Mar. 22nd, 2025

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Lost Resonance





Cowt - 14 Terza Settimana - M2 set prompt “Orizzonte degli eventi” - Risonanza


Fandom: My Hero Academia


Numero parole: 3096


Note: ho interpretato “Risonanza” sia come risonanza mediatica ma anche come eco di qualcosa di passato che continua ad influire, risuonare nel presente. Brevemente Hawks scopre un segreto che la Commissione credeva di aver insabbiato per sempre, una verità pronta a sconvolgere gli equilibri della società degli Heroes.




Hawks non avrebbe mai dovuto trovare quei documenti.

La stanza degli archivi della Hero Public Safety Commission era un labirinto di schedari polverosi e faldoni marchiati con timbri ufficiali. L’odore della carta vecchia e dell’inchiostro sbiadito impregnava l’aria, mescolandosi a un silenzio irreale. Se non fosse stato per la sua memoria fotografica, avrebbe rischiato di perdersi tra quelle mura fredde e impersonali.

Era lì per cercare informazioni su un vecchio caso chiuso, qualcosa che riguardava gli ultimi giorni della Commissione prima del suo scioglimento. Ma nel farlo, si era imbattuto in un nome che non aveva mai sentito prima: Missione Rengoku.

Nessuna menzione nei rapporti pubblici. Nessuna eco nei registri accessibili. Solo poche cartelle impolverate e un’annotazione stringata nel sistema informatico: “Operazione fallita. Perdita dell’unità Alpha-07. Caso chiuso.”

Alpha-07. Un codice, non un nome. Qualcuno che la Commissione aveva sacrificato e dimenticato.

Ma se la missione era stata un fallimento, perché c’erano rapporti contraddittori?

Hawks si sedette su una vecchia sedia scricchiolante e iniziò a sfogliare i documenti con dita esperte. I dettagli non combaciavano, vi era un rapporto medico che attestava il decesso di Alpha-07 il 15 ottobre, oltre che una una trascrizione radio, datata 17 ottobre, che riportava il codice dell’eroe attivo sul campo. Ultimo ma non per importanza, una richiesta di estrazione per un agente ferito, il 19 ottobre. Mai processata.

E poi la registrazione.

Un vecchio dispositivo di memoria, mezzo bruciato ai bordi. Hawks lo collegò al terminale e ascoltò il file corrotto. Statico, rumore di fondo, un respiro spezzato. Poi, una voce roca e affannata:

“Non sono morto. Se qualcuno ascolta questo messaggio, sappia che…”

Fine del file.

Il cuore del Pro Hero batté più forte. Quel messaggio non sarebbe dovuto esistere. Alpha-07 non era morto il 15 ottobre. Qualcuno aveva mentito.

Si appoggiò allo schienale, lasciando vagare lo sguardo sul soffitto illuminato da una luce fioca.

E se l’Hero fosse ancora vivo?

Oppure… se era morto, chi aveva voluto far sparire la sua verità?

La Commissione aveva sempre giocato con le ombre, ma stavolta il loro segreto rischiava di esplodere con una risonanza devastante. I giornalisti avrebbero annusato lo scandalo, il pubblico avrebbe perso fiducia negli eroi, e il fragile equilibrio che ancora reggeva la società sarebbe crollato.

Hawks si passò una mano tra i capelli, il suo solito sorriso ormai un lontano ricordo.

Aveva due opzioni: lasciar perdere e seppellire il passato, oppure andare fino in fondo.

Chiuse gli occhi per un istante, poi si alzò.

Uscì dalla stanza degli archivi con il cuore che martellava nel petto.

Aveva lasciato i documenti al loro posto, chiudendo il fascicolo con la stessa meticolosità con cui lo aveva aperto. Ma la registrazione… quella l’aveva copiata sul suo dispositivo personale. Non poteva rischiare che sparisse.

Mentre percorreva il corridoio illuminato da luci fredde, sentiva l’eco delle parole registrate rimbombargli nella mente. Non sono morto.

Chi era Alpha-07? E perché nessuno gli aveva mai parlato di quella missione?

Hawks aveva bisogno di risposte e sapeva esattamente chi poteva aiutarlo.



***


Tokyo, distretto di Asakusa – Ore 22:17

Gaels era seduto sul tetto di un vecchio edificio, con la sigaretta accesa tra le dita e lo sguardo perso sulle strade sottostanti. Non era un Hero nel senso tradizionale del termine. Ufficialmente, non era nemmeno registrato. Si muoveva ai margini, tra informazioni rubate e missioni che nessuno voleva accettare. Non era nemmeno un Vigilante, più un supervisore di quella zona grigia che divideva la legalità dall’illegalità.

Per questo Hawks lo aveva cercato. Era il solo che potesse fornirgli delle risposte.

«Sapevo che avresti finito per ficcare il becco in qualcosa di pericoloso» disse Gaels, senza nemmeno voltarsi. Aveva avvertito la sua presenza. Già questo non lo rendeva una persona comune.

Hawks atterrò con leggerezza accanto a lui, incrociando le braccia.

«Sai com’è ero in astinenza da guai» rispose esibendo il solito sorriso spavaldo da N.2 Hero.

Gaels sbuffò una risata, espirando il fumo. 

«Allora, cosa vuoi?»

Hawks estrasse il proprio dispositivo e lo lanciò verso di lui. Gaels lo prese al volo, incuriosito.

«Ascoltalo» non disse altro preferendo che fosse l’uomo a trarne le proprie conclusioni.

Gaels schiacciò il tasto play e la registrazione partì.

“Non sono morto. Se qualcuno ascolta questo messaggio, sappia che…”

Fine del file.

Gaels rimase immobile per qualche secondo. Poi alzò lo sguardo verso Hawks, e per la prima volta il suo sorrisetto divertito si spense.

«Dove l’hai trovato?»

L’Hero si sedette accanto a lui, ripiegando le grandi ali.

«Archivi della Commissione. Operazione Rengoku. Sai di cosa si tratta?»

Gaels non rispose subito. Si limitò ad osservare il cielo scuro sopra di loro, gli occhi leggermente socchiusi, come se stesse cercando di afferrare un ricordo lontano.

«Forse» ammise infine. «Ma se hai trovato questa registrazione, allora vuol dire che non hanno cancellato tutto»

Hawks si voltò di scatto. 

«Quindi sai qualcosa.»

Gaels sorrise appena. 

«No, non qui.»

Si alzò, spegnendo la sigaretta con la suola dello stivale.

«Seguimi» ordinò. Hawks sospirò, ma lo seguì senza esitare.

Aveva iniziato a scoperchiare il vaso di Pandora. Era troppo tardi per tirarsi indietro e le sfide rappresentavano il suo pane quotidiano .

Il Number Two Hero seguì Gaels attraverso un dedalo di vicoli, dove l’aria densa sapeva di pioggia e smog. I loro passi erano attutiti dall’asfalto umido, il silenzio interrotto solo dal ronzio distante dei neon e dal brusio della città che non dormiva mai.

Gaels non parlò fino a quando non raggiunsero un edificio abbandonato, nascosto tra palazzi più alti che sembravano inghiottirlo nell’ombra. Aprì una porta arrugginita e lo fece entrare.

Dentro, il posto sembrava una vecchia officina riconvertita in rifugio. C’erano scaffali pieni di documenti, monitor accesi con feed di notizie in loop e una mappa di Tokyo segnata da puntini rossi.

«Bene, benvenuto nel mio ufficio» disse Gaels con un mezzo sorriso.

Hawks incrociò le braccia. «Ora vuoi dirmi cosa sai?» stava iniziando a spazientirsi.

Gaels si avvicinò a uno scaffale e tirò fuori una cartellina logora. La aprì, facendo scivolare sul tavolo alcune fotografie ingiallite.

Hawks si avvicinò e si bloccò.

Le immagini mostravano un gruppo di Heroes in uniforme, in piedi davanti a un edificio in rovina. Non li riconosceva tutti, ma uno attirò immediatamente la sua attenzione.

Un uomo alto, con capelli scuri e uno sguardo penetrante. La foto era vecchia, ma Hawks lo conosceva. Aveva già visto quell'individuo.

«Lui è Alpha-07?» domandò piano.

Gaels annuì. «Vero nome: Itsuki Kurogane. Eroe di livello alto, specializzato in operazioni sotto copertura. Un tempo era una delle risorse migliori della tua Commissione.»

Hawks scostò lo sguardo dalla foto, il cervello in subbuglio.

«Eppure secondo i registri, è morto.»

Gaels lo fissò con un’espressione indecifrabile. «E tu ci credi?»

Hawks strinse la mascella. No, non più. Non dopo quella registrazione. In fondo era il compito della Commissione, insabbiare prove, nascondere la verità. 

