi dal proprio gemello;

«Ho fatto quello che ho fatto solo per voi» lei gli sorrise;

«Bugiardo. So che l’hai fatto per lui, e ti capisco, in fondo anche io provo lo stesso.»

«Vorrei tanto tornare a quei giorni spensierati, alla nostra infanzia, ma sappiamo entrambi come non sia possibile. L’unica cosa che posso fare è proteggerlo e questo è l’unico modo» lei gli prese la mano;

«Lo so, eppure penso che vederti vivo sarebbe l’unico desiderio di Noè»

«Per il mondo Louis De Sade non è mai esistito» Dominique abbassò lo sguardo.

«Attento. Potresti arrivare a perderlo per sempre»


***


«Saremo sempre insieme vero?» Noè aveva posto quella domanda con la sua solita ingenuità mentre intrecciava l’ennesima collana di margherite. Louis, a qualche metro da lui aveva alzato gli occhi dal proprio libro solo per sbuffare;

«A volte sei davvero un bambino» il vampiro più piccolo gonfiò le guance.

«Ma io voglio vivere per sempre con te Louis» l’altro non poté fare a meno di arrossire di fronte a quelle parole. Non si sarebbe mai abituato a quella sincerità disarmante. Noè riusciva sempre a smuovere il suo animo di solito insensibile, l’aveva fatto sin dal primo giorno in cui si erano incontrati.

«Sai che non è possibile» gli fece notare

«Perché no? Sarebbe bellissimo e potrebbe venire anche Domi. Vivremo tutti e tre insieme in questa casa. Non cambierà mai nulla»

Quella visione venne sostituita da una mano sporca di sangue. Non si trovavano più in un prato fuori dalla residenza estiva dei De Sade ma nel loro rifugio. Il sogno si era trasformato in un incubo.

Noè alzò lo sguardo solo per incontrare, a pochi metri da lui, la testa mozzata di Louis abbandonata in un lago di sangue.

Saremo sempre insieme vero?

Quella favola non sembrava essere destinata ad avere un lieto fine.



europa91: (Default)

Cow-t 12 – Quinta settimana – M2

Prompt: e alla fine niente lieto fine”

Fandom: The Case Study of Vanitas

Rating: SAFE (angst sempre)

Numero Parole: 2050

Note: due bambini e una favola della buona notte.



«Ce soir, mes petites enfants, je vais vous raconter une histoire. Une nouvelle que personne ne connaît.»

«Comment tu le sais?» l’enfant aux cheveux argentés comme le reflet de la lune interrompt l’homme qui, livre ouvert sur ses genoux, lui racontait encore une autre fable de bonne nuit.

«Tu lui ressembles beaucoup» c’est tout ce qu’il a pu dire en frottant ses cheveux d’une main.

«Va de l’avant avec l’histoire» le poussa une deuxième voix. Il appartenait à une petite fille aux cheveux de corbeau qui, déjà au lit, et avec une peluche dans ses mains, attendait la suite de cette histoire. Son frère lui répondit avec une grande langue;

«J’ai juste posé une question»

«Mais tu as interrompu l’histoire de papa» l’homme sourit de nouveau.

«Chatons la nuit est encore longue nous avons tout le temps pour nos histoires»

En tant qu’enfant, il gonfle les joues en colère et rejoint la sœur au lit. L’homme s’approcha assez pour les border avant de s’emparer d’une chaise et la mettre à côté d’eux. Elle ouvrit le livre qu’elle avait entre ses mains. Elle se mit à crier extatique;

«C’est l’histoire de Vanitas vrai?» l’homme répondit avec un sourire amusé. Sa fille lui ressemblait trop. Elle était vraiment intelligente pour son âge.

"Qui interrompt papa maintenant ?"

"Chatons"

L’homme aux longs cheveux noirs sourit en ouvrant à nouveau le livre qu’il avait entre les mains, jetant un regard par la fenêtre. La lumière de la lune illuminait toujours Paris.

"Notre histoire commence par une nouvelle nuit de lune."

"De quelle couleur était cette lune" l’interrompit de nouveau;

«La lune était bleue comme les yeux de notre protagoniste. Le grand Vanitas. Il venait d’arriver en ville après avoir découvert que de nombreux vampires maudits faisaient leur apparition.»

«Vanitas était humain, n’est-ce pas?» demanda l’enfant, même si elle connaissait cette histoire par cœur, elle aimait interrompre le parent.

«C’était déjà un être humain. Vous voyez mes chatons, autrefois humains et vampires ne s’entendaient pas comme maintenant, il y avait eu beaucoup de guerres entre les deux espèces. Mais c’est une autre histoire. Vanitas était récemment en ville quand sa route a fini par se croiser avec celle d’un vampire, Noé Archiviste»

Les deux enfants ont battu leurs mains avec les yeux pleins de joie. Noé était leur deuxième personnage préféré, le premier évidemment, était Vanitas.

«Ce fut une rencontre à certains égards normale»

«Mais papa ne s’est pas rencontré dans un dirigeable?»

«Quand Vanitas est tombé dans le vide, Noé a-t-il couru pour le sauver?» l’homme déboîta, repensant encore une fois à la ressemblance de ses fils avec lui.

«Vous voulez raconter l’histoire?» Les deux petits se sont calmés en revenant sous les couvertures.

«Noé se jeta dans le vide pour sauver un homme qui pour lui n’était rien d’autre qu’un étranger. Vous voyez qu’il était comme ça. Il était bon et altruiste toujours prêt à se sacrifier pour les autres. Mais il était aussi fort et décidé quand la situation l’exigeait. Vanitas avait compris dès le début que Noé n’était pas un vampire ordinaire. Il ne connaissait pas le pouvoir du clan des Archivistes comme le vampire ne savait rien de son passé, pourtant, dans une nuit de lune comme celle-ci leurs chemins se sont croisés.»

