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Through the Looking-Glass
Cowt-14 Quarta Settimana - M2 “Simboli e Archetipi” - Specchio
Fandom: Jujutsu Kaisen
Numero parole: 2693
Note: Megumi attraversa uno specchio e si ritrova in un’altra realtà.
La superficie rifletteva il suo volto con una fedeltà inquietante. Nessuna distorsione, nessuna crepa: solo lui, Megumi Fushiguro, immerso in una luce fredda e artificiale.
Eppure, sentiva che vi era qualcosa di sbagliato in quella situazione.
Il vetro non restituiva solo la sua immagine. Per un istante, Megumi credette di scorgere un’ombra dietro di sé, un riflesso che non apparteneva al magazzino abbandonato in cui si trovava. Si voltò di scatto, ma alle sue spalle c’erano solo casse di legno ammuffite e polvere che danzava nell’aria.
I suoi occhi tornarono allo specchio. L’ombra era ancora lì. Lo osservava.
Un brivido gli risalì la schiena. Non era una maledizione. Non era un trucco della mente. Il riflesso era… diverso. Il magazzino oltre il vetro sembrava più luminoso, e c’era qualcosa che lo rendeva innaturalmente nitido, come se appartenesse a un’altra realtà.
Poi lo specchio tremò.
Non come un oggetto colpito dal vento, ma come una superficie liquida sfiorata da un sasso e prima che potesse allontanarsi, la lastra cedette, la sua consistenza mutò sotto il suo tocco.
E Megumi cadde. Come Alice nella tana del bianconiglio.
Cadde attraverso il vetro, attraverso il suo stesso riflesso e per un istante fu come se il mondo si fosse sgretolato in una vertigine di frammenti luminosi.
Quando riaprì gli occhi, la voce che sentì non era quella di Gojo Satoru.
“Ah, finalmente sveglio, ragazzino.”
Megumi si sollevò di scatto. Il battito accelerò. Non era nella Jujutsu High, né nel magazzino. L’aria sapeva di metallo e tabacco, e davanti a lui, seduto con l’aria di chi non ha mai avuto bisogno di giustificarsi con nessuno, c’era un uomo con i capelli scuri e un sorriso storto.
Toji Fushiguro. Suo padre.
“Sembri sconvolto,” disse l’uomo, piegando leggermente il capo. “T’ho visto un sacco di volte addormentarti come uno sfigato sul divano, ma mai con quell’aria da fantasma.”
Megumi sentì il cuore fermarsi per un istante. Non era possibile. Non poteva essere possibile.
Eppure, quando abbassò lo sguardo, vide che le sue mani tremavano.
Megumi inspirò a fondo, cercando di reprimere il caos che gli ribolliva dentro. Non poteva farsi prendere dal panico. Non ancora.
Gli occhi di Toji lo scrutavano con una curiosità pigra, come se stesse aspettando che dicesse qualcosa.
“Sto… bene,” mormorò infine Megumi, saggiando il terreno. La sua voce suonava quasi estranea alle sue stesse orecchie.
Toji inarcò un sopracciglio. “Mh. Non sembrerebbe.”
Si alzò dalla sedia con un movimento fluido, sciolto. Megumi lo seguì con lo sguardo, ancora incapace di credere a quello che aveva davanti. Toji Fushiguro era morto. Lo sapeva. Eppure era lì, in piedi davanti a lui, in carne e ossa, come se non ci fosse nulla di strano in tutto questo.
Megumi si guardò attorno. La stanza era spoglia, appena illuminata da una lampada da tavolo. Un appartamento piccolo, con il pavimento segnato dal tempo e l’odore di ramen istantaneo nell’aria. Non la Jujutsu High. Non la sua realtà.
Il cuore gli martellò nel petto.
“Sei sicuro di stare bene?” insistette Toji, avvicinandosi. La sua voce aveva un peso che Megumi non gli aveva mai sentito. Familiare e al tempo stesso completamente aliena.
Fu proprio quel tono a fargli realizzare quanto fosse diversa quella realtà. Toji lo guardava senza la distanza di un estraneo. Senza il gelo di un mercenario. Lo guardava come qualcuno che lo conosceva. Come un padre. Fu strano ma anche piacevole.
Megumi deglutì a fatica.
“…Che giorno è oggi?” chiese, cercando di mantenere la voce ferma.
Toji sbuffò, grattandosi la nuca. “Che razza di domanda è?”
Megumi non rispose. Non poteva dire la verità. Non ancora.
Toji scrollò le spalle. “È il dieci di novembre. Martedì.”
Un nodo gli si strinse nello stomaco. Era la stessa data della sua realtà. Lo stesso giorno. Ma nulla di ciò che aveva intorno gli apparteneva. Si sentiva come un estraneo intrappolato in un incubo senza fine.