Gaels prese un’altra fotografia e la fece scorrere verso di lui. Questa era più recente, e decisamente più sfocata, come se fosse stata scattata di nascosto. Mostrava un uomo con un lungo cappotto, il volto mezzo coperto da un cappuccio.

Ma Hawks riconobbe comunque quei tratti. Più invecchiati, più stanchi. Ma era lui.

«Non è morto» sussurrò.

Gaels annuì. «E qualcuno ha fatto di tutto perché il mondo lo credesse»

Hawks sentì il cuore battergli nel petto. Se questa storia fosse stata resa pubblica, la risonanza mediatica sarebbe stata immensa. Un Hero dichiarato morto, in realtà nascosto. Perché? Cosa sapeva Itsuki Kurogane?

E soprattutto… chi lo stava tenendo nell’ombra? Era tutta opera della Commissione?

Hawks sentì un brivido lungo la schiena. L’aria nell’officina sembrava più pesante, carica di un’elettricità silenziosa. Si lasciò cadere su una sedia malandata, stringendo tra le dita la foto sbiadita di Itsuki Kurogane.

«Dove hai trovato questa?» domandò, la voce appena più bassa di un sussurro.

Gaels incrociò le braccia, il solito sorriso ironico sostituito da un’espressione imperscrutabile. 

«Ricevo informazioni da molte fonti. Questa è arrivata tre mesi fa da un vecchio contatto. Mi ha detto che Kurogane è ancora vivo, nascosto. Ma non è il solo.»

Hawks alzò lo sguardo. «Cosa intendi?»

Gaels tirò fuori un altro fascicolo, molto più sottile del primo. Lo aprì e gli mostrò un ritaglio di giornale, una notizia vecchia di qualche anno: “Incidente in un’operazione segreta: scomparso un eroe d’élite”. L’articolo era vago, pieno di dichiarazioni ufficiali della Commissione che parlavano di un’operazione “sfortunata”, di un “sacrificio necessario per il bene della società”. Nessun dettaglio, nessun testimone.

Hawks sapeva cosa significava. Un insabbiamento.

«Hanno nascosto la sua morte perché non è mai morto» disse lentamente.

Gaels annuì. «E se qualcuno lo ha tenuto nascosto per così tanto tempo, significa che o lui è una minaccia, oppure ha informazioni che potrebbero rivelarsi pericolose, far crollare tutta la società degli Heroes.»

Hawks si passò una mano tra i capelli. Il puzzle iniziava a prendere forma, e il quadro che si delineava era inquietante. Se la Commissione aveva davvero orchestrato la scomparsa di Kurogane, c’erano solo due possibilità, la prima è che lo avessero costretto a nascondersi per proteggere qualcosa di troppo pericoloso per essere rivelato, la seconda, molto più banalmente lo avessero fatto sparire perché sapeva troppo.

E ora, con la Commissione sciolta e il caos che ancora serpeggiava nel mondo degli eroi, la verità rischiava di riemergere.

Hawks fissò Gaels. 

«Hai un’idea di dove si trovi?»

L’uomo esalò lentamente il fumo della sua sigaretta, poi scosse la testa. «Nessuna certezza. Ma ho un nome. Qualcuno che potrebbe saperlo.» Hawks alzò un sopracciglio. 

«Chi?»

Gaels gettò la sigaretta a terra, la schiacciò sotto il tacco e lo guardò con un sorriso sottile.

«Un vecchio agente della Commissione. Uno che è sparito nello stesso periodo di Kurogane.»

Fece una pausa.

«E che, guarda caso, ha lasciato tracce a Osaka.»

Hawks si alzò in piedi. Aveva quello che gli serviva.


***


Osaka


L’aria era più umida rispetto a Tokyo, satura di odori di cibo di strada e salsedine portata dal mare. Nonostante l’ora tarda, il distretto di Namba era ancora illuminato da insegne al neon e attraversato da ondate di turisti e locali. Ma Hawks non era lì per godersi l’atmosfera.

Si trovava su un tetto, nascosto nell’ombra, osservando il piccolo bar al piano terra di un edificio anonimo. Gaels era stato chiaro: il suo contatto si nascondeva, vivendo sotto falso nome.

«Ex agente della Commissione… vediamo se hai davvero voglia di parlare» mormorò tra sé.

Scivolò giù con un movimento silenzioso, atterrando accovacciato in un vicolo laterale. Il bar non sembrava nulla di speciale: una porta scorrevole in vetro, una lanterna rossa con ideogrammi consumati dal tempo.

Hawks entrò.

L’interno era modesto, con pochi clienti. L’odore del sakè caldo aleggiava nell’aria. Dietro il bancone c’era un uomo sulla cinquantina, mani segnate dall’età e una cicatrice che gli attraversava il sopracciglio.

Hawks lo riconobbe subito.

Kenji Fushimi. Ex operativo della Commissione. Aveva trovato il proprio contatto.

Fushimi lo notò, e la sua espressione si irrigidì appena. Non abbastanza per chiunque, ma Hawks sapeva leggere i dettagli. L’aveva riconosciuto. Ovviamente. 

il Wing Hero si sedette al bancone, accennando un sorriso.

«Vorrei ordinare un sakè. E qualche risposta»

Fushimi non rispose subito. Versò la bevanda con movimenti precisi, poi gli lanciò un’occhiata di sbieco.

«Non so di cosa tu stia parlando Hawks»

Il Number Two Hero prese il bicchiere e lo girò lentamente tra le dita. 

«Missione Rengoku.» non aggiunse altro ma Fushimi si bloccò per un istante. Poi si voltò, tirando fuori un bicchiere per sé.

«Sei venuto a scavare in un cimitero, ragazzo» esordì a bassa voce.

Hawks si inclinò leggermente in avanti. 

«Un cimitero in cui qualcuno è stato sepolto vivo»

Silenzio.

L’ex esponente della Commissione prese un sorso del suo sakè, poi poggiò il bicchiere con un leggero tonfo.

«Se inizi questa strada, non potrai tornare indietro»

Hawks non distolse lo sguardo. Ne era perfettamente consapevole.

«Non ho intenzione di farlo» ammise in tutta sincerità.

Fushimi sospirò, come se stesse prendendo una decisione difficile. Poi abbassò la voce ancora di più.

«Kurogane è vivo»

Anche se lo sospettava, quelle parole colpirono Hawks come un pugno. Averne la certezza era sempre un altro paio di maniche.

Fushimi lo guardò dritto negli occhi. «È vivo ma non è più lo stesso»

«Cosa intendi?»

Fushimi si sporse leggermente, parlando quasi in un sussurro.

«Hanno cercato di ucciderlo. Lui è sopravvissuto. Ma la persona che conoscevamo…» Fece una pausa, come se pesasse ogni parola. «Non so se sia ancora un eroe. O un fantasma in cerca di vendetta»

Hawks sentì il brivido del pericolo. Quella storia si stava rivelando più complessa del previsto.

Se Kurogane era davvero vivo, e se voleva vendicarsi della Commissione, allora la risonanza di questa verità non sarebbe stata solo mediatica.

Sarebbe stata devastante. L’eco di un passato lontano pronto a sconvolgere il loro presente.

Hawks rimase in silenzio per qualche secondo, assaporando il peso di quelle parole. Se Kurogane non era più lo stesso, allora cosa era diventato?

«Se fosse davvero in cerca di vendetta, lo avremmo già visto in azione» osservò, incrociando le braccia. «Eppure, non c’è stata nessuna esplosione, nessun attacco pubblico. Perché?»

Fushimi abbassò lo sguardo, facendo scorrere il dito sul bordo del bicchiere.

«Perché sta aspettando il momento giusto»

Hawks inarcò un sopracciglio. Con tutto il trambusto provocato da Shigaraki e la Lega dei Villain avrebbe potuto approfittarne.

 «E come lo sai?»

Fushimi esitò. Poi tirò fuori da sotto il bancone un vecchio telefono, lo accese e mostrò a Hawks un messaggio criptico.

“La verità verrà a galla. Presto”

Nessun mittente. Nessuna data precisa. Solo quelle parole.

«L’ho ricevuto due settimane fa» spiegò Fushimi. «E non sono stato l’unico»

Hawks si irrigidì. «Chi altri?»

Fushimi si accese una sigaretta e inspirò lentamente prima di rispondere.

«Vecchi agenti. Ex membri della Commissione. Alcuni Heroes. Tutti quelli che avevano un legame con la missione Rengoku»

Hawks si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Se Kurogane stava contattando persone collegate al passato, significava che stava preparando qualcosa di grosso.

Un’operazione del genere non sarebbe passata inosservata. La stampa avrebbe fiutato la storia. I nemici della Commissione avrebbero usato la rivelazione come un’arma.

La risonanza di una tale notizia sarebbe stata catastrofica.

Hawks guardò Fushimi dritto negli occhi. «Dove si trova?»