«Que s’est-il passé ensuite?» La petite fille était revenue à la charge. Il était incroyable l’énergie que les petits dhampyr pouvaient avoir.

«Ils ont commencé à coopérer même s’ils se détestaient. Vanitas était un médecin qui avait juré de sauver toute la race des vampires. Noé était un simplet de campagne qui ne semblait rien connaître du monde et regardait tout avec un regard plein d’émerveillement. Ils étaient deux êtres si différents et pourtant en même temps complémentaires. Noé avait été chargé par son Maître d’enquêter sur le mystérieux livre que Vanitas portait avec lui et avec lequel il soignait les maudits. Vanitas détestait Noé parce qu’il ne pouvait pas le comprendre. Il était trop naïf pour être un vampire. Il disposait d’un tel pouvoir, mais il n’était pas en mesure de l’utiliser, sans parler du fait qu’il ne savait pas lire l’atmosphère, il parlait et agissait surtout sans penser à saboter n’importe quel plan.»

La petite fille sourit;

«Vanitas quand il s’est aperçu qu’il l’aimait?» l’homme revint regarder par la fenêtre. Dans ses yeux apparaît une légère ombre de mélancolie.

«Vanitas essaya de comprendre ses sentiments en essayant de tomber amoureux d’une femme. un vampire, Jeanne. Elle savait qu’elle ne lui rendrait jamais la pareille, et au début, c’est elle qui l’attirait. Elle n’avait jamais pensé à l’amour. Il ne se croyait pas digne de ce sentiment. Il l’embrassa de trahison, encore et encore, arrivant à lui offrir son sang et finissant par être marqué par elle. Cela ne fonctionna pas. Chaque fois qu’elle croisait les iris améthystes de Noé, Jeanne revenait dans l’oubli. C’était comme si elle n’existait pas. Parmi tous, un soir, Noé offrit sa main à Vanitas. Une danse. Ce devait être une simple danse. Il lui suffisait d’un contact, d’un toucher de mains, et Vanitas remarqua les battements de son cœur accélérés.»

«Et il ne ressentait pas la même chose avec Jeanne?»

«Non. Avec Noé, c’était complètement différent, tout avec lui l’était. Quand ils étaient ensemble, c’était comme s’ils étaient les seuls au monde. Pendant cette danse, le vampire lui demanda ce qu’il voulait dire par amour. Mais le médecin ne pouvait pas le savoir, simplement parce que personne ne lui avait appris. Vanitas à ce moment ne se croyait pas capable d’aimer ni de se faire aimer.

«Mais Noé n’avait-il pas de petite amie?» Cette fois, c’était l’enfant que l’homme croyait endormi. Son fils pointait ses iris bleus sur lui en attendant confirmation.

«Oui, une espèce. C’était une amie d’enfance. Mais vous voyez mes chatons. Noé était un naïf.»

Les deux enfants rient.

«Nous le savons»

«Dominique, le vampire en question avait toujours aimé Noé, mais il ne s’en était jamais rendu compte.»

«Même pas en buvant son sang?»

«C’était un idiot»

«Noe et Vanitas affrontèrent beaucoup d’ennemis et les battirent parce qu’ils étaient ensemble. Si Vanitas n’avait jamais rencontré ce vampire, il n’aurait jamais pu réaliser son rêve, et même Noé sans l’humain n’aurait pas compris son passé et son vrai pouvoir.»

L’homme regarda ses enfants, ils étaient sur le point de succomber au sommeil. Heureusement, ce conte de fées touchait à sa fin.

«Vanitas déclara ses sentiments à Noé la veille de la bataille finale. Le vampire ne comprit pas immédiatement, donc le médecin lui prit littéralement la tête dans ses mains et l’embrassa, ne lui laissant aucune chance. Noe mit une fraction de seconde à comprendre avant de l’embrasser à son tour. Ils avaient tous les deux été stupides. Ils avaient perdu tant de temps, et maintenant ils étaient à court.

C’était la énième nuit de lune qu’il vit les deux pour la première fois s’unir et s’aimer. Pour Noé, Vanitas fut le premier, il l’aima avec une attention et un sentiment jamais vus. Il avait peur de briser cette créature parfaite qui n’arrêtait pas d’invoquer son nom dans ses larmes.

L’aube arriva trop tôt et les trouva encore ensemble et enlacés. Ils ne se disaient jamais "je t’aime" ils n’en avaient pas besoin, c’étaient les gestes qui parlaient pour eux. Cette nuit-là, il avait parlé pour les deux. Ils se vêtirent en silence et se préparent à affronter l’ennemi final.

Ce que Vanitas n’aurait jamais pu prévoir, c’est l’issue de la bataille. Le médecin aurait accepté la mort, il avait attendu ce moment toute sa vie. Il savait qu’il ne verrait pas la fin de cette histoire. Il avait prié dans ses larmes Noé de le tuer. Il l’a fait quand il a réalisé qu’il allait se transformer en un Maudit, en un monstre à détruire. Comme toujours, le vampire ne l’a pas écouté.

Vanitas s’était jeté dans le vide et, comme le soir de leur première rencontre, Noé l’avait poursuivi. Il saisit sa main et fut frappé à sa place.

«Noé, tu es un idiot»

Mais le vampire ne l’a pas écouté. Avec ses dernières peut-être qu’il a planté ses canines dans le cou de l’humain en essayant de lui enlever la malédiction en l’absorbant lui-même.