“Sei strano oggi, Megumi,” continuò Toji, incrociando le braccia. “È successo forse qualcosa a scuola?”
Megumi irrigidì le spalle. Scuola. Quindi in questa realtà non era stato cresciuto da Gojo. Non era stato addestrato alla Jujutsu High. Quel mondo era assurdo.
L’aria gli parve improvvisamente più pesante. Il petto più stretto.
Dove diavolo era finito? Sukuna… Itadori… Nobara chissà cosa ne era stato di loro.
Megumi abbassò lo sguardo sulle sue mani, come se potesse trovarci incise delle risposte. Le dita erano le sue, lo sentiva, eppure… c’era qualcosa di diverso. Le nocche leggermente più segnate, piccole cicatrici sui palmi che non ricordava di avere. Come se avesse vissuto un’altra vita. Come se quello non fosse davvero il suo corpo.
Alzò lentamente la testa, cercando di assimilare l’ambiente. Il piccolo appartamento aveva un’aria vissuta ma essenziale. Un divano scuro con una coperta buttata sopra senza troppa cura, una pila di bottiglie d’acqua vuote accanto a un tavolino basso, la cucina a vista con un lavandino pieno di piatti lasciati lì da chissà quanto. Disordine, ma non trascuratezza.
Un dettaglio gli fece stringere i denti: su una mensola, accanto a una scatola di sigarette e qualche banconota sgualcita, c’era una foto. Una foto che non aveva mai visto prima.
Si avvicinò, il cuore in gola eppure pieno di una curiosità difficile da trattenere.
Nell’immagine, più consumata di quanto avrebbe dovuto essere, c’era lui. Più giovane, forse sui dieci anni, vestito con una felpa larga e i capelli ancora più spettinati del solito. Accanto a lui, Toji gli stringeva una mano sulla testa, sfoggiando un ghigno compiaciuto. Era una cerimonia di diploma.
Megumi sentì un brivido freddo lungo la schiena. Non esisteva nessuna foto del genere nella sua realtà.
Doveva andarsene. Doveva trovare un modo per tornare indietro, subito.
“Allora?” La voce di Toji lo riportò alla realtà. “Non mi hai ancora detto se hai combinato qualche casino a scuola.”
Megumi si irrigidì. Non poteva rispondere senza sapere di più. Doveva stare attento.
“Non ho voglia di parlarne,” tagliò corto, provando a sembrare se stesso.
Toji lo squadrò per un attimo, poi scrollò le spalle con un sorriso stanco. “Fai come ti pare. Tanto se fosse qualcosa di grosso, l’avrei già saputo.”
Megumi trattenne il fiato. Da chi?
Si costrinse a mantenere il controllo. “La scuola…” iniziò, scegliendo con cautela le parole, “è lontana da qui?”
Toji lo guardò con un sopracciglio alzato. “Sei sicuro di non esserti beccato una botta in testa?”
Megumi lo fissò senza rispondere.
L’uomo sbuffò e si passò una mano tra i capelli scuri. “No, non è lontana. Due fermate di treno. Anche se, onestamente, non capisco perché tu ci perda tempo.”
Megumi sentì un brivido di inquietudine. Che scuola frequentava, allora? Era uno studente comune?
Doveva scoprirlo. Doveva capire quanto fosse cambiata questa realtà. E soprattutto… cosa fosse successo a Gojo Satoru.
Megumi osservò la propria riflessione nello specchio della stanza. La divisa della scuola, camicia bianca impeccabile, maglione scuro, pantaloni dal taglio formale, gli sembrava estranea. Non era la divisa della Jujutsu High. Non gli apparteneva, eppure il tessuto si adattava perfettamente al suo corpo, come se fosse abituato a indossarla ogni giorno.
Si passò una mano tra i capelli, cercando di riordinare i pensieri. Il clan Zenin aveva scelto la sua scuola. Questo significava che in questa realtà, a differenza della sua, Toji non aveva mai rotto del tutto i legami con loro. Era rimasto.
Ma perché?
Megumi aveva sentito mille volte la rabbia di suo padre nei confronti degli Zenin. Il disprezzo. L’odio puro. Secondo Gojo era disposto a venderlo per ripagare i propri debiti. Eppure, in questa realtà alternativa, sembrava che avesse fatto un compromesso, che avesse permesso al clan di avere voce nella sua educazione.
Cosa gli avevano offerto in cambio? E che fine aveva fatto sua madre? Tsumiki?
Megumi sentì un brivido lungo la schiena. Non aveva tempo per le ipotesi. Doveva vedere quella scuola con i propri occhi.