Fushimi esitò. «Non lo so con certezza»

«Un’idea»

Silenzio. Poi Fushimi spense la sigaretta nel posacenere e parlò.

«Nagasaki. Vecchia base della Commissione, dismessa dopo lo scioglimento ufficiale. Se Kurogane è ancora in Giappone, è lì che si sta muovendo»

Hawks si alzò, infilando le mani in tasca.

«Allora è lì che andrò.»

Fushimi lo osservò con un velo di malinconia. «Non commettere il suo stesso errore, ragazzo»

Hawks gli rivolse un mezzo sorriso. «E qual è?»

Fushimi prese un sorso di sakè, poi posò il bicchiere con un suono sordo.

«Pensare di poter cambiare il sistema senza che il sistema ti schiacci»

Hawks lasciò qualche banconota sul bancone e si avviò verso l’uscita.

«Lo scopriremo»

E sparì nella notte, con il peso della verità sulle spalle.


***


Nagasaki


La pioggia scendeva sottile, quasi invisibile, ma Hawks la sentiva scivolare lungo il colletto della giacca mentre si muoveva tra i vicoli della città vecchia. Non c’era traccia della vita frenetica di Tokyo o Osaka: qui, le strade erano silenziose, i lampioni proiettavano ombre lunghe sui muri di pietra, e il mare in lontananza sembrava sussurrare segreti dimenticati.

Si fermò davanti a un vecchio magazzino, uno dei tanti edifici dismessi che un tempo appartenevano alla Commissione. Fushimi aveva ragione: se Kurogane voleva scavare nel passato, questo era il posto giusto.

Il Number Two Hero scivolò all’interno attraverso una finestra rotta. L’odore di polvere e metallo arrugginito lo colpì immediatamente. Fece qualche passo, i suoi stivali scricchiolarono sul pavimento di cemento.

E poi lo sentì.

Un respiro.

Si voltò di scatto, e la figura emerse dall’ombra.

Itsuki Kurogane.

Era più alto di quanto ricordasse, il volto scavato dal tempo e da qualcosa di più profondo: disillusione, forse. Indossava un lungo cappotto scuro, e i suoi occhi lo fissavano con una freddezza che non lasciava spazio a esitazioni.

«Sei più veloce di quanto pensassi» disse Kurogane, la voce bassa, quasi roca.

Hawks si accigliò. «Ho sentito dire che sei morto, eppure ti trovo in forma»

Un sorriso appena accennato curvò le labbra di Kurogane. «Lo speravo anch’io»

Silenzio. Solo il suono della pioggia che ticchettava sulle lamiere.

Hawks incrociò le braccia. 

«Sei tu che hai mandato quei messaggi» Kurogane annuì. 

«Era ora che la verità venisse fuori»

«E qual è la verità, esattamente?»

Kurogane fece un passo avanti. La luce fioca rivelò una cicatrice che gli attraversava la guancia.

«La missione Rengoku non era un’operazione fallita. Era un’esecuzione»

Hawks trattenne il respiro. Era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di udire.

Kurogane continuò. «Non siamo stati sacrificati in una missione impossibile. Siamo stati mandati a morire perché sapevamo troppo»

Hawks sentì il cuore martellargli nel petto. Se era vero, allora la Commissione non aveva solo nascosto un fallimento: aveva deliberatamente eliminato i suoi stessi agenti.

«E tu come sei sopravvissuto?» chiese, il tono più basso.

Kurogane si voltò leggermente, come se stesse rivedendo il passato.

«Non lo so nemmeno io. Qualcuno mi ha tirato fuori da quel disastro. Mi hanno nascosto, mi hanno fatto sparire. Ma non perché volessero salvarmi.» Si voltò di nuovo verso Hawks, e nei suoi occhi c’era un bagliore pericoloso. «Volevano che restassi in silenzio.»

Hawks capì subito il sottotesto.

«E ora non vuoi più tacere»

Kurogane annuì lentamente. «Non posso»

Un’ombra di dubbio si insinuò nella mente di Hawks. La risonanza di una rivelazione del genere avrebbe scosso il mondo degli Heroes dalle fondamenta. Se Shigaraki Tomura fosse venuto a conoscenza di una simile verità non avrebbe esitato ad usarla contro di loro. Un nuovo dubbio gli invase la mente, Kurogane stava cercando giustizia… o vendetta?

«Cosa hai intenzione di fare?» domandò infine.

Kurogane fece un passo avanti, e Hawks avvertì per la prima volta una vera tensione nell’aria.

«La Commissione ha costruito un sistema basato su bugie e sacrifici. Se la verità uscirà, il mondo dovrà scegliere da che parte stare» Fece una pausa. 

«E tu, Hawks? Da che parte starai?»

Il respiro del Wing Hero si fece più pesante. Sapeva che questa non era solo una conversazione. Era un ultimatum.

E presto, l’intero paese avrebbe dovuto affrontare la stessa domanda.


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Oikawa Tooru, il giapponese che fa sognare l’Argentina





Cowt - 14 Terza Settimana - M1 testo non narrativo - Articolo di giornale


Fandom: Haikyuu


Numero parole: 423



Tooru Oikawa: il genio giapponese che brilla nella nazionale argentina

Buenos Aires, 2025 – Quando Tooru Oikawa ha lasciato il Giappone per trasferirsi in Argentina, in pochi avrebbero scommesso sul suo successo internazionale. Eppure, oggi, l’ex capitano della Aoba Johsai è uno dei palleggiatori più influenti del panorama mondiale, portando la sua nuova squadra a livelli di eccellenza.

Dopo la sua formazione in Giappone e la crescita nelle leghe minori sudamericane, Oikawa è riuscito a guadagnarsi un posto nella nazionale argentina, una scelta che ha sorpreso molti ma che si è rivelata vincente. Con la sua visione di gioco, la capacità di adattarsi agli avversari e il suo inconfondibile carisma, ha contribuito a elevare il livello della squadra, trasformandola in una seria contendente nei tornei internazionali.

Un legame speciale con l’Argentina

Oikawa non ha mai nascosto la sua ammirazione per il volley sudamericano, in particolare per l’Argentina e il suo storico palleggiatore José Blanco, che ha influenzato il suo stile di gioco sin dai tempi del liceo. La decisione di trasferirsi qui è stata dettata dalla sua incessante ricerca di miglioramento, un tratto distintivo del suo carattere competitivo. “Non volevo accontentarmi di essere un buon giocatore in Giappone. Volevo diventare il migliore, e per farlo dovevo trovare un ambiente che mi spingesse oltre i miei limiti,” ha dichiarato in un’intervista.

Un vero punto di riferimento per la squadra

L’inserimento di Oikawa nella nazionale argentina non è stato immediato. Superare la barriera linguistica e adattarsi a uno stile di gioco diverso ha richiesto tempo, ma il suo talento e la sua etica del lavoro hanno conquistato compagni e allenatori. Oggi, il palleggiatore giapponese è una pedina fondamentale nel sistema della squadra, fornendo assist precisi e variando il gioco in modo imprevedibile, qualità che gli hanno fatto guadagnare il rispetto del panorama internazionale.

“Ha una lettura del gioco fuori dal comune,” ha affermato il coach della nazionale. “La sua presenza in campo porta sicurezza e dinamicità. È un leader naturale, nonostante venga da un’altra cultura.”

Insomma, un futuro ancora tutto da scrivere

Con i Mondiali di pallavolo all’orizzonte, l’Argentina punta a raggiungere nuovi traguardi, e Oikawa sarà senza dubbio una delle sue armi principali. La sua esperienza e la sua determinazione potrebbero essere la chiave per portare la squadra sul podio e consacrarlo come uno dei migliori palleggiatori al mondo.

Nel frattempo, in Giappone, i suoi vecchi compagni e rivali seguono con interesse la sua carriera, consapevoli che il ragazzo che sognava di sfidare i migliori del mondo è riuscito davvero a realizzare il suo obiettivo.



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When Stars Drift Apart

 




Cowt - 14 Terza Settimana - M2 set prompt “Orizzonte degli eventi” - Divergenza


Fandom: Voltron the Legendary Defender


Numero parole: 2407


Note: piccola premessa su questa storia che negli appunti era come sempre qualcosa di molto più ampio. Siamo in una specie di Mythological Au.

All’inizio dei tempi, due divinità gemelle vennero create per portare equilibrio nel cosmo: Lance, dio della luce, dell’armonia e della crescita. Associato al cielo, agli astri e al destino e Lotor, dio della distruzione, dell’ambizione e del rinnovamento. Legato all’ombra, ai segreti e alle rivoluzioni. Il loro legame era indissolubile, finché non venne pronunciata una profezia:

Uno di voi due porterà alla rovina degli dèi.”