Quand il s’est rendu compte de ce qui se passait, Vanitas a essayé de résister de toutes ses forces.

«Tu vas mourir»

«C’est pas grave»

«Non, je refuse, je refuse.»

«Et je refuse ton refus» Le vampire lui sourit une dernière fois.

«La lune n’est-elle pas magnifique ce soir?»

Son corps était devenu poussière dans ses bras. Vanitas désirait mourir à son tour. Il avait perdu la seule personne qu’il avait jamais aimée, la vie n’avait aucun sens. Ils ont dû intervenir pour l’empêcher de commettre des actes inconsidérés. Vanitas passa les semaines suivantes sous surveillance étroite, surveillée jour et nuit. le livre s’était dissout avec la malédiction de la lune bleue. Sa tâche était terminée la race des vampires était sauvée.

Sa santé a commencé à se détériorer après un mois.

Pour un médecin comme lui, il n’était pas trop difficile d’arriver au diagnostic. Il était enceinte. C’était le fils de Noé.

Vanitas avait toujours su qu’il avait cette possibilité, au fond son corps avait été coupé et recousu plusieurs fois grâce aux expériences du Dr Monreau.

Un enfant, un enfant d’un vampire et d’un être humain. Même si Vanitas n’était pas certain de pouvoir encore se définir comme tel. Il portait le dernier Archiviste.

Vanitas donne naissance à des jumeaux, un mâle et une femelle. Il pensait à l’expression que Noé lui poserait, il lui poserait des questions idiotes comme d’habitude, mais il l’aimerait quand même.

Ce soir-là, la première nuit où ses enfants sont venus au monde, la lune était bleue. Vanitas les regarda ravis et se demanda comment il avait pu mettre au monde de telles merveilles. L’étreinte autour de sa poitrine devint plus ferme. Sa vie n’avait aucun sens, mais elle devait protéger ces créatures innocentes nées de son amour pour Noé. Le vampire a sacrifié sa vie pour le sauver, pour les sauver.

Il regarda à nouveau ses enfants avant de quitter la capitale.»

L’homme fermait le livre sur ses genoux. Lucius «Luca» était devenu adulte et avait finalement pris la place qui lui revenait parmi les vampires.

Les enfants dans leur lit dormaient sans savoir que l’histoire qu’ils aimaient tant parlait de leurs parents. Il avait décidé de les adopter, seulement de cette façon les petits Archivistes seraient en sécurité. Jusqu’au jour où, il espérait, Vanitas reviendrait à eux. A jeté un dernier regard dans le ciel avant de se lever à son tour. La lune était toujours magnifique.

«La lune n’est-elle pas magnifique ce soir?»

La voix de Noé était la seule chose qu’il entendit quand il fermait la porte derrière lui.

«Bonsoir mes chatons, je suis désolé que votre histoire n’ait pas eu une fin heureuse.»


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Cow-t 12 – Quinta settimana – M2

Prompt: “E alla fine, niente lieto fine”

 

Fandom: Bungou Stray Dogs – Beast AU

Rating: SAFE

Numero Parole: 2101

 

Note: Dazai che soffre. Però è Beast quindi tutto normale. Ah si, francese ancora XD

 






Dazai savait très bien dans quoi il s’engagerait, mais même s’il le savait, il ne pourrait pas l’éviter. C’était le prix à payer pour avoir décidé d’utiliser le Livre. Réécrire la réalité impliquait un prix. Il y avait toujours une facture à payer.

 

Il n’avait pas été facile d’assumer le rôle de leader du Port Mafia. Il avait toujours senti ce rôle lui tenir étroitement. Mori aurait souri en le voyant, peut-être, il aurait même été fier de lui. De ce qu’il était devenu. Un monstre sans âme.

Le prix à payer dans son cas avait été de mener une existence sans Odasaku. Il avait tout fait pour lui, pour le sauver d’un sort que son ami ne méritait pas. D’une mort qu’il ne méritait pas.

C’était bien comme ça.

Il avait réécrit l’histoire du monde juste pour sauver un seul individu. Un homme qui était son monde. Son seul ami. L’homme qui l’a sauvé de toutes les façons possibles.

Quand tout autour de lui était devenu insupportable, tellement qu’il ne pouvait presque plus respirer, il avait décidé de le rencontrer.

 

Il en avait déjà eu l’occasion, bien avant, quand il l’avait volontairement dirigé vers l’Agence. Une partie de Dazai avait toujours su que cet endroit serait parfait pour quelqu’un comme Odasaku.

Oda Sakunosuke. Depuis qu’il l’avait rencontré pour la première fois, cet homme avait su stimuler l’intérêt de Dazai. C’était une énigme à laquelle il voulait tellement trouver une solution. Un casse-tête. Au début, c’était tout. Puis ils avaient parlé. Comme pour toutes les choses, il avait fallu du temps avant que Dazai ne découvre l’évidence. Il ressentait quelque chose pour son ami. un sentiment qui allait au-delà du respect ou de l’admiration. Il se souciait ouvertement de lui, le défendait de tous ceux qui osaient contester ses capacités.

 

Dans son propre monde, il n’avait pas été en mesure de le protéger. C’était son plus grand regret. Sa faute. Le crime pour lequel il s’est autoproclamé et pour lequel il cherchait l’absolution.