***
L’istituto scelto dal clan Zenin era un edificio imponente, dalle mura alte e dalle finestre lunghe e strette, come occhi vigili puntati su di loro. L’atmosfera era austera, perfettamente in linea con l’idea che Megumi aveva degli Zenin: ordine, disciplina, potere.
Mentre attraversava il cortile, notò che molti studenti lo guardavano con curiosità, ma nessuno si avvicinò. Erano distanti, rispettosi, forse perfino intimoriti.
Era un riflesso del suo status nel clan? In questa realtà, Megumi aveva il peso di un nome che nella sua vita originale aveva cercato di ignorare.
“Megumi”
La voce lo fece fermare.
Si voltò e vide un ragazzo avvicinarsi. Alto, capelli chiari tirati indietro, portamento impeccabile. Gli bastò un attimo per riconoscerlo.
Naoya Zenin.
Il sangue gli si gelò nelle vene. Lo aveva intravisto un paio di volte nel suo mondo e non gli era affatto piaciuto.
Naoya si fermò davanti a lui con un sorriso compiaciuto, lo sguardo che lo scrutava con un misto di curiosità e superiorità.
“Non ti ho visto questa mattina all’allenamento,” commentò con noncuranza. “Stai forse cercando di sottrarti ai tuoi doveri, Megumi?”
Il moro serrò la mascella. Anche in questa realtà, Naoya conservava quell’atteggiamento sprezzante che gli dava sui nervi.
“Ho avuto una mattinata impegnata,” rispose, mantenendo il tono neutro.
Naoya inclinò la testa, come se lo stesse valutando, soppesando le sue parole. Poi fece un passo avanti, invadendo il suo spazio personale.
Megumi percepì un lieve cambiamento nell’aria, un odore appena accennato che non aveva mai notato prima. Muschiato, intenso. Dominante. Gli mancò il fiato.
Il suo corpo reagì con una tensione involontaria, un brivido scomodo lungo la schiena.
Naoya sorrise. “Ah, quindi non lo sapevi ancora.”
Megumi lo fissò, confuso. “Di cosa stai parlando?”
L’altro si limitò a ridacchiare. “Hanno aspettato fin troppo a dirtelo, ma non posso biasimarli. Sei un Fushiguro, dopotutto. Uno scarto, almeno fino a quando non si è scoperta la verità su di te”
Un fastidio viscerale si attorcigliò nello stomaco di Megumi.
“Smettila di parlare per enigmi” non ci stava capendo più nulla.
Naoya si avvicinò ancora, inclinando leggermente il viso accanto al suo orecchio. Troppo vicino. Troppo invadente.
“Sai come funziona la gerarchia, vero?” sussurrò, e Megumi sentì il calore del suo respiro contro la pelle.
“Alpha, Beta, Omega. Il tuo corpo lo sa già, anche se la tua mente ancora lo rifiuta.”
Gli occhi di Megumi si spalancarono. Omega?
Naoya si allontanò appena, osservando la sua espressione con divertimento.
“Oh, sì. Sei proprio un Omega, cugino. E sai cosa significa?”
Megumi si sentì improvvisamente soffocare. L’odore nell’aria sembrava più forte, quasi opprimente.
Fushiguro si irrigidì, il cuore che batteva troppo forte nel petto. Omega. La parola gli rimbombava nella testa, priva di senso e allo stesso tempo carica di un significato che il suo corpo sembrava riconoscere prima ancora della sua mente.
“Stai mentendo,” sibilò, cercando di mantenere la calma. Non capiva come mai quel nome gli provocava tanto ribrezzo, paura, mortificazione.
Naoya rise, con quella sua espressione di puro divertimento.
“Oh, davvero? Allora perché sei così teso?” Fece un passo indietro, scrollando le spalle con noncuranza.
“Ti hanno davvero tenuto all’oscuro di tutto, eh? Che famiglia amorevole”
Megumi sentì un brivido di rabbia. Toji lo sapeva? Il clan lo sapeva? E soprattutto, perché nessuno gli aveva mai detto nulla? Che significava quella parola, era forse una malattia? Una maledizione?
Naoya lo osservò con un sorriso affilato. “Lascia che ti aiuti a capire, allora. Non è una sorpresa che tu sia un Omega. Sei sempre stato più agile che forte, più stratega che istintivo. Eppure, hai sempre avuto qualcosa che attirava l’attenzione, non è vero?” Si avvicinò di nuovo, la sua presenza opprimente. “Quella sensazione di essere osservato. Studiato. Ora sai perché” Sei uno scarto, come tuo padre.
Megumi serrò i pugni, un senso di nausea che gli si attorcigliava nello stomaco. Tutto questo… tutto quello che Naoya stava dicendo… era la verità? Eppure qualcosa ancora gli sfuggiva.