Presi dal panico, gli dèi decisero di esiliare Lotor, temendo che fosse lui la minaccia. Tradito da coloro che considerava la sua famiglia, Lotor cadde nell’oscurità, diventando il nemico che il pantheon voleva evitare. Lance, invece, restò tra gli dèi, ma col passare dei secoli iniziò a chiedersi: e se avessero sbagliato?

Divergenza “‘ho interpretato come due fratelli costretti a percorrere strade opposte” ma anche divergenza come differenza fra luce e ombra, sul percorso scelto. 


***


Lance

Il vento sapeva di tempesta.

Lance sentiva l’aria vibrare attorno a sé mentre attraversava la terra proibita, quella che gli dèi avevano sigillato con catene d’oro e melodiose maledizioni dimenticate. Il cielo sopra di lui era plumbeo, attraversato da bagliori di luce spezzata, come se il cosmo stesso trattenesse il fiato.

Non avrebbe dovuto essere lì. Non avrebbe dovuto cercarlo.

Eppure, era sempre stato così, sin dall’inizio dei tempi: lui inseguiva, Lotor fuggiva. O forse era il contrario. Ormai non lo ricordava.

Il tempio in rovina si ergeva davanti a lui, un ricordo sbiadito di quell’epoca in cui gli dèi non temevano il loro stesso riflesso. Testimonianza di un’era dimenticata fra le pieghe del tempo.

Un brivido gli percorse la schiena.

Era qui. Poteva avvertirlo.

Una voce lo accolse dall’ombra. 

“Non credevo che avresti avuto il coraggio di venire.”

Lance si irrigidì. Il suono era familiare eppure diverso, come se il tempo l’avesse reso più maturo e affilato. La figura che emergeva dal buio non era solo un ricordo del proprio passato: era il futuro che gli dèi si rifiutavano di vedere.

Lotor. Suo fratello. La sua metà.

Lance sentì il petto serrarsi, come se fosse stretto in una morsa.

“Gli dei ti stanno cercando” non gli era venuto in mente niente di meglio, anche se si era preparato ad affrontare quella conversazione. L’aveva ripetuta più volte nella propria testa come un mantra, una preghiera silenziosa rivolta quasi di più a se stesso.

Lotor rise piano, il suono quasi divertito. Anche se non poteva vederlo chiaramente Lance si immaginó perfettamente quell’espressione sfrontata. Un ghigno a curvare quelle labbra perfette così simili alle proprie.

“Gli dei mi stanno sempre cercando. Evidentemente la loro paura è più grande della loro saggezza.”

Si mosse con grazia tra le rovine, come se fosse nato per camminare tra macerie e promesse infrante. Il giovane Dio della luce non poté fare altro che osservarlo.

“E tu? Sei venuto a eseguire il loro giudizio?” Quelle parole fecero male, più di quanto entrambi avrebbero voluto ammettere.

Lance strinse i pugni, cercando di trovare stabilità nel caos di emozioni che in quel preciso momento, lo divorava. 

“Sono venuto per capire.”

Lotor si fermò.

Solo per un istante, ma fu sufficiente perché Lance lo notasse.

Poi la sua espressione tornò impenetrabile. “Per capire? E cosa di grazia”

Lance annuì. “La profezia… la tua caduta… Forse gli dei hanno sbagliato.”

Non fu la sua voce a colpire Lance, ma la reazione di Lotor. Non l’ira, non il sarcasmo bensì lo stupore.

Lo vide riflesso nei suoi occhi, anche se Lotor cercò di mascherarlo dietro il solito sorriso affilato. 

“Ti sei svegliato, allora fratellino”

“Non stavo dormendo”

“Oh, ma sì che lo facevi.” 

Lotor fece un passo avanti e Lance sentì il peso della sua presenza, come una marea che minacciava di sommergerlo.

“Ti sei crogiolato nella loro luce, nella loro falsa idea di giustizia. Solo ora che il cielo trema inizi a chiederti se forse c’è dell’ombra anche negli dei che veneri? Hai mai dubitato delle decisioni di nostro padre? Non è così infallibile”

Lance scosse la testa. 

“Non sono venuto qui per discutere su di lui” ma per riportarti a casa.

Lotor rise di nuovo e questa volta c’era un filo di vero divertimento nella sua voce. 

“Allora illuminami, perché sei qui?”

Lance esitò. C’erano mille risposte che avrebbe potuto dare, ma nessuna sembrava sufficiente.

Perché voleva crederci. Perché la luce non bastava più.

O forse, banalmente, perché suo fratello gli mancava.


***


Lotor


Lance era arrivato. Lo aveva trovato.

Doveva aspettarselo.

Aveva sempre saputo che sarebbe successo, che prima o poi la sua luce sarebbe giunta a sfiorare il buio in cui era stato gettato. Eppure Lotor non si era mai chiesto come sarebbe stato rivederlo dopo tutto quel tempo.

Non si era mai chiesto se gli sarebbe pesato così tanto.

Lo osservò mentre avanzava nel tempio, il suo passo incerto, lo sguardo pieno di domande. Sempre così trasparente. Sempre così ostinatamente sé stesso.

Sempre così capace di farlo esitare. Erano alcuni dei motivi che lo avevano spinto ad odiarlo e desiderarlo con tutto se stesso.

Quando parlò, le parole gli uscirono quasi senza pensarci.

“Non credevo che avresti avuto il coraggio di venire.”

Lance si fermò, come se il suono della sua voce lo colpisse più della tempesta. E poi rispose.

Gli dei ti stanno cercando.

Lotor sorrise. Gli dei lo stavano sempre cercando. Lo cercavano da quando l’avevano bandito, da quando avevano deciso che era più facile temerlo che comprenderlo.

Ma Lance era diverso. 

No. Non lo era mai stato. Suo fratello era un ipocrita esattamente come tutti gli altri.

Eppure, quando disse “Sono venuto per capire”, qualcosa dentro Lotor si incrinò.

Non lo mostrò. Non poteva permetterselo. Ma per un istante, solo un istante, il tempo sembrò fermarsi.

Capire?

Dopo tutto questo tempo?

Era troppo tardi. Aveva scelto l’oscurità, le tenebre alle quali comunque lo avevano destinato.

O forse no?

Si costrinse a ridere. “Per capire?” ripeté, come se fosse una follia.

Ma quando Lance annuì, quando le sue parole si fecero più sicure

“Forse gli dèi hanno sbagliato” Lotor sentì il proprio mondo vacillare.

Non di molto. Solo un soffio. Ma abbastanza perché la sua stessa ombra sembrasse meno solida.

Non avrebbe dovuto sorprenderlo. Lance era sempre stato così. Un faro in mezzo alla tempesta. Una promessa di un qualcosa che Lotor non aveva mai osato o pensato di afferrare.

Ma le promesse si spezzano. 

E così Lotor si mascherò dietro l’ironia, dietro il cinismo che lo aveva sempre protetto. “Ti sei svegliato, allora fratellino.”

“Non ho mai dormito”

“Oh, ma sì che lo facevi.”

Gli si avvicinò, più per testare le acque che per minaccia. Lance non si tirò indietro.

Ma nei suoi occhi c’era qualcosa di pericoloso.

Qualcosa che Lotor non voleva affrontare.

“Dimmi, Lance. Se potessi distruggere l’intero pantheon, lo faresti?”

Lance vacillò. Lo vide nei suoi occhi, nella tensione delle sue mani.

No. Non era pronto, ma lo sarebbe stato.

E Lotor lo avrebbe aspettato.

“Non vuoi rispondere?”

Lance rimase in silenzio e per la prima volta da secoli, Lotor si chiese se stesse facendo la cosa giusta.

Si voltò per andarsene. Era troppo presto.

Ma Lance parlò.

“E se lo fossi?”

Lotor si fermò.

“Se fossi pronto a sapere la verità?” continuò Lance, e la sua voce non tremava più. 

“Me la diresti?”

Lotor rimase in silenzio per un lungo momento. Poi, per la prima volta, sorrise davvero.

“Forse”

E con un battito d’ali, sparì nell’ombra.

Lance rimase lì, ma Lotor sapeva che sarebbe tornato.

Sapeva che la prossima volta, la sua risposta sarebbe stata diversa.


***


Il giorno seguente 


Lance

Il vento era freddo, ma non abbastanza da fargli dimenticare l’inquietudine che gli si era annidata nel petto.

Era tornato al tempio all’alba, senza una vera ragione. Forse per vedere se l’ombra di Lotor fosse ancora lì, nascosta tra le colonne spezzate e gli altari in rovina. O forse per convincersi che fosse stato solo un sogno, che il loro incontro non avesse lasciato strascichi.

Ma non era così.

Si passò una mano tra i capelli, fissando le pietre antiche. Non era cambiato nulla nel mondo attorno a lui, eppure, in qualche modo lui si sentiva diverso.