 

C’est pourquoi, quand il avait eu la possibilité d’utiliser le Livre, il l’avait saisie. Un monde où Odasaku survivait. Il aurait renoncé à tout tant qu’Oda pouvait retrouver la vie qu’il avait perdue. C’est ainsi que son voyage avait commencé. Il ne se rappelait pas combien de mondes il avait visité. Combien de versions de la même histoire il avait vues. Il était arrivé à une conclusion: ils ne pouvaient pas être amis. Le salut d’Odasaku était enfermé dans cela. Dazai aurait dû sacrifier ce qu’il avait de plus cher, leur amitié. C’était suffisant. Il se contenterait du réconfort qu’il ressentait en le sachant vivant au lieu d’une tombe froide au cimetière.

Ainsi avait été. Il était arrivé dans ce monde, réclamé pour lui-même le trône de Boss de Port Mafia, embrassé complètement l’obscurité qui était déjà dans son âme. Il avait joué un rôle comme un acteur de théâtre. Plaçant un à un ses propres pions sur l’échiquier. Leur donnant un but. Il a envoyé Odasaku à l’Agence des Détectives Armés. Pris sous son aile le jeune Atsushi après avoir pensé qu’Akutagawa était un échec. Il avait choisi la petite Gin comme secrétaire seulement pour le pur plaisir, en plus de faire une méchanceté à l’ancien subordonné. Il s’était amusé. Pendant un petit moment, ce monde l’avait amusé. Peu importe qu’il soit devenu le mal à détruire, l’antithèse de ce qu’Odasaku aurait voulu pour lui. La vie de l’ami valait plus que le salut de son âme. Au fond, il était un démon. son âme était déjà plus sombre que la nuit. Ce n’était pas ce péché qui souillait sa conscience. Dazai était déjà sur le chemin de la damnation. Il avait volontairement choisi ce chemin.

Si ça signifiait sauver Odasaku, il n’y avait pas de limites à ce qu’il pouvait faire.

Mais même s’il aimait se dire monstre, Dazai restait un simple être humain. Il avait essayé d’étouffer le cœur face à la raison mais il n’avait pas été possible. Voir Odasaku faisait mal, savoir son ennemi encore plus.

Tout ça était son plan. Il avait tout joué et pourtant, à un pas de la fin, il avait succombé à ce sentiment que même mille ans, mondes ou réalité ne pourraient jamais effacer. Ainsi, après avoir donné ses derniers ordres à Atsushi, il s’était préparé à quitter son bureau avec un seul souhait: rencontrer Oda Sakunsuke.

Lui parler.

 

Une rencontre aurait suffi pour le reste de sa vie.

 

Dazai aimait mentir, et il se laissait faire.

 

"Où penses-tu aller, espèce d’idiot ?" Chuuya l’a arrêté, l’a attrapé par l’écharpe avant qu’il puisse quitter la pièce. C’était incroyable comment ce nain pouvait toujours être le même emmerdeur dans tous les mondes.

 

"C’est une belle journée ensoleillée et je pensais..."

 

De l’expression apparue sur le visage du rouge n’était qu’une question de temps avant qu’il n’explose dans toute sa colère.

"Tu vas rencontrer cet inspecteur? Le supérieur du frère de Gin. Cet homme"

Dazai n’avait pas répondu mais le sourire sur son visage avait immédiatement laissé place à une expression que Chuuya n’avait jamais vue. Pendant un moment, le Boss semblait être un étranger.

 

Dazai ne semblait pas comme d’habitude et il suffisait d’une simple référence à cet homme pour provoquer un tel changement d’attitude.

 

"Ce ne sont pas tes affaires, oubliées d’Odasaku."

 

Chuuuya le regarda encore plus confus;

 

"Odasaku? Qu’est-ce que Dazai veut dire?"

Mais le patron était déjà prêt à glisser de sa prise et à s’enfuir de la pièce.

 

Chuuya aurait dû rester à sa place. C’était une affaire qui ne le concernait pas. Odasaku avait toujours été son affaire et la sienne seule. Il s’était amusé à manipuler Akutagawa et Atsushi, mais maintenant, à un pas de ce qu’il savait être la fin, il avait besoin de mettre un frein. Il était temps d’avoir une confrontation avec Oda. Il ne s’approcherait de lui que par pur et simple égoïsme. Parce que son ami lui manquait. Bavarder avec lui. Boire ensemble. Se plaindre de sa vie et de ses échecs.

Il a donc décidé de se rendre à l’endroit habituel, espérant rencontrer l’inspecteur qu’il avait appelé ami dans une autre vie.

 

Il n’attendit pas longtemps qu’Odasaku apparaisse. C’était incroyable comme il y avait des choses qui malgré le temps ou l’espace restent inchangées. La marche d’Oda par exemple. Dazai l’aurait reconnue parmi mille. Comme la façon dont il appuyait sa tête sur un bras. La lenteur avec laquelle il saisit son verre et le portait à ses lèvres. C’étaient des détails, des particulier simples qu’il n’avait cependant pas réussi à oublier. Finalement, Dazai ne put se retenir;

 

"Dure journée ?" L’homme assis à côté semblait ne s’apercevoir qu’à ce moment-là de sa présence. Il le regarda quelques secondes surpris, pour ensuite répondre presque amusé;

 

"Oui, assez. Parfois, tenter de concilier deux professions n’est pas du tout simple" admit. Dazai s’est seulement fait que plus attentif;

 

"Deux professions?" demanda avec intérêt;

 

"Oui, je suis écrivain et détective."

 

"Oh"

 

"Ah et je suis aussi un père" ajouta peu après comme s’il s’était soudainement souvenu aussi de ce particulier. Tous deux riaient. Alors, ils se sont mis à bavarder.

 

Chaque mot sorti de la bouche d’Oda était un coup au cœur pour le jeune Boss de Port Mafia.