“Ti abituerai,” continuò il cugino con tono condiscendente. “Il tuo corpo imparerà a riconoscere gli Alpha, a reagire alla loro presenza, a capire qual è il tuo posto.”
Il sangue di Megumi ribollì. “Non ho un ‘posto’ in questa stupida gerarchia.”
Naoya inclinò la testa, divertito. “Ah, ma ce l’hai eccome. E il clan se ne assicurerà.”
Megumi sentì un gelo improvviso scivolargli lungo la schiena. Il clan. Gli Zenin sapevano tutto.
Megumi non si rese nemmeno conto di quando le sue gambe cedettero. Sentì solo un senso di vertigine e una pressione opprimente nel petto.
Qualcuno, Naoya? Un altro studente? lo afferrò per un braccio, trascinandolo via. Le voci intorno a lui si fecero ovattate, come se provenissero da una distanza impossibile.
Quando tornò lucido, si trovava sdraiato su un lettino d’infermeria, l’odore pungente di disinfettante che gli pizzicava le narici. Il soffitto bianco sopra di lui sembrava oscillare leggermente, mentre il suo corpo era ancora percorso da brividi.
“Sei sveglio.”
Megumi si girò lentamente verso la voce. Una donna in camice bianco, probabilmente l’infermiera della scuola, lo stava osservando con un misto di preoccupazione e curiosità.
“Era la tua prima volta, immagino,” disse con un tono più morbido del previsto.
Megumi si sollevò a fatica sui gomiti. “Di che diavolo stai parlando?”
L’infermiera lo studiò per un momento, poi si sedette accanto al letto, prendendo un taccuino. “Il tuo primo contatto consapevole con un Alpha. È normale sentirsi disorientati. I suoi feromoni hanno innescato una reazione nel tuo corpo”
Megumi trattenne il respiro. No. Non poteva essere vero.
Ma dentro di sé, una parte di lui lo aveva sempre saputo. Lo aveva sempre avvertito.
Il modo in cui percepiva le persone attorno a lui. L’istintiva sensazione di allerta vicino a certe persone, il disagio inspiegabile in alcune situazioni, la facilità con cui captava dettagli sottili nelle emozioni degli altri. Era sempre stato lì. Solo che non lo aveva mai riconosciuto per quello che era.
E poi, la realizzazione più grande di tutte.
Questo non era il suo mondo. Non era lui ad essere un Omega.
Il suo cuore saltò un battito. Lui non era il Megumi che apparteneva a quella realtà.
Si era scambiato con la sua controparte di questo mondo. Un Fushiguro Megumi che era cresciuto nel clan Zenin. Un Megumi che sapeva di essere un Omega. Un Megumi che… ora era rimasto intrappolato dall’altra parte.
Si coprì il volto con una mano, cercando di reprimere il panico che gli attanagliava il petto poi si lasciò cadere nuovamente sul lettino, fissando il soffitto senza realmente vederlo. Il cuore gli batteva ancora forte, ma non per la paura. No, era qualcos’altro. Un senso di smarrimento viscerale, come se fosse stato strappato da sé stesso.
Se lui era qui… allora dove si trovava l’altro Megumi? L’altro se stesso così debole, vulnerabile.
L’idea gli attanagliò lo stomaco. Il sé di questo mondo, cresciuto con Toji, con il clan Zenin, che conosceva le regole di questa società distorta… si era ritrovato al suo posto, nella sua realtà.
Alla Jujutsu High.
Tra Gojo, Yuji, Nobara.
Megumi sentì un nodo serrargli la gola. Cosa stava facendo quell’altro Megumi in sua assenza? Si era accorto dello scambio? Aveva capito che non apparteneva a quel mondo?
E soprattutto… Gojo se ne era accorto?
Il pensiero lo colpì con una forza inaspettata. Satoru Gojo era sempre stato invadente, sempre troppo attento ai suoi cambiamenti d’umore, sempre pronto a provocarlo… possibile che non avesse notato la differenza?
E Yuji? Nobara? Quanto tempo ci avrebbero messo prima di capire che quello non era il vero lui?
Megumi chiuse gli occhi, cercando di reprimere l’ansia che gli serrava il petto. Pensare a loro gli faceva venire voglia di alzarsi e scappare, di cercare un modo per tornare indietro subito. Ma non aveva idea di come fare.
L’unica certezza che aveva era che si era risvegliato in un mondo che non gli apparteneva.
E che, da qualche parte, il suo vero posto era occupato da qualcun altro.
Con quell’ultimo pensiero, il peso della stanchezza lo trascinò giù, e il sonno lo avvolse prima che potesse opporsi.