Aveva sempre saputo che Lotor era là fuori, esiliato, condannato a portare il peso di un destino scritto prima ancora della loro nascita. Ma sapere non era sentire. E ieri, per la prima volta dopo secoli, l’aveva sentito davvero.

La rabbia nel suo sguardo. L’ombra del rimpianto nella sua voce.

Lance si ricordava ancora di quando erano bambini, due divinità gemelle inseparabili, così vicine che perfino gli astri sembravano intrecciarsi quando camminavano fianco a fianco. Ridevano insieme, sognavano insieme. Lotor aveva sempre avuto un fascino per l’ignoto, per ciò che si nascondeva dietro l’ordine perfetto del loro mondo. E lui… lui lo seguiva. Sempre.

Fino a quando non era stato costretto a smettere.  

Lance strinse i pugni fino ad arrivare a farsi sbiancare le nocche. 

Non era giusto.

Non era giusto che fossero stati divisi.

Non era giusto che adesso Lotor fosse un estraneo.

Eppure, lo era.

E ieri aveva capito che non bastava un incontro per cambiare ciò che il tempo ma soprattutto il destino aveva scolpito tra loro.

Ma allora perché si trovava in quel luogo?

Perché, nonostante tutto, non riusciva a smettere di pensare al modo in cui Lotor l’aveva guardato, come se lo odiasse… e come se, in fondo, lo stesse ancora cercando?

Forse si stava facendo troppe illusioni


***


Lotor


Era stato uno sbaglio.

Avrebbe dovuto ignorarlo. Avrebbe dovuto trattarlo come uno degli dei che lo avevano esiliato, uno dei tanti che avevano voltato le spalle alla verità per proteggere il loro prezioso equilibrio.

E invece…

Invece, la sua voce gli era rimasta addosso come una ferita aperta.

Lotor si passò una mano sul viso, lasciando che l’ombra della notte lo avvolgesse. Non aveva cercato il silenzio, ma era l’unica cosa che gli rimaneva insieme all’oscurità. 

Perché era apparso adesso?

Perché il destino si ostinava a rimetterli uno di fronte all’altro, a ricordargli quello che aveva perso?

Perché rivederlo gli aveva fatto tanto male?

Non era solo la rabbia. Non era solo il rancore per ciò che gli era stato tolto.

Era il ricordo di un tempo in cui nulla di tutto questo esisteva.

Un tempo in cui erano stati fratelli nel senso più puro del termine.

Quando il mondo era solo un cielo sconfinato, e Lance rideva senza paura al suo fianco.

Quando credevano che niente avrebbe potuto separarli.

Ma qualcosa l’aveva fatto.

E ora, anche se si erano ritrovati, non erano più gli stessi.

Lance non lo avrebbe mai capito.

Non avrebbe mai capito cosa significava vivere al di fuori della luce, cosa significava essere il mostro della loro storia.

E Lotor non gli avrebbe mai permesso di provarci.

Non avrebbe permesso a se stesso di sperare.

Anche se, per un solo, fugace momento, aveva voluto farlo.

Lance era sempre stato la sua luce non lo avrebbe sporcato con la propria oscurità. 


***


Diverse Ere prima - agli inizi del mondo


Lance


Il cielo sopra di loro brillava di una luce dorata, mentre le stelle ancora giovani tremolavano come riflessi sull’acqua. Lance correva tra le nuvole, ridendo, il vento che gli scompigliava i capelli.

“Più veloce, Lotor!” gridò, voltandosi appena. 

“Se resti indietro, la Grande Madre ti punirà!”

Lotor sbuffò, ma non rallentò. 

“Non esiste nessuna punizione per chi è più intelligente di te!

Lance scoppiò a ridere. 

“Ma io sono semplicemente più veloce!” La sua risata riempì l’aria.

Si lanciò in avanti, saltando tra i frammenti di luce che si piegavano sotto i suoi passi. Era una corsa senza meta, solo per il piacere di sentirsi liberi. Solo per il piacere di essere insieme.

Lotor lo raggiunse e lo spinse leggermente, abbastanza da farlo barcollare. 

“Ora sì che sei lento fratellino” decretò con il solito tono spavaldo che lo caratterizzava

Lance finse di inciampare e cadde sulla schiena, sghignazzando. 

“Ahahah aiuto! Sono stato sconfitto!”

Lotor si fermò sopra di lui, le mani sui fianchi, scuotendo la testa. 

“Drammatico come sempre”

Lance gli fece una smorfia seguita da una linguaccia. Poi, senza preavviso, afferrò il polso di Lotor e lo trascinò giù con sé.

Caddero entrambi, ridendo, il cielo sopra di loro immenso e infinito.

Per un attimo, niente esisteva oltre a loro due.


***


Lotor


Lance aveva chiuso gli occhi, il respiro ancora affannato per la corsa. Lotor si voltò su un fianco, osservandolo.

“Lo sai vero che un giorno non potremo più giocare così?”

Lance aprì un occhio sorpreso;

“E perché mai?”

"Perché siamo degli dei e come tali siamo destinati a cose più grandi”

Lance sbuffò. 

“A me sembra che ci sia già abbastanza grandezza qui”

Indicò il cielo sopra di loro, le stelle appena nate che brillavano come promesse.

Lotor esitò. Certe volte, Lance vedeva il mondo in un modo che lui non riusciva a comprendere. Un mondo senza destino scritto, senza doveri imposti.

Un mondo luminoso in cui potevano essere solo loro stessi.

“E se io volessi qualcosa di più?” Chiese, a bassa voce.

Lance si voltò verso di lui e sorrise. 

“Allora io verrò con te” 

Era una promessa innocente, fatta senza pensarci troppo. Ma Lotor la custodì nel proprio cuore come un tesoro.

Perché in quel momento, con Lance al suo fianco e il cielo spalancato sopra di loro, credette davvero che niente avrebbe potuto separarli.


***


Lance


“Lotor, guarda!” 

Lance si sporse dal bordo della scogliera celeste, indicando il mare di nuvole sotto di loro. La luce delle stelle ancora giovani si rifrangeva sulla superficie impalpabile, trasformandola in un mosaico scintillante.

“È bellissimo” mormorò, gli occhi pieni di meraviglia.

Lotor si avvicinò, incrociando le braccia, sbuffando leggermente;

“È solo luce riflessa”

Lance storse il naso

“Ma come puoi essere così noioso?”

Fece un passo indietro, poi un altro, poi si lanciò di corsa verso il bordo e saltò nel vuoto.

Per un attimo, il mondo si fece silenzioso.

Poi il vento gli riempì le orecchie mentre cadeva, rotolando tra le nuvole dorate. Rise, lasciandosi trasportare dalla corrente. Quella risata fresca e cristallina risuonò nell’aria

 “Lotor! Vieni anche tu!”

Non dovette nemmeno voltarsi per sapere che l’altro lo avrebbe seguito.

Lo faceva sempre.


***


Lotor


Lotor non aveva paura di saltare, ma rimase un attimo in piedi sul bordo, guardando Lance che scompariva tra le correnti luminose.

Non capiva come facesse a lanciarsi sempre così, senza esitazione.

A fidarsi ciecamente che il vento l’avrebbe accolto.

Scosse la testa e si gettò a sua volta.

L’aria gli scompigliò i capelli mentre cadeva in picchiata. Per un istante, si sentì come una cometa, libero da ogni vincolo, da ogni peso.

Poi Lance riapparve accanto a lui, afferrandogli la mano per stabilizzare la caduta.

Lotor lo guardò, sorpreso.

“Visto? Ti ho detto che era bellissimo”

Lance sorrideva, così luminoso da far sembrare le stelle più opache.

Lotor non rispose, ma strinse la sua mano un po’ più forte.

Perché in quel momento, volando tra le stelle, si permise di credere che sarebbero rimasti così per sempre.

Eppure, anche mentre sognavano e si divertivano insieme, il destino stava già tessendo la trama che un giorno, li avrebbe divisi.






europa91: (Default)
 

The Breaking Point




Cowt - 14 Terza Settimana - M2 set prompt “Orizzonte degli eventi” - Interferenza


Fandom: Moriarty the Patriot


Numero parole: 3943


Raiting: NSFW


Note: Ho inteso “interferenza” non solo nel senso fisico ma anche mentale. Albert continua a tormentare la mente di Mycroft e sembra non volergli dare pace XD Quanto resisterà Mr Holmes di fronte ad una tale distrazione?




Mycroft Holmes non perdeva mai il controllo.

Era il perno su cui ruotava l’Impero Britannico, la mente dietro ogni decisione politica, l’architetto delle strategie che tenevano Londra al sicuro. Un uomo con il potere di muovere letteralmente il mondo senza mai doversi alzare dalla sedia.