Comme si le temps n’était jamais passé. Pendant un moment, l’esprit de Dazai le ramena dans son monde d’origine, à ces jours insouciants, alors qu’il buvait en compagnie de son Odasaku. Son ami. Ça faisait mal, ça faisait incroyablement mal de voir comment un seul détail pouvait changer la vie des deux.

 

Si elle ne l’avait jamais rencontré, Oda aurait pu vivre une vie meilleure. La vie que méritait. Cette réalité créée par le Livre s’avérait être la meilleure pour tous ; Akutagawa avait trouvé un senpai qui se souciait de lui et savait apprécier ses efforts, Atsushi avait une famille et s’occupait encore du bien-être de la petite Kyouka.

 

Ils gagnaient tous. Dazai s’était convaincu qu’il pouvait renoncer à Odasaku, le faire pour son propre bien. Mais à ce moment précis, avec cet homme à quelques mètres de lui, il n’en était plus si sûr. Avec Odasaku, il avait toujours été ainsi, quand il était impliqué, l’esprit de Dazai cessait de raisonner avec lucidité. Il n’en avait jamais bien compris la raison, mais Oda savait quel interrupteur toucher pour éteindre complètement son cerveau, le détruisait et le rendait inoffensif, une entreprise jamais égalée par personne d’autre.

 

Cette petite idylle eut une vie courte et quelques mots arrivèrent qu’il n’aurait jamais pensé entendre;

"Ne m’appelle pas Odasaku."

 

C’est à ce moment précis que son cœur s’est brisé en mille morceaux.

Dazai savait ce qu’il devait faire. Il l’avait toujours su.

 

C’était leur épilogue. Comme il était juste qu’il ait été.

Il ne pouvait pas y avoir une fin joyeuse pour leur histoire.

Peut-être n’était-ce pas écrit dans le destin ou peut-être était-ce simplement la énième faute de Dazai.

 

Il était juste ainsi, il réécrirait la fin pour cette histoire. Dazai Il avait pris sa propre décision. Il aurait tout fait pour protéger Odasaku. Au fond, il avait toujours poursuivi la mort, il l’avait désirée si longtemps. Mourir pour sauver quelqu’un d’important n’était pas si mal.

Dans ses derniers instants, son esprit était concentré sur Odasaku, sur le temps passé ensemble, en sa compagnie. Avant de faire ce geste, le jeune Boss avait retiré de la poche de son manteau une photographie jaunie et fanée par le temps. Elle avait toujours été avec lui, depuis que, dans son monde d’origine, elle s’était emparée du Livre et avait décidé de l’utiliser pour ses désirs égoïstes. Il dessinait Oda Sakunosuke, assis au Bar Lupin. Elle a été prise lors d’une de leurs soirées, quand ils ont essayé de capturer cette chose invisible qui existait entre eux. C’était son plus grand trésor.

 

À ce moment-là, Dazai tenait cette image fermement entre ses doigts, tout en fermant lentement les yeux et s’apprêtant à rencontrer enfin la femme noire.

 

Le soleil se couchait et la nuit tombait sur la ville de Yokohama.

 

Il y avait des histoires qui ne pouvaient pas avoir une fin heureuse. Il avait toujours été ainsi depuis l’origine du monde. Dazai n’était pas une princesse, ce n’était pas Blanche-Neige. Elle n’aurait pas attendu le baiser de son propre prince. Pas cette fois. Dazai avait accepté la réalité. Son propre destin. S’il devait mourir pour le bien d’Odasaku il l’aurait fait. Il s’était trop amusé. La ville ne lui avait jamais paru aussi belle, c’était comme s’il la voyait pour la première fois. Une partie de lui à ce moment-là désirait vivre. Mais il était trop tard. Il tombait déjà vers sa fin. Il y avait peu de moments qui le séparaient de la mort. Il obtenait ce qu’il avait désiré plus qu’autre chose. La mort. Et il le faisait pour Oda. Pour le sauver. Alors pourquoi pleurait-il?

Ah oui. Il n’avait qu’un seul regret Dazai, il venait de s’en souvenir. Il ne pouvait jamais lire le livre d’Odasaku. Il fermait les yeux. Quelque chose lui suggérait comment ce serait un livre merveilleux. Mais il n’a jamais aimé les fins heureuses

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Cow-t 12 – Quinta settimana – M2

 

Prompt: “E alla fine, niente lieto fine”

 

Fandom: Bungou Stray Dogs – Beast AU

 

Rating: SAFE (con Angst)

 

Numero Parole: 1180

 

Note: un what if dove Oda muore







 

Osamu Dazai era rimasto completamente solo. Stava fissando con rinnovato interesse il pavimento della sala d’attesa del pronto soccorso. Non sapeva che altro fare in quel momento. Si sentiva inutile.


Glielo avevano portato via. Avevano strappato Odasaku dalle sue braccia; poi gli infermieri avevano chiuso la porta. Erano passati già tredici minuti e ancora non aveva notizie. Dazai non sapeva che diavolo stava succedendo e il pensiero lo tormentava. Stava lottando con tutte le sue forze per non lasciarsi andare e sfogarsi. Stava provando troppi sentimenti. Non era abituato a venire investito da queste emozioni. Era troppo per uno come lui.


 

Odasaku respirava a fatica quando l’aveva portato in ospedale. Non aveva contato quanti proiettili lo avessero trapassato. Il tuttofare gli aveva fatto scudo con il proprio corpo. Aveva visto il pericolo tramite la propria Abilità e non aveva esitato a gettarsi su di lui, salvarlo.


 

Odasaku era fatto così. Era un mafioso atipico che non uccideva e anzi, era sempre pronto a sacrificarsi per gli altri, anche per lui.


 

Il giovane dirigente non aveva potuto fare altro che prendere una delle pistole che l’amico nascondeva e porre fine a quel massacro. Poi, non senza fatica, si era caricato il rosso sulle spalle, avvisando Mori ed arrivando al primo ospedale affiliato all’Organizzazione.


Dazai aveva sempre odiato se stesso. C’era una parte di lui che si era sempre odiata. Odiava la propria Abilità, che era un’aberrazione anche per il loro mondo. Odiava la porpria vita che secondo lui era priva di senso, volta solo alla ricerca del dolore. Anelava la morte, perché sperava in quel modo di comperare il vuoto che aveva sempre avvertito dentro di se. Non c’era possibilità di salvezza. Quando aveva incontrato Mori Ougai gli aveva proposto quel mondo oscuro, unirsi alla Port Mafia.


Dazai aveva accettato. Aveva quattordici anni allora e non desiderava altro che morire.

Era convinto che solo stando accanto alla morte tutti i giorni sarebbe riuscito a comprendere il significato della vita. Questa sua idea si era poi evoluta col tempo, fino ad arrivare con la ricerca stessa della morte. Vedeva corpi senza vita tutti i giorni. Sia di sottoposti che di completi estranei. Amici e nemici, eppure nulla era stato in grado di smuovere il suo animo. Era un guscio vuoto. Assorbiva la realtà intorno a lui ma non ne riusciva ad essere toccato. Nulla sembrava essere in grado di smuovere il vuoto che sentiva dentro. Il freddo che invadeva il suo cuore. Come se si trovasse in una costante situazione di limbo, in perenne attesa di un qualcosa in grado di bloccarlo. Di renderlo umano. Sarebbe bastato solo un motivo, uno solo, e avrebbe continuato a vivere.


Ripensandoci c’era stato un episodio qualche anno prima. Quando, combattendo contro quella Bestia di Verlaine aveva temuto per la vita di Chuuya. Quella volta qualcosa dentro di lui si era smosso. Era stato un leggero sentore, una preoccupazione mascherata da altro. Sapeva quanto il proprio partner potesse essere forte. Chuuya era letteralmente l’incarnazione di un dio della distruzione. Eppure, per un solo, istante aveva temuto per la vita di quella Lumaca, che sin dal primo giorno aveva detto di odiare.


Dazai amava mentire, soprattutto a se stesso. Era più facile credere di odiare quel ragazzino piuttosto che arrivare ad ammettere il contrario. La presenza di Chuuya era stata come una boccata d’ossigeno nella sua vita. Con la sua voglia di vivere, la sua energia, era stato in grado di strapparlo da quell’apatia e dolore in cui era solito rifugiarsi.


Il vero miracolo, se così lo vogliamo chiamare, era accaduto poco dopo l’incidente della Bete.


 

A sedici anni, Osamu Dazai aveva incontrato Oda Sakunosuke. Da quel momento in poi nulla sarebbe più stato come prima. Odasaku, come aveva deciso di chiamarlo, si era rivelato essere un balsamo per quell’anima tormentata. Quando erano insieme, Dazai smetteva letteralmente di pensare. Oda lo calmava, tranquillizzava. Dazai finiva con il dimenticare la morte, la Mafia, il proprio dolore.


 

Lui e Odasaku parlavano. Cosa non scontata. In lui, il ragazzino, che era stato definito Demone Prodigio aveva trovato un amico. Una persona con la quale confidarsi.

 

Non aveva mai avuto segreti con quell’uomo. Aveva sempre giocato a carte scoperte sin dal loro primo incontro. Certo aveva rivelato la propria verità utilizzando parole contorte ma Oda non aveva tradito le sue aspettative, arrivando a superarle. Lo aveva sempre ascoltato, consigliato. In poche parole c’era sempre stato.


 

Per questo e per altri mille motivi l’idea di perderlo gli era insopportabile, come anche il pensiero di essere in qualche modo stato la causa di quella morte.


 

Dazai era rimasto per ore su quella sedia d’ospedale. A nulla erano valse le chiamate di Mori. Non sarebbe tornato alla Port Mafia fino a quando non avrebbe avuto la certezza che Odasaku fosse al sicuro.


 

Non voleva piangere ma aveva diciassette anni e in quel momento era solo un ragazzino spaventato. Quando l’infermiera si palesò davanti ai suoi occhi capì subito quanto stava per dirgli.

 

Mi dispiace. Abbiamo fatto il possibile ma era già presente un’emorragia interna”


 

Dazai non rimase per udire il resto.


 

Odasaku era morto. Non c’era più altro che lo tenesse ancorato alla vita. Il suo cellulare continuava a suonare, si decise a rispondere;


Dazai-kun” la voce del Boss sembrava lievemente irritata;


 

vieni immediatamente qui” il moro fece un lungo respiro;


 

Mi dispiace, non posso farlo”


 

Ucciderti non ti riporterà indietro quell’uomo. Inoltre non capisco, perché sei così arrabbiato di fronte alla sua morte?” Dazai preferì interrompere quella telefonata. Mori Ougai non avrebbe mai potuto capire. Nessuno lo aveva mai compreso.


 

C’era stata una sola persona al mondo che aveva scorto il vero Osamu Dazai, ed era appena morta. E la colpa era sua. Era stato un suo errore di calcolo, una leggerezza. Se non fosse stato per Oda Sakunosuke ora ci sarebbe Dazai su quel freddo letto d’ospedale. Odasaku non meritava di morire, non per lui.


Nel frattempo aveva raggiunto il tetto dell’edificio.


 

Sapeva cosa doveva fare.