Eppure, bastava uno sguardo di Albert James Moriarty per mandare in frantumi ogni sua certezza, grande o piccola che fosse.

Era assurdo. Irritante. Inaccettabile.

Seduto di fronte al maggiore dei fratelli Moriarty, nel lusso discreto del club, Mycroft cercava di mantenere il controllo. Aveva imparato ad essere superiore a qualsiasi emozione, un maestro nell’arte dell’imperturbabilità. Ma ora, mentre il conte sollevava il calice con quel sorriso indecifrabile, sentiva la propria compostezza sgretolarsi.

Perché Albert James Moriarty non era come gli altri.

Non alzava mai la voce, non provocava apertamente. Non giocava d’azzardo con il caos come suo fratello William. No. Albert vinceva con la calma assoluta. Con la certezza di chi ha già previsto ogni mossa.

E Mycroft odiava il fatto che questo lo colpisse più di quanto volesse ammettere. Era un degno rivale, tanto da guadagnarsi la sua totale attenzione.

Prese un bicchiere tra le dita, solo per avere qualcosa da fare ma non bevve.

«Non avete risposto alla mia domanda» La sua voce era ferma, ma dentro si sentiva instabile. Troppo, per i suoi standard.

Albert inclinò appena il capo, una finta espressione stupita a dipingergli il volto «E quale sarebbe?»

Sei certo di non avermi cercato tu, Mr. Holmes?

Mycroft strinse la mascella. Non gli piaceva questa sensazione. Come se stesse cadendo in una trappola che non riusciva nemmeno a vedere. Come se Albert avesse il controllo.

Lo irritava. Lo affascinava.

Non seppe dire quale delle due cose fosse più pericolosa.

Albert si sporse leggermente in avanti, le sue dita affusolate sfiorarono appena il bordo del tavolo. Un gesto innocuo. Eppure, Mycroft avvertì una scarica di tensione elettrica, come se quel minimo movimento avesse rotto un equilibrio invisibile.

«Se non altro, è divertente vederti così teso» gli sussurrò ad una spanna dal suo orecchio in modo che solo Holmes potesse sentirlo.

Mycroft impallidì. Albert era troppo percettivo. Troppo vicino alla verità.

Abbassò lo sguardo sul liquore nel proprio bicchiere, per nascondere il lampo di irritazione che gli attraversò gli occhi. Ma il conte Moriarty rise piano, come se avesse già colto tutto.

Quell’’interferenza cresceva. Lo disturbava.

Doveva andarsene. Subito.

Ma rimase seduto e inizialmente non ne comprese il motivo, Mycroft disponeva di una sola certezza, quel disturbo molesto non voleva accennare a svanire.

Anzi, peggiorava.

Mycroft Holmes si era sempre distinto per la propria compostezza, per il controllo assoluto delle proprie reazioni. Eppure, in quel momento, seduto di fronte ad Albert Moriarty, sentiva le sue sicurezze sgretolarsi, come un castello di carte mosso dal vento.

La cosa peggiore era che il conte non aveva fatto nulla. Non lo aveva minacciato, non aveva sollevato la voce, ed il problema era proprio quello.

Albert non aveva bisogno di aggressività per destabilizzarlo. Bastava un gesto lento e misurato. Uno sguardo troppo prolungato. Una risata bassa e velata di ironia. Oppure un sussurro, contro il proprio orecchio.

E Mycroft, con suo enorme disappunto, se ne accorgeva. Ne era consapevole fino allo sfinimento.

«Sei insolitamente silenzioso»

La voce di Albert era pacata, come se stesse semplicemente facendo un’osservazione, parlando del tempo, ma Mycroft sentì il peso di quelle parole insinuarsi sotto pelle, come una lama affilata. 

Inspirò piano, cercando di mantenere il controllo. Non poteva dargli quel vantaggio, nessuna soddisfazione.

«Non c’è nulla di cui valga la pena parlare»

Albert sorrise appena. 

«Oh, ne dubito»

Mycroft serrò la mascella. Dannazione.

Era caduto in trappola e lo sapeva.

Albert non aveva bisogno di minarlo con parole esplicite. Lo stava studiando. Analizzando ogni piccolo segnale: la tensione nella sua postura, il modo in cui le sue dita si erano chiuse impercettibilmente attorno al bicchiere, quel lieve ritardo nelle sue risposte.

Mycroft si accorse troppo tardi che Albert aveva sollevato la mano. Non per un gesto brusco, ma per sfiorare appena il polsino della propria giacca. Un movimento banale.

Eppure, senza sapere perché, Mycroft sentì il respiro bloccarsi per un istante, il proprio battito accellerare.

Albert se ne accorse.

Fu un attimo. Uno di quei momenti in cui il tempo sembra fermarsi, in cui entrambi capiscono che qualcosa è cambiato.

Un lampo di comprensione attraversò gli occhi di Albert. Era sottile, quasi impercettibile, tuttavia Mycroft lo vide e in quell’istante capì di aver perso.

Perché Albert James Moriarty sapeva.

Sapeva che era in grado di farlo vacillare con niente. Che bastava una pausa studiata tra le parole, un’inclinazione impercettibile del capo, o più banalmente, uno sguardo, per compromettere la sua lucidità.

E la cosa peggiore?

Albert sembrava trovarlo divertente.

«Ti stai trattenendo, Holmes» 

Albert non lo disse con scherno. No, il suo tono era fin troppo leggero, quasi pigramente interessato. Ma Mycroft lo avvertì ugualmente come un colpo ben assestato. Il ragazzo sapeva giocare. 

Era un dato di fatto. Non una sfida, non una provocazione aperta. Solo la verità.

Mycroft avvertì un’ondata di irritazione crescergli dentro. Si sforzò di reprimerla, di respingerla nel solito angolo sicuro della propria mente ma  il danno era fatto.

Non avrebbe dovuto restare.

Non avrebbe dovuto cedere a quell’interferenza, a quella presenza ingombrante che gli comprometteva il raziocinio. Il conte Moriarty era pericoloso, sotto più di un aspetto.

Eppure, contro ogni logica, non si mosse.

A quel punto Albert inclinò leggermente il bicchiere in segno di brindisi.

Sembrò quasi che stesse celebrando la propria vittoria.

Mycroft alzò il proprio calice osservando ogni mossa del giovane conte.

Il maggiore dei fratelli Holmes non perdeva mai il controllo.

Mai.

Eppure, in quella stanza soffusa di luci dorate, con il brandy intatto nel proprio bicchiere e lo sguardo di Albert Moriarty su di lui, Mycroft sentiva il filo sottile della propria compostezza spezzarsi.

Doveva andarsene.

Doveva alzarsi e chiudere quella porta.

Doveva smettere di guardarlo come se stesse cercando una scusa per non farlo.

Ma era troppo tardi.

Albert aveva colto ogni segnale. Ogni fessura nella sua armatura. Non c’era più nulla da nascondere, nulla da negare. Lo sapeva ma non voleva ammetterlo, neppure a se stesso.

L’ultimo barlume di razionalità gli sussurrò che stava commettendo un errore, ma non importava. Perché Albert era ancora lì, il bicchiere tra le dita e quel sorriso appena accennato sulle labbra. Un sorriso che non era più soltanto divertito, ma sfidante.

Aspettava.

Lo sapeva, dannazione. Lo aveva capito prima ancora che Mycroft trovasse il coraggio di ammetterlo a se stesso.

E forse, in fondo, il maggiore dei fratelli Holmes voleva proprio questo.

La sedia si spostò appena quando si mosse. Il bicchiere sfiorò il tavolo con un suono sordo. Un secondo dopo, le sue mani afferrarono Albert per il colletto della giacca, e le loro bocche si scontrarono in un bacio che non aveva nulla di misurato.

Era troppo intenso. Troppo furioso.

Un bacio che non avrebbe mai dovuto esistere. Eppure eccoli lì.

Albert non esitò nemmeno un istante. Non si tirò indietro, non cercò di fermarlo. Anzi, lo accolse con la stessa calma con cui aveva accolto tutto il resto, le dita che risalivano lungo il tessuto della camicia di Mycroft per stringersi sulla sua nuca, trattenendolo.

Era una disfatta. E al tempo stesso, una vittoria.

Perché non c’era più distanza, non c’era più alcuna maschera da mantenere. Solo il bisogno crudo e incontrollato di portarsi addosso, di annullare quella tensione che li aveva logorati per troppo tempo.

Quando Mycroft si allontanò, il suo respiro era irregolare.

Albert lo guardò con la consueta compostezza, ma i suoi occhi smeraldini erano leggermente più scuri. La sua presa non si era ancora allentata, come se temesse una sua fuga o ripensamento.

«Eccoti qui, Holmes»

Un sussurro. Quasi compiaciuto.