 

Una nuova alba stava sorgendo sulla città di Yokohama. A Dazai però non interessava, ormai nulla aveva senso. Scavalcò il parapetto e guardò in basso. Erano circa venti metri, la caduta non sarebbe durata che pochi secondi. Sperò di morire sul colpo. Sopravvivere sarebbe stata un’inutile seccatura.


 

Con questo pensiero si gettò.


 

In una fredda mattina autunnale la Port Mafia perse il più giovane dirigente della propria storia e un semplice tuttofare. Mori etichettò tutto come incidente preferendo non rivelare troppi dettagli sull’accaduto. Quella notte Nakahara Chuuya pianse tutte le sue lacrime. La spia Sakaguchi Ango preferì rinunciare al proprio incarico e tornare al Governo.


I due vennero seppelliti a pochi metri di distanza, sarebbero stati vicini nella morte come lo erano stati in vita.


Sei davvero uno stronzo Dazai” ma Chuuya sapeva, conosceva il motivo dietro un tale gesto.


 

Odasaku era tutto per Dazai come Dazai era tutto per Oda. Forse, in un’altra vita, avrebbero potuto essere felici.



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Cow-t 12 – Quinta settimana – M2

 

Prompt: “E alla fine, niente lieto fine”

 

Fandom: Bungou Stray Dogs – Beast AU

 

Rating: SAFE (angst)

 

Numero Parole: 1713

 

Note: Sentimenti di Chuuya Beast dopo la morte di Dazai







 

Peut-être qu’avec le recul, c’était aussi sa faute. Nakahara Chuuya, bras droit du Boss Dazai Osamu fixait sans vraiment voir le corps sans vie de son supérieur et ne pouvait s’empêcher de s’interroger sur la raison qui avait poussé cet idiot à faire un tel choix. De son point de vue, Dazai avait tout. Il était devenu le plus jeune dirigeant de l’histoire de Port Mafia, puis Boss, obtenant la couronne de Mori. Sous son commandement, l’organisation avait prospéré, leurs ennemis s’étaient réduits. Alors pourquoi regardait-il le corps sans vie de ce garçon qui s’était amusé à prendre la vie de la vie un enfer pendant quatre années.

 

La réalité, c’est que même s’il pouvait s’interroger, Chuuya savait qu’il ne comprendrait jamais la raison cachée derrière ce dernier geste insensé de Dazai. Cet idiot avait toujours quelque chose en tête, que ce soit des plans, des stratégies, ou juste quelques farces de ses parents pour s’amuser à lui faire péter les plombs. Il n’a pas parlé de la mort ou essayé de se suicider depuis des années, et maintenant, tout à coup, ça.

Il s’était rendu sur place après avoir reçu un appel du garçon tigre, le nouveau protégé de Dazai. Il était avec un autre chien de l’agence, mais Chuuya avait préféré ne pas connaître d’autres détails, ou il savait qu’il perdrait aussi le peu de santé mentale qu’il lui restait. Il n’avait jamais vu ce morveux dans un tel état, il ressemblait pour la première fois au gamin qu’il était, pas au Shinigami impitoyable qui avait jeté plus d’une organisation dans le chaos.

"Est-ce que quelqu’un veut m’expliquer ce qui s’est passé?" avait commencé après avoir regardé un par un les visages des présents.

"Dazai-san, c’est-à-dire le Boss s’est jeté du toit" la voix du garçon tigre était secouée par les sanglots. Chuuya dut faire appel à tout son sang-froid pour ne pas le frapper. Même s’il savait que cela ne résoudrait rien.

 

Le corps de Dazai était encore à quelques mètres d’eux, on aurait dit qu’il dormait. Il se souvint que cet idiot se comparait à Blanche-Neige. Mais c’était un conte de fées, la réalité était que ce connard avait réussi à se tuer, laissant derrière lui une série de questions qui resteraient sans réponse.

"Dazai-san avait ceci dans ses mains, nous l’avons trouvé à côté du corps", cette fois, c’était le chiot noir de l’agence qui parlait. Chuuya avait pris dans ses mains l’objet qu’il lui avait donné. C’était une photographie. Un cliché montrant l’idiot assis dans un bar avec deux autres hommes.

 

"Qu’est-ce que ça veut dire?" les deux garçons étaient restés silencieux. L’inspecteur a été le premier à parler;

 

"L’homme aux cheveux roux s’appelle Oda Sakunosuke. est mon supérieur, c’est grâce à lui si je suis devenu un détective" Chuuya a tordu le nez;

 

"Tu es le petit frère de Gin, n’est-ce pas ? Celui qui espérait la ramener à la maison" Akutagawa acquiesca. Bien que Nakahara Chuuya ne lui parvienne que par derrière, il savait lui faire peur. De ce point de vue, il ressemblait à Dazai.

 

"Puis" poursuivit le dirigeant avant de faire une courte pause, s’éclaircissant la voix et se massant les tempes;

"Dazai connaissait-il cet inspecteur ? Avait-il des soucis avec l’agence dont je dois être informé ?"

 

"Nakahara-san" commença le blanc "voilà, Oda-san ne connaissait pas du tout Dazai"

"Qu’est-ce que ça veut dire ? Et ces photos ?" Les deux garçons sont restés silencieux.

 

Chuuya fit quelques pas en avant jusqu’à arriver près du corps de cet être qu’il avait le plus détesté.

 

"Parce que même mort, tu continues à me causer des problèmes, hein ? Bon sang."



 

***



Il avait donc commencé ses recherches. Tout d’abord, Chuuya était retourné à Port Mafia et avait saccagé le bureau du Boss. Il avait besoin de preuves de tout ce qui pourrait expliquer les événements de ces dernières heures, si ce n’est des semaines.