Mycroft avrebbe dovuto reagire. Dire qualcosa, negare, ritrarsi. Ma ancora una volta non lo fece. Ormai non aveva più senso farlo.

L’interferenza aveva vinto, ma forse era ciò che aveva inconsciamente desiderato fin dall’inizio.

Mycroft avrebbe potuto dire qualcosa, oppure allontanarsi, riprendere il controllo, ricostruire la distanza necessaria per seppellire l’accaduto sotto il peso della razionalità.

Eppure, non si mosse.

Albert non parlava. Lo guardava, con quell’espressione indecifrabile che non gli lasciava appigli. Come se sapesse già tutto.

Come se avesse sempre saputo che sarebbe finita così.

Mycroft sentì un’ondata di frustrazione montargli dentro. Non avrebbe dovuto cedere. Eppure il calore del bacio, la presa di Albert sulla sua nuca, la naturalezza con cui aveva accolto la sua resa… tutto questo lo perseguitava ancora.

Si era lasciato andare. Lui, Mycroft Holmes.

Lo stratega impeccabile, il controllore dell’Inghilterra. Ridotto a questo.

Il peggio era che non poteva nemmeno negare quanto lo avesse desiderato.

Inspirò piano, cercando di raccogliere quei pensieri in una parvenza di ordine. 

«Dimenticalo» trovò il coraggio di mormorare.

Albert sorrise appena. Non divertito, non arrogante. Solo con quella quieta sicurezza che Mycroft aveva imparato a temere più di qualunque altra cosa. Era come una partita a scacchi dove ogni giocatore misurava con attenzione le prossime mosse.

«Dici davvero?» ancora quello sguardo, quel tono.

Silenzio.

Mycroft avrebbe dovuto rispondere di sì, con la stessa fermezza con cui chiudeva ogni discorso irrilevante ma ogni parola gli morì in gola perché Albert era ancora troppo vicino. Perché il sapore di quel bacio non era del tutto svanito.

Perché, dannazione, sapeva che non sarebbe mai riuscito a dimenticarlo.

Albert inclinò leggermente il capo, osservandolo con quella calma imperturbabile. 

«Non sei il tipo da commettere errori impulsivi, Holmes» gli fece notare con il solito garbo.

Mycroft irrigidì la mascella, cercando di controbattere.

«Eppure eccoci qui»

Albert lasciò il bicchiere sul tavolo con una lentezza studiata. 

«Forse perché non era un errore»

Mycroft chiuse gli occhi per un istante. Non gli dava tregua. Non gli lasciava un’uscita di sicurezza. Il conte Moriarty era un bastardo ma lui non poteva fare a meno di desiderarlo.

«Puoi fingere quanto vuoi,» proseguì Albert, con quella sua leggerezza tagliente. «Ma non sono io il problema, e lo sai»

No, non lo era affatto.

Il problema era che Albert aveva ragione. Lo era sempre stato.

E Mycroft odiava quanto, in fondo, gli piacesse. Quel gioco di potere, perdere il comando.

Albert si alzò in piedi, aggiustandosi la giacca con naturalezza. 

«Ora devo proprio andare ma ci rivedremo, Holmes» Una predizione. Come se fosse inevitabile.

E forse lo era davvero.

Mycroft rimase seduto, senza rispondere.

Ma, quando Albert si allontanò, non poté fare a meno di seguirlo con lo sguardo.

E seppe che era già troppo tardi per tornare indietro.

Albert aveva già fatto un passo verso la porta quando Mycroft finalmente si mosse.

Fu rapido, quasi violento nella sua decisione e non ci fu esitazione quando afferrò Albert per il polso, stringendolo con una forza che sapeva di furia trattenuta troppo a lungo. Albert si fermò. Si voltò appena, un sopracciglio leggermente sollevato. Calmo. Composto. Come sempre.

Quella tranquillità fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Perché Mycroft sapeva che non avrebbe dovuto farlo. La parte più razionale di lui, non ancora del tutto sopita, sapeva che avrebbe dovuto lasciarlo andare.

E invece, con un gesto brusco, il Direttore lo trascinò verso di sé.

Le loro bocche si scontrarono di nuovo, ma stavolta non c’era esitazione, non c’era alcun dubbio a frenarlo. Solo una necessità furiosa e innegabile.

Albert lo accolse senza resistenza, con la stessa naturalezza con cui aveva accolto tutto fino a quel momento. Mycroft lo spinse all’indietro, le mani già sulla sua camicia, il respiro spezzato da una tensione che era stanco di reprimere.

Se doveva perdersi, allora lo avrebbe fatto fino in fondo.

E mentre lo trascinava verso la propria camera da letto, sentì Albert ridere piano contro le sue labbra. Come se avesse vinto.

Albert non oppose resistenza.

Lasciò che Mycroft lo trascinasse lungo il corridoio, le dita ancora strette attorno al suo polso, la presa ferrea di un uomo che aveva finalmente smesso di lottare contro se stesso.

Eppure, quando raggiunsero la soglia della camera, il conte si fermò.

Mycroft si voltò di scatto, i suoi occhi bruciavano di impazienza, le labbra ancora leggermente arrossate dal bacio violento di poco prima. Ma Albert, invece di lasciarsi trascinare oltre, sollevò il mento con la consueta, irritante compostezza.

Stava aspettando. Non lo stava rifiutando. No, questo Mycroft lo sapeva. Albert voleva giocare, desiderava farlo aspettare.

Un gioco di potere. L’ennesimo fra di loro.

Un’ultima, sottile provocazione prima della resa definitiva.

«Ti piace comandare, vero, Holmes?» mormorò Albert, un accenno di sorriso sulle labbra.

Mycroft si irrigidì, il respiro ancora irregolare.

Il conte inclinò appena il capo, osservandolo con quella tranquillità esasperante, come se volesse vedere fino a che punto avrebbe potuto spingerlo, testarlo.

«Ma dimmi, è davvero questo che vuoi?» ciò che desideri Mr Holmes?

Le parole erano un veleno dolce, un filo teso che minacciava nuovamente di spezzarsi.

Mycroft contrasse la mascella. Basta, ne aveva abbastanza.

Lo spinse all’indietro, facendolo urtare contro il battente della porta. Un gesto privo della solita misura, carico di una tensione che non poteva più contenere.

Per un istante, Albert restò immobile. I loro volti erano vicini, troppo vicini, il respiro di Mycroft ancora agitato soffiava contro la pelle dell’altro.

Poi, finalmente, Albert sorrise. E cedette.

Fu una resa sottile, appena percettibile, un’inclinazione del corpo, una tensione che si allentava nelle sue spalle, un’espressione che perdeva ogni traccia di controllo. E quando Mycroft si spinse contro di lui per baciarlo di nuovo, Albert rispose con la stessa urgenza.

Questa volta, non c’era più spazio per il gioco.

Questa volta, erano entrambi condannati. Pronti per le fiamme dell’inferno.

Mycroft continuò a ripetersi che quella non era altro che un’altra partita.

Un gioco a cui aveva accettato di partecipare troppo tempo prima, il cui esito, forse, era già stato scritto prima ancora che ne prendesse coscienza.

Eppure, quando le loro labbra si scontrarono di nuovo, quando le dita di Albert James Moriarty scivolarono lungo la sua nuca con una delicatezza quasi crudele, comprese che non c’era alcuna strategia possibile.

Non stavolta. Non con lui.

Lo aveva trascinato in quella stanza con l’intenzione di reclamare il controllo, di dimostrare a se stesso che poteva cedere senza perdere la partita.

Ma Albert non si era mai mosso secondo le regole.

Lo capì nel momento esatto in cui si ritrovò con la schiena contro il materasso, il respiro ancora spezzato, mentre Albert lo osservava dall’alto con quella calma inaffondabile.

«Strano vederti così,» mormorò, passandosi una mano tra i capelli disordinati. «Di solito sei più composto» era una provocazione, l’ennesima di quella partita.

Mycroft gli afferrò il polso, un gesto automatico, quasi rabbioso. «Chiudi la bocca»

Albert sorrise, ma non rise. Non lo stava deridendo, più che altro lo stava studiando.

Mycroft lo detestò per questo. Per quanto lo trovasse inevitabile e per quanto nonostante tutto lo desiderasse.

Quando Albert si abbassò su di lui, la sua presa si allentò senza che se ne rendesse conto. Non sapeva dire chi dei due avesse davvero vinto, né se ci fosse mai stata una vittoria da ottenere. Sapeva solo che, per la prima volta dopo tanti anni, non pensava a nulla.

Non c’erano piani,strategie, non c’erano obblighi, non c’erano interferenze esterne a reclamare la sua mente.

Solo calore. Solo respiro. Solo il peso di Albert contro di lui, il ritmo incalzante dei loro corpi che cancellava ogni altro pensiero.

Forse, in fondo, era proprio questo il problema.