 

Il n’avait trouvé que des notes et des phrases dénuées de sens. Un seul nom continuait à apparaître, encore et encore, comme un code, un mot secret: Odasaku.

Il n’a pas mis longtemps à comprendre que ce n’était qu’un surnom idiot que Dazai avait donné à cet inspecteur. Mais il ne comprenait pas l’obsession que son ancien partenaire avait développée à l’égard de cet homme. Pourquoi Oda Sakunosuke? Qu’avait-il de spécial? Et quel était le rapport avec la mort de Dazai? Telles étaient les questions auxquelles il cherchait désespérément une réponse.

 

Chuuya avait décidé de rencontrer Oda. Bien que quiconque le lui déconseillait. Les deux jeunes avaient préparé la rencontre. Chuuya s’était retrouvé investi du rôle et de la responsabilité de Boss tandis qu’Oda restait un simple détective avec l’insolite passion de l’écriture. Ils étaient deux personnes complètement différentes touchées cependant en quelque sorte par Dazai. C’était comme si l’ombre qu’il vous avait laissée ne voulait pas les abandonner.

 

Oda ne connaissait pas Dazai. Ils n’avaient parlé que de ça, et l’inspecteur l’avait repoussé.

 

"Je savais qu’il avait un plan. Que j’étais un pion sur un échiquier. Il parlait d’Akutagawa comme d’un objet et il n’arrêtait pas de m’appeler par ce stupide surnom" Chuuya avait égrené ses yeux;

 

"Odasaku" l’homme hocha la tête.

 

"Dazai avait toujours un plan, c’est certain, mais je n’ai pas encore réussi à comprendre la folie cachée dans son geste" Oda avait hoché la tête;

 

"Parfois, il n’y a pas de raison."

 

"Il ne peut pas avoir été le fruit du moment. TU ne connaissais pas Dazai, ne laissait rien au hasard" l’inspecteur acquit;

 

"Oui, tu as raison, je ne le connaissais pas, mais c’était comme s’il me connaissait. Je ne peux pas l’expliquer" mais Chuuya avait quand même saisi le sens de ces mots.

Cette rencontre n’avait pas été complètement infructueuse, mais Chuuya se sentait encore trop proche du point de départ. Il ne comprenait même pas pourquoi il y tenait tant. Peut-être, il voulait simplement comprendre. Il fut un temps où il lui suffisait d’un regard pour lire dans les émotions de Dazai, comprendre ses plans, la logique qui les poussait. Puis tout avait changé. L’idiot était devenu son supérieur et leur relation avait changé. Chuuya était resté à ses côtés comme un chien fidèle. Il devait le protéger mais il désirait aussi le tuer. Dans ce cas aussi, Dazai avait su résoudre seul le problème.

Chuuya était maintenant avec une organisation à diriger et savait qu’il ne pouvait pas. Il n’avait pas été capable de protéger des enfants, encore moins toute la Port Mafia. Il se sentait juste fatigué, et tellement en colère.

 

Il a frappé le mur en révélant un compartiment secret qu’il n’avait jamais vu avant. Il contenait un journal et une autre photographie jaunie depuis le temps. Il reconnut immédiatement l’écriture, Dazai.

"Félicitations, Chuuya, si tu lis ces mots, c’est parce que je suis mort. Ne t’inquiète pas, c’était prévu, tout ça faisait partie de mon plan final", le rouge a juré. Il n’a jamais autant détesté avoir raison.

 

"Je te raconterai tout, mais d’abord, petit conseil, assieds-toi et ouvre une bouteille de vin, tu en auras besoin" en jurant le rouge fait comme dit, avant de continuer la lecture;

 

"Il y a un livre dont les pages ont cette capacité de réécrire la réalité." il fut tenté de jeter l’objet contre le mur, si c’était encore une plaisanterie, ce n’était pas drôle;

"J’ai tout fait pour lui, pour Odasaku, pour le sauver..." C’était trop. Il a relu plusieurs fois ces pages en essayant de donner un sens à ces mots qui, noir sur blanc, révélaient une vérité déconcertante. Il ne pouvait pas y croire, d’autres mondes, et Dazai se sacrifiant pour le bien d’une autre personne. C’était peut-être le point le plus incroyable de tout ça.

 

Les mains du rouge tremblaient, sentant la colère grandir de minute en minute. Dazai les avait tous trompés du premier au dernier. Lui aussi avait toujours été un pion sur ce putain d’échiquier. C’était un putain de plan pour sauver ce mec, Oda Sakunosuke.

 

"Pourquoi Dazai?" même s’il avait déjà une réponse à cette question. Il ne s’est pas rendu compte qu’il pleurait, mais c’était plus de la colère que de n’importe quel autre sentiment.

 

"Tu aurais pu m’en parler" même s’il comprenait pourquoi l’autre avait décidé de ne pas le faire.

 

"Tu t’es sacrifié toi-même, tout pour sauver cet homme. Qu’il avait de si important, hein?"

 

"Avec Odasaku j’arrêtais de penser, c’était le baume qui avait guéri mon âme" C’était trop.

Il commença à respirer profondément, tandis que la gravité devenait de plus en plus dense et lourde; il savait ce qui allait se passer et ne s’en souciait pas.

 

"Porteurs de malheur. Ne me veillez pas"

Nakahara Chuuya préféra s’autodétruire.

 

Désormais sans Dazai, personne ne pouvait l’arrêter. Il en était pleinement conscient, et pourtant il avait fait son choix. C’était peut-être le choix le plus libre qu’il ait eu.

"Attends-moi, connard, car dès qu’on se reverra, je te frapperai."

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