Perché Mycroft Holmes non si concedeva il lusso di non pensare mai. Eppure, in quella notte senza regole, senza domani, senza logica, Mycroft non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte.

Il tempo perse consistenza. Si accorse solo del calore, ustionante. Delle mani di Albert che tracciavano linee invisibili sulla sua pelle, dei respiri che si intrecciavano tra i loro corpi, del silenzio denso che li avvolgeva come un velo impalpabile.

Mycroft non era mai stato il tipo d’uomo che si lasciava andare. Mai del tutto.

Eppure, lì, sotto quel tocco misurato, quelle dita affusolate, sentiva la propria compostezza sfilacciarsi come un filo teso da troppo tempo.

Albert non aveva fretta. Sembrava quasi divertirsi a scoprire come ogni minima pressione, ogni movimento calibrato, potesse minare quella rigidità con cui Mycroft si ostinava a trattenersi.

Mycroft lo sapeva. Era a conoscenza del fatto Albert stesse ancora giocando, che si divertisse a lasciarlo sulle spine, condurlo fino all’orlo senza mai permettergli di cadere, quella era solo l’ennesima manifestazione del suo controllo.

Eppure, quando le labbra di Albert scivolarono lungo il suo collo, tracciando un percorso lento fino alla sua clavicola, non riuscì più a preoccuparsene.

L’abbandono arrivò in modo graduale, quasi impercettibile.

Un respiro più profondo. Un battito che saltava un colpo. Un fremito che non riuscì a reprimere.

Mycroft si aggrappò alle lenzuola, serrò la mascella, tentò disperatamente di non lasciarsi sopraffare da tutte quelle sensazioni.

Albert si accorse di tutto. Lo vide nella tensione delle spalle, nella sua resistenza ostinata, in quel sottile, ridicolo tentativo di mantenere il controllo anche quando non  c’era più nulla da controllare. Fu allora che si mosse con più sicurezza, con un’inflessibilità che non lasciava spazio ad errori o esitazioni.

«Rilassati,» mormorò, la voce ridotta ad un soffio contro la sua pelle.

Era una richiesta. Ma anche un ordine.

Mycroft sollevò lo sguardo, furioso ma al tempo stesso incredibilmente vicino alla resa. Allora Albert lo baciò. Un bacio che non lasciava via di scampo, che spezzava ogni resistenza, che lo trascinava giù in un abisso che il maggiore dei fratelli Holmes non sapeva più se temere o desiderare.

Non si accorse nemmeno di quando il suo corpo iniziò a rispondere con la stessa intensità, di quando le sue dita si strinsero attorno ai fianchi di Albert, di quando il desiderio divenne una corrente impossibile da arrestare. Si accorse solo del momento in cui non ci fu più alcuna barriera tra loro. Albert si mosse contro di lui con una lentezza esasperante, testando ogni reazione, cercando ogni sintomo di  cedimento.

Solo allora Mycroft si arrese.

Lasciò andare la tensione, il controllo, la compostezza che aveva sempre ritenuto indispensabile. Non c’erano più strategie, né piani di riserva. Solo quel calore e il ritmo costante dei loro corpi, che si inseguivano e si trovavano in un equilibrio tanto fragile quanto perfetto.

La voce di Albert, bassa e quasi divertita, si dissolse in un respiro spezzato quando Mycroft lo tirò più vicino. Non importava più nulla. Solo questo. Solo il presente e loro.

Mycroft non sapeva dire quando l’equilibrio si fosse ribaltato. Forse era avvenuto nel momento esatto in cui Albert aveva abbassato la guardia, quando la sua compostezza perfetta si era incrinata in un fremito appena percettibile.

Sottile. Impercettibile. Ma Mycroft lo aveva visto e non aveva esitato. Lo aveva spinto all’indietro, il peso del suo corpo a schiacciarlo contro le lenzuola, le dita a scivolare lungo la sua pelle con una sicurezza che non ammetteva repliche.

Albert sollevò lo sguardo, il respiro appena alterato. Non c’era sorpresa nei suoi occhi. Solo la consapevolezza di chi sapeva esattamente dove quella notte li avrebbe condotti.

«Era questo che volevi, vero?» mormorò Mycroft, la voce bassa, leggermente roca.

Albert gli sorrise. Un sorriso tagliente, eppure bellissimo.

«L’ho mai negato?»

Non serviva aggiungere altro.

Mycroft affondò le dita nei suoi capelli castani, lo baciò con una ferocia che non si era mai concesso, gli strappò ogni resistenza con la precisione calcolata di un uomo che, per una volta, non era disposto a pensare.

Era diverso dal solito.

Non perché fosse più istintivo, o più disperato ma perché per la prima volta stava scegliendo di lasciarsi andare.

Ogni tocco, ogni gesto era misurato, calcolato per trascinare Albert esattamente dove voleva. Desiderava vederlo cedere poco a poco, sotto il suo peso, sotto il ritmo inesorabile che imponeva ai loro corpi.

Albert si aggrappò alle sue spalle, le dita a segnare trame invisibili sulla sua pelle. Lo voleva. Mycroft poteva sentirlo nel modo in cui il suo corpo rispondeva, nel respiro spezzato che tentava invano di controllare.

Non c’era più nulla da trattenere.

Solo il movimento, lento all’inizio, poi più sicuro. Solo il suono soffocato dei loro respiri, l’eco di parole che non avevano bisogno di essere pronunciate.

Esisteva solo Mycroft, che stringeva i fianchi di Albert, che guidava ogni loro incontro con la meticolosa attenzione di chi voleva ricordare ogni istante. Imprimerlo nella propria mente. E quando il piacere si fece insostenibile, quando la tensione raggiunse il culmine e li trascinò oltre il punto di non ritorno, Mycroft si concesse di chiudere gli occhi.

Non pensò a cosa sarebbe successo dopo.

Non pensò a Londra, alla sua posizione, agli obblighi che li attendevano oltre quella porta.

Pensò solo al calore del corpo di Albert sotto il suo.

All’interferenza che, per quella notte, non aveva alcuna intenzione di combattere.

Mycroft Holmes non era mai stato un uomo impulsivo. Ogni sua decisione era sempre stata il risultato di un calcolo preciso, di un equilibrio tra necessità e strategia.

Eppure, lì, con Albert sotto di lui, con il calore della sua pelle contro la propria e il suono spezzato del suo respiro nell’aria, non riusciva a pensare a nient’altro.

Ogni regola che si era imposto sembrava crollata.

Aveva passato anni a costruire la sua compostezza, a farne un’armatura impenetrabile, una barriera tra sé e il resto del mondo. Albert l’aveva sempre osservata con un sorriso divertito, come se avesse sempre saputo che, alla fine, sarebbe stato lui a distruggerla. Mycroft l’aveva lasciato fare. Lo stava lasciando condurre anche in quel momento. Perché per quanto gli piacesse illudersi del contrario, era stato lui a cedere per primo. Lentamente, consapevolmente.

Con il modo in cui le sue mani tracciavano linee invisibili sulla pelle di Albert, con la sicurezza con cui guidava ogni loro movimento, con la volontà ferrea con cui lo tratteneva sotto di sé, imponendo il proprio ritmo con una precisione quasi crudele.

Ma la verità era che non era più un gioco.

Mycroft lo comprese nel momento in cui il respiro di Albert si spezzò contro il suo collo, nel modo in cui le sue dita si strinsero intorno alle sue braccia con una forza disperata, nelle labbra che si schiusero in un gemito soffocato, quasi arrendevole.

Albert Moriarty, che non si arrendeva mai.

A quel punto Mycroft avrebbe dovuto sentirsi vincitore. Eppure, nell’istante esatto in cui il conte chiuse gli occhi e lasciò andare ogni resistenza, comprese che non c’era nessuna vittoria da ottenere.

Era lui quello che stava cadendo. Crollando lentamente nella tentazione di un corpo che non avrebbe dovuto desiderare. Scivolando nella possibilità di un attimo fuori dal tempo, dove nulla esisteva se non loro.

Stava precipitando in una fitta lancinante di consapevolezza, quando sentì il piacere accumularsi, travolgerlo e infine lasciarlo senza difese.

E quando tutto finì, Mycroft rimase immobile per un lungo momento.

Il suo respiro era ancora irregolare, il corpo di Albert rilassato sotto il suo.

Sapeva che non avrebbe dovuto fermarsi a pensare. Non ora.

Lui però era Mycroft Holmes, pensava sempre.

E il pensiero più pericoloso di tutti lo colse mentre il calore dell’orgasmo si dissolse in un silenzio troppo assordante.

Albert non era più un’interferenza. Non era più solo un pensiero insistente, un fastidio da razionalizzare, una distrazione da controllare.

Era qualcosa di più.

Ed era questo a spaventarlo tanto. 